Segnare il primo goal della propria vita in Champions League in una finale, magari decidendola, è roba da predestinati. In tempi recenti i era riuscito Juliano Belletti con il Barcellona nel 2006. L’ultimo era stato Ilkay Gündogan nella finalissima tutta tedesca tra Bayern Monaco e Borussia Dortmund, senza però vincerla. Ieri sera, a Oporto, anche lui era in campo. Dalla parte sbagliata. Mentre dall’altra un vero predestinato realizzava il suo primo goal nella massima competizione europea per club e sanciva il trionfo dei Blues. Il suo nome? Kai Havertz. Ovviamente.
Fino all’estate il suo nome era più noto agli addetti ai lavori che al grande pubblico. In effetti gli è sempre mancato il grande palcoscenico. Da un lato il Bayer Leverkusen non è mai riuscito a concederglielo, dall’altro lui ha fatto fatica a prenderselo. La stagione 2019/20 l’ha iniziata in Champions e l’ha conclusa in Europa League. Ha giocato contro Atlético Madrid, Juventus, Inter. Senza esibire lampi di talento, al contrario di quanto capitava in Bundesliga in ogni weekend. Ecco perché ha sentito il bisogno di cambiare aria, di fare un passo in avanti, di andare al Chelsea. Sui due palcoscenici più grandi del mondo a livello di club: la Champions League e la Premier League.
Getty ImagesChi lo ha seguito in Bundesliga non aveva dubbi che l’investimento quasi da tripla cifra di milioni di euro effettuato dal Chelsea alla lunga avrebbe portato i suoi frutti. Il classe 1999 è sempre stato un gioiellino. Un diamante grezzo per certi versi. Un giocatore dal talento smisurato, ancora da temprare. Uno che comunque si è concesso una stagione da 17 goal nella massima serie tedesca ancora prima di compiere vent’anni. Per giunta giocando da trequartista, il ruolo in cui si trova meglio. “A metà tra il 9 e il 10” ha dichiarato Tuchel. Lo scorso anno con Peter Bosz al Bayer ha interpretato a tratti il ruolo di attaccante, di riferimento offensivo. Ci si è ritrovato anche ai Blues negli ultimi mesi.
La sua avventura non era partita con il piede giusto. Aveva esordito contro il Brighton da ala, inseguendo terzini. Non propriamente la sua ambizione e nemmeno la sua miglior dote. Nella confusione dei primi mesi con Frank Lampard ha finito per giocare anche come interno di centrocampo. A parte una tripletta al Barnsley in Coppa di Lega, erano stati i suoi limiti ad emergere piuttosto che i suoi pregi. I primi mesi sono stati di adattamento, tra Covid-19 e necessità di calarsi in una realtà enormemente diversa rispetto a quella del suo passato.
L’arrivo di Thomas Tuchel in panchina è stata la sua epifania. Un po’ come per tutto il Chelsea. Il tecnico ha portato chiarezza di idee, un gioco codificato. Come a Leverkusen, con il suo mentore Peter Bosz, l’uomo che più di tutti è riuscito a fargli esprimere il suo potenziale pieno. Lo aveva fatto esordire l’attuale tecnico del PSV Roger Schmidt a 17 anni e 4 mesi. Responsabilità tutto sommato agevole: il nativo di Aachen, entrato nel sistema delle giovanili del Bayer a 11 anni, aveva già fatto capire a tutta la Germania di cosa fosse capace a livello giovanile. Tanto da saltare di fatto il passaggio in Under 19 nel suo club. A giugno 2016 campione nazionale con il Bayer, quattro mesi dopo regolarmente con la prima squadra. Anche nella Germania è saltato direttamente dall’unser 19 alla Mannschaft senza transitare per l’Under 21.
La sua crescita è stata costante. È passata per tantissimi sacrifici. Forse neanche i suoi genitori lo immaginavano. Per anni lo hanno visto viaggiare avanti e indietro da Aachen a Leverkusen per oltre due ore al giorno, con i libri in mano, con il sogno di giocare a calcio. Tutto iniziato grazie alla passione del nonno e ad un vicino che lo aveva visto giocare per strada. E pensare che all’inizio il club del suo quartiere non lo voleva. Troppo piccolo per giocare con gli altri. A 4 anni. Quando ha iniziato, non faceva vedere palla a nessuno.
Sacrifici, soprattutto per la scuola. Sì, perché per poter giocare il giovane Kai doveva conseguire certi risultati a scuola. Ciò significava dormire poche ore prima dei compiti in classe quando la partita si giocava la sera e magari andava ai rigori: ha raccontato di un esame difficilissimo da affrontare dopo la partita con il Lotte di DFB-Pokal dell’ottobre 2016, peraltro persa ai rigori dal Bayer nonostante il suo centro dal dischetto. La stessa scuola che gli ha tolto anche la possibilità di giocare la partita di Champions League contro l’Atlético Madrid del 15 marzo 2017 a causa di un compito importantissimo.
Sapeva che avrebbe avuto altre occasioni. Riavvolgiamo il nastro in avanti. Sono passati 4 anni, 2 mesi e 14 giorni. Di compiti Havertz ora non ne sente più parlare. Gli unici sono quelli che il suo allenatore Thomas Tuchel gli dà quando è in campo. Sono chiari, come le sue idee da un paio di mesi a questa parte. O forse qualcosa in più. L’arrivo del tecnico tedesco lo ha sbloccato mentalmente. Ha iniziato a sentirsi di nuovo in condizione di provare la giocata, cosa che capitava raramente nei primi mesi. Ha iniziato a leggere meglio il gioco, si è abituato ad un calcio diverso grazie alle idee del proprio allenatore. Che lo ha fatto giocare meno rispetto a Lampard, ma altrettanto lo ha messo in condizione di rendere meglio.
È tutto racchiuso nella freddezza con cui è riuscito a scavalcare Ederson e mettere in ginocchio il Manchester City. Per confermare il suo status di ‘Man of the Match’ ha offerto anche a Pulisic il pallone del 2-0, un cioccolatino non raccolto dallo statunitense. Poco male, col senno del poi. Il goal del ragazzo di Aachen è stato abbastanza. Ha esultato con un enorme sorriso stampato, scivolando sul campo alla Didier Drogba, che quell’esultanza l’aveva sfoderata nove anni prima in un’altra finale, contro il Bayern all’Allianz Arena.
In molti in Inghilterra per mesi si sono fatti domande su quell’etichetta del prezzo così alta pagata dal Chelsea. Chi non se ne è mai fatte è stato il diretto interessato. Che ieri sera a ‘BT Sport’ con la sua immensa genuinità a domanda a riguardo ha risposto così.
“Ad essere onesto in questo momento non me ne frega un cazzo, abbiamo appena vinto la fottuta Champions League”.
Talmente genuino ed educato che poche ore dopo si è anche scusato suoi social per aver usato le parolacce. A scuola non sarebbe andato bene. Dopo una finale di Champions League, invece, vale quasi tutto. Con buona pace di mamma e papà.



