
Ci sono tanti modi di essere un terzo portiere. C'è il giovane numero uno, che non ha indosso il numero uno, ma un calcolo matematico decisamente più alto. Il 99, ad esempio. C'è poi l'esperto sapiente che conosce tutto dei guantoni, vita e miracoli di ciò che ha portato sopra le mani per vent'anni da professionista, più altri dieci da sognante desideroso di eccellere. E l'estremo difensore doppiamente estremo. Under 30, ma over 21. Una via di mezzo in cui si è titolari imprescindibili o secondi pronti a tutto per scavalcare il prescelto.
Anche il secondo, difficilmente, è in quell'età che segna per sempre un giocatore, compreso il portiere. Sotto i, sopra i. Ma con possibilità di giocare, altrimenti addio. Ma ci sono le eccezioni, scegliere una e due volte di andare avanti, compiendo i trent'anni dopo aver sempre guardato il campo dalla panchina in ogni competizione, in ogni minuto. Chiedere a Julio Sergio.
Non Inter, non Cesar. Roma, Bertagnoli. Julio Sergio, cinque anni in giallorosso, tre dei quali senza mai scendere in campo. Ma proprio mai. Eppure la sua carriera pre-Serie A l'aveva costruita, senza infamia né lode, in Brasile. Insomma, avrebbe potuto essere titolare altrove senza problemi, ma la situazione capitolina non gli dispiaceva. Tra l'adagiarsi e la sicurezza che prima o poi sarebbe stato il suo momento.
Un momento che per Julio Sergio arriva nel 2009, poco prima di compiere i trentuno anni. Doni è k.o, Artur non convince, Spalletti (all'ultima curva prima del capolinea con la Roma) lo butta dentro dal 1' proprio nella gara più attesa dai tifosi. Anzi diciamo la seconda, dopo il derby.
La Juventus vince 3-1, ma il brasiliano quasi esce dal campo col sorriso sulle labbra. Quasi, perché si tratta di una sconfitta, per lo più in casa, per per lo più contro Madama. Eppure da allora, sarà lui a prendersi quella maglia da titolare tanto sperata ed attesa.
Attesa tre anni, guardando tutti passargli avanti, nonostante forza, capacità indiscussa, desiderio di emergere. Un terzo portiere atipico, top. Una definizione calzante e calzata da Spalletti:
"È il miglior terzo portiere del mondo".
Meglio regnare all'inferno o servire in paradiso? Julio Sergio regna nel piccolo mondo, ma d'altra parte alle spalle degli altri. Troppa concorrenza, troppa stabilità emotiva nello spogliatoio per cambiare le carte in tavola e trasformare in altri colori quei luccicanti giallo e rosso sul tetto d'Italia in tre occasioni tra il 2007 e il 2008. Due Coppa Italia e una Supercoppa Italiana, medaglia d'oro sì, ma senza gloria da protagonista.
Una gloria che per Julio Sergio spezzò Pazzini, nel famoso match contro la Sampdoria che spinse l'Inter al titolo e la Roma nella delusione. Altra storia. Il racconto è quello di un brasiliano miglior estremo difensore al mondo:
"Io ero uno che stava al posto suo, non creavo problemi e facevo il mio. Non è facile avere un portiere che accetta tranquillamente la panchina”.
Sì, la accetta Julio Sergio, ma guarda al futuro. Carte che predicono il futuro, sfera di cristallo che ulula a quello che verrà, lupo dagli occhi fermi, concentrati ad un presente quasi passato. Prima o poi arriverà il suo turno, si dice. Sì, arriverà. Magari in Francia, a Parigi. Perché a un certo punto lo vuole addirittura il PSG. Lui dice no e sceglie il Lecce, una scelta di cui mai si pentirà.
"C’era un progetto particolare legato al Lecce che mi cercava come primo portiere perché ero un profilo già affidabile - ha confessato in un'intervista a 'ItaSportPress' - Mi voleva Di Francesco. Era la situazione che doveva andare così. Non mi pento di niente. Il Paris Saint-Germain sarebbe stato un discorso diverso. Si trattava di un prestito e avrei fatto il secondo. Mia figlia era appena nata e non parlavo il francese. Forse, con la testa che ho adesso, avrei fatto una scelta diversa, ma in quel momento è stata la decisione migliore per la mia vita. Dobbiamo sempre pensare a ciò che si fa sul momento. Forse l’arricchimento personale che ho trovato a Lecce non ci sarebbe stato a Parigi. Non c’è solo il calcio, non ci sono solo i soldi. Ci sono anche cose che non hanno prezzo”.
Chiusa la carriera ha già scelto, memore dell'apparecchiare in tuffo, leggiadro, davanti a nuove possibilità. Perché il calcio è il calcio, e il presente lo porta a prendere il patentino di allenatore, allenando dal 2015 squadre di basso rango del calcio brasiliano, dal CRAC (ma davvero?) alla Linense, fino al Prudentopolis (ma davvero #2?), al Sertaozinho e, da qualche mese, al Coritiba come vice. I maestri avuti a Roma, Spalletti e Ranieri, sono stati d'ispirazione per guidare. A bassi livelli certo, ma aspettando la propria occasione. Sa come si fa.
Consapevolezza del nuovo ruolo, hobby, passione, lavoro, tutto mischiato in un unico pallone al centro. Poi però, la nuova sfida, quella pensata e immaginata anni prima, quasi improvvisamente, quasi a sorpresa, lasciando di stucco chi non si aspettava un calciatore, agente finanziario, deciso, convinto:
"Ho anche alcune aziende in cui ho investito i soldi guadagnati in carriera per poter vivere tranquillo. Lavoro tutti i giorni quando non alleno. Inizio alle 8 di mattina e finisco alle 17. Una vita normale come quella che fanno tutti gli altri. La mia azienda non si occupa di calcio, ma di investimenti.
Noi aiutiamo le persone a investire i risparmi di una vita, guadagnando con gli interessi. In Brasile c’è un sistema finanziario un po’ diverso dal resto del mondo, con tasse alte. Noi ci occupiamo di questa gestione dei soldi da parte dei nostri clienti".
500 milioni di fondi da gestire. Ci sono molti meno portieri al mondo. Decisamente molti meno. E stringendo il cerchio ci sono ancora meno terzi portieri. Che si facciano da parte, tanto il migliore di loro nei secoli dei secoli, siano 500 o 1500 milioni, sarà sempre lui. JS.
