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Mourinho 1000 panchineGoal

Il Triplete, le luci e le ombre: José Mourinho "Special 1000"

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Esiste, per nostra fortuna, una parola greca in grado di descrivere radicalmente e profondamente l’essenza di José Mourinho, senza perdersi in discorsi e giri di parole: italianizzato, “Parresia”. La necessità, nonché obbligo morale, di dire tutto: di poterlo dire come si vuole, quando si vuole, pur conoscendo le regole del gioco. La franchezza nella forma e la sicurezza nella sostanza: liberazione dell’anima e diritto personale, singolare e sociale.

C’è stato un momento ben preciso in cui il concetto teorico di “Parresia” si è scontrato con la concretezza della realtà, riversando in quest’ultima parte della propria forza ideale: in una foto di uno dei momenti celebri della carriera dell’allenatore portoghese, scattata all’incirca alle ventitré italiane del 28 aprile del 2010, si può notare Mourinho a metà della sua corsa diretta al settore ospiti del Camp Nou, prima che Victor Valdes, avvelenato per l’eliminazione, lo raggiungesse per dirgliene quattro. Il fotogramma che ne esce è la traduzione di quel che diventò in quel preciso istante per il mondo del calcio: un semi-dio, liberato dai vincoli umani, staccato dal terreno dall’atto e dallo slancio dello sprint, con lo sguardo alto e l’indice rivolto ai suoi seguaci. Aveva lasciato la dimensione terrena per abbracciare quella celeste, prima ancora di portarsi dietro l’Inter, a Madrid. Lo aveva fatto aderendo ai principi della “Parresia”: dicendo tutto e oltre, con un solo gesto.

José Mourinho Barcelona Inter 2010Getty

Il mondo del calcio, in fondo, si divide più o meno dalla sua venuta in due correnti di pensiero ben precise: “Mourinhani” e “Non Mourinhani”, nella più classica traduzione del “Chi mi ama mi segue” di religiosa impostazione. “Mou” negli anni ha istituito la sua chiesa, accogliendo fedeli e miscredenti, sotto il tetto della dialettica e del confronto mai banale. Da qualunque prospettiva lo si veda, José Mourinho è indubbiamente uno dei più segnanti protagonisti della storia del calcio.

Il suo merito, al di là di quelli sportivi, è stato innanzitutto quello di rivoluzionare uno sport essenzialmente romantico, ma grezzo, già coperto dalla diffusione televisiva degli eventi, appena entrato nell’epoca dell’entertainment, introducendo la “quarta parete” teatrale e conducendolo magistralmente alla dimensione superiore, successiva, quella dello showbusiness. Resta, nonostante ciò, uno dei baluardi del calcio del popolo: perennemente criticato, ma profondamente amato. Sempre sulla bocca di tutti, ma in maniera tremendamente affascinante.

Durante la sua esperienza al Real Madrid Javier Marias, accademico spagnolo, impregnò d’inchiostro sprezzante le pagine de “El Pais Semanal”, definendo, in un articolo dal titolo “Uno sciamano da sagra”, Mourinho come “un allenatore onnipotente, onnipresente, rissoso, un lagnoso che accusa sempre gli altri, un individuo dittatoriale, insudiciatore, intrigante, soporifero nelle sue dichiarazioni, cattivo perdente”. Ma ha anche dei difetti, direbbe qualcuno. A ciascuna di queste accuse, mosse forse per un’eccessiva voglia pubblicitaria che altro, si potrebbe trovare un contraddittorio degno a risolvere in una secca smentita la contesa. Non serve, se è vero che quando si parla di Mou si parla anche di una parte “fedele” del calcio che semplicemente non può essere smentita.

Tutti, però, hanno provato anche una sola volta a emularlo, per scherno o ironia: alcuni seriamente. Chiaramente senza riuscita: José Mourinho è semplicemente inimitabile. Al suo ritorno in Italia, a Roma, pochi mesi fa, il segno dello scorrere del tempo si è fatto evidente: il disilluso e cinico “non sono un pirla”, individuale, lascia il passo alla comunità, da sempre elemento fondamentale per creare il contesto perfetto per le sue squadre, ma spesso un passo indietro allo “Special One”. One, appunto.

"Prima di tutto non voglio la Roma di Mourinho. Voglio la Roma dei romanisti. Io non sono nessuno, sono uno in più”.

José Mourinho PortoGetty

Dopo la vittoria della Champions League con il Porto, nel 2004, tutti lo avrebbero voluto in panchina. Un Re Mida capace di trasformare ogni cosa in oro. Va in Inghilterra, al Chelsea, vince la seconda Premier League in 50 anni: “Non penso di essere uno degli allenatori più importanti: ho vinto la Champions, sono il più importante (“The Special One”)”.

In Italia lo accolgono come uno dei top manager, qualcuno neanche ci credeva. Alcuni confondono il personaggio, leader e frontman, con un tecnico arrogante e sbruffone. Bisogna andare oltre, a volte. Del “rumore dei nemici” ha fatto il pilastro della sua cultura calcistica nello spogliatoio, dell’intensità quello del campo. Qualche settimana prima di mostrare le “manette” a San Siro, nella gara contro la Sampdoria, abbraccia il mistico nel derby tra Inter e Milan: intorno al 60’ sta per cambiare Goran Pandev, autore di un’ottima gara. C’è una punizione dal limite, ferma tutto: vuole che la batta il macedone. Che, infatti, segna. Si gira verso la panchina, a favore di camera: “L’ho detto io! L’ho detto io (che doveva rimanere in campo, ndr)!”.

“L’ossessione dei nemici? Mai detto. L'ossessione è degli altri. Io sono vittima di quello che ho fatto. Ad esempio, al Manchester United ho vinto tre titoli ed è stato un disastro. Nel Tottenham ho fatto una finale di coppa che non mi hanno lasciato giocare ed è stato un disastro. Quello che per me è un disastro, per gli altri è qualcosa di fantastico".

José Mourinho Massimo MorattiGetty

Due delle poche volte che il mondo ha visto emozionarsi Mourinho sono capitare nella stessa sera, il 22 maggio del 2010: la prima al fischio finale, quando va ad abbracciare alcuni tra i suoi giocatori. La seconda nel parcheggio del Bernabeu, dove ad attenderlo c’era un’auto che lo avrebbe portato idealmente al Real Madrid, e dove si