Pubblicità
Pubblicità
Juan Carlos LorenzoGoal/Wikipedia

Juan Carlos Lorenzo: l’allenatore stregone che incantò la Lazio tra maglie bruciate e semafori rossi

Pubblicità

Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Un pensiero sostenuto da Eduardo De Filippo e messo in pratica da Juan Carlos Lorenzo, allenatore decisamente sopra le righe e indissolubilmente legato alla storia della Lazio.

Personaggio talmente particolare che anche la sua data di nascita è avvolta nel mistero. Per alcuni documenti è nato a Buenos Aires il 20 ottobre 1922, per altri il 22, secondo le autorità brasiliane che gli concedono il permesso di soggiorno addirittura il 27.

Lorenzo inizia la sua avventura nel calcio con il Chacarita Juniors, compiendo il grande salto al Boca nel 1945. Trequartista dotato di ottima tecnica, nel 1948 ripercorre in senso opposto il tragitto dei suoi antenati italiani, trasferendosi alla Sampdoria. In Liguria resta quattro anni, per poi andare a chiudere la carriera con il Maiorca, dopo le esperienze con all’Atletico Madrid e al Rayo Vallecano.

Inizia proprio dal capoluogo delle Baleari il suo percorso da allenatore, che prosegue con il rientro in patria sulla panchina del San Lorenzo. Nel 1962 viene incaricato dalla federazione argentina di guidare la nazionale al Mondiale cileno. Gli viene chiesto di portare per la prima volta nella bacheca dell’AFA la coppa più prestigiosa, ma la spedizione albiceleste termina ai gironi eliminatori. Flop che gli costerà il posto da ct.

A questo punto cambia Paese, ma non colori. A ingaggiarlo è la Lazio di Ernesto Brivio. E proprio a Roma, Lorenzo riesce a realizzare tutto e il suo contrario. È una squadra in una situazione complicata quella che accoglie l’argentino. Commissariata dalla Lega per problemi finanziari, la Lazio è appena retrocessa in Serie B. Al primo anno in biancoceleste, però, il mago Lorenzo centra il secondo posto che vale la risalita immediata.

E anche in Serie A, i biancocelesti non sembrano pagare lo scotto tipico di una neopromossa terminando all’ottavo posto in classifica. Campionato a cui viene dato lustro grazie a un convincente 3-0 in casa della Juventus. Quando tutto sembra filare per il verso giusto, arriva il primo colpo di teatro della sua lunga esperienza laziale.

Le casse della Lazio sono ancora vuote e, tramite un progetto stilato proprio su idea di Lorenzo e avallato dal presidente Angelo Miceli, il club punta al ripianamento dei debiti. Dal cosiddetto piano MiLor (crasi che unisce i cognomi dei suoi due ideatori) è proprio Lorenzo a sfilarsi, accettando addirittura l’offerta della Roma.

L’argentino si trasferisce in giallorosso e in un solo anno a Trigoria riesce persino a conquistare la Coppa Italia, unico trofeo italiano della sua carriera. Alla Roma la situazione finanziaria non è affatto migliore rispetto a quella lasciata sull’altra sponda del Tevere. E sempre il tecnico prova a superare questa disfunzione economica organizzando in gran segreto una raccolta fondi che passerà alla storia con il nome di Colletta del Sistina, in quanto fu concepita nell’omonimo teatro romano.

La storia di Lorenzo, nel frattempo diventato “Don Juan”, è fatta di strade percorse più e più volte. Nel 1966 è il momento del ritorno sulla panchina dell’Argentina, portata fino ai quarti di finale del Mondiale disputato in Inghilterra. Ma ancora una volta l’appuntamento con la Coppa Rimet è rimandato. 

Seguono due anni passati rispettivamente al River Plate e al Maiorca. Ma a Roma, Lorenzo sente di aver lasciato qualcosa in sospeso. Fa dunque il suo ritorno alla Lazio, riportato in biancoceleste dal patron Umberto Lenzini per portare nuovamente i biancocelesti in Serie A. Obiettivo che gli riesce ancora una volta al primo tentativo. Ed è sua l’intuizione di portare in prima squadra due ragazzi militanti nelle fila dell’Internapoli e destinati a fare la fortuna della squadra del primo scudetto guidata da Tommaso Maestrelli: Giorgio Chinaglia e Pino Wilson.

Più dei risultati però, di Juan Carlos Lorenzo a Roma rimangono soprattutto le sue stranezze. Pur essendo un ottimo insegnante, in grado di collaudare un gioco solido ma allo stesso tempo esteticamente gradevole, l’argentino vive di ossessioni legate alla scaramanzia. Ossessioni e ritualità che in certi casi si mischiano alla leggenda metropolitana.

A partire da quella per il numero 8. Si dice che nelle trasferte richiedesse espressamente camere di albergo contenenti questo numero e addirittura pare che costrinse un cliente a cambiare la sua stanza perché tutte le camere con l’8 erano occupate.

Un altro tarlo che tormenta l’allenatore è il vestiario. È in grado di indossare lo stesso abito per più partite, fino alla prossima sconfitta. Una ritualità che investe anche il menù serale del giorno pre-partita. Ma al centro del mirino di Lorenzo non c’è solo il suo vestiario: fece infatti bruciare le maglie dei suoi calciatori nello spogliatoio dopo aver perso un derby. Ma non fu l’unica volta. In occasione di una trasferta a Genova - oltre a obbligare il suo terzino a perdere ben 5 chili in una settimana per marcare meglio l’avversario di giornata - a fine primo tempo e con i biancocelesti sotto di due reti allestì un rogo e incenerì le maglie della prima frazione. Sortilegio che ebbe i suoi effetti, dato che la partita terminò 2-2.

C’è poi la costante paura di essere circondato da spie. Una fobia che trova la sua sublimazione in un pomeriggio allo Stadio Flaminio. La Lazio è lì per la rifinitura ed è sospinta dal calore della sua gente. Sembra un pomeriggio come tanti, ma non per Lorenzo. Venendo allo stadio, l’argentino ha notato nei pressi dell’impianto una macchina targata Brescia ed è convinto che sugli spalti ci sia qualche spia delle Rondinelle. Una convinzione che lo spinge a far svuotare le tribune fino all’ultimo spettatore. L’avversario domenicale della Lazio? Ovviamente il Brescia.

Complicato anche il rapporto con la segnaletica stradale. Pare che prima di un derby, il pullman biancoceleste verso l’Olimpico passò con il rosso un semaforo in zona Flaminio. Casualità fortunata, dato che la Lazio vinse contro la Roma e da quel momento in poi Lorenzo costrinse l’autista a compiere sempre lo stesso percorso, ignorando il segnale di stop.

Tra allenamenti in cui costringe i suoi a inseguire una gallina e schemi provati con monete da 50 e 100 lire, l’argentino riesce di nuovo a salvare i biancocelesti. Nell’estate del 1970, la cessione di Gian Piero Ghio e un ulteriore indebolimento della situazione finanziaria del club, fa sì che la Lazio torni in Serie B. A pagarne le conseguenze è Lorenzo in primis, che fa le valigie e saluta la capitale per la seconda volta.

Inizia una lunga peregrinazione che lo porta ad allenare tantissime squadre tra Spagna e Argentina, facendo incetta di trofei nazionali e internazionali tra cui due Coppe Libertadores. Tutto questo fino al 1984, quando ancora una volta cede al richiamo della Lazio.

Di tempo ne è passato dall’ultima volta e nel frattempo Chinaglia, il suo pupillo, ha mollato gli scarpini per provare l’avventura da presidente. La situazione, malgrado il sostegno di tantissimi tifosi biancocelesti, è disperata. E infatti l’annata si conclude con un ritorno tra i cadetti. In quella stagione Lorenzo regala però uno degli ultimi suoi colpi di teatro.

All’Olimpico va in scena il derby con la Roma vice campione d’Europa. La lotta si preannuncia impari per via della consistente differenza tecnica tra le due squadre. Un gap che Lorenzo pensa bene di colmare inscenando una delle sue performance da stregone. Munitosi di un mangianastri, l’argentino si reca fuori dallo spogliatoio della Roma in mutande e con musica argentina sparata a tutto volume inizia una singolare danza sciamanica. Al momento del passaggio dei giocatori romanisti, afferra un bicchiere e lo alza in segno di sfida agli avversari. Un torero fantozziano che in calze e mutande, ma senza frittatone di cipolle, lancia il suo sortilegio. Che funziona. Tanto che il derby termina in parità, con la Roma irriconoscibile.

Con la Lazio di nuovo in B, Lorenzo torna in Argentina per un ultimo tango con il Boca, prima del ritiro nel 1987. Non basterebbe un libro per raccontare tutta l’aneddotica, che ad un certo punto è arrivato a schiacciarlo e a farlo passare per una caricatura.

Il 14 novembre del 2001 questo incredibile personaggio si è spento, diventando parte di quella leggenda che ha contraddistinto la sua carriera. Qualcuno sostiene che le sue ceneri siano state sparse dietro una porta alla Bombonera, nello stadio del Boca. La realtà come spesso accade è molto meno fantasiosa: le sue spoglie giacciono nel "Jardin de Paz” a Belgrano. Ma per uno che ha vissuto la sua vita come un romanzo, che cos'è la morte se non soltanto l'inizio di un nuovo capitolo.

Pubblicità

ENJOYED THIS STORY?

Add GOAL.com as a preferred source on Google to see more of our reporting

0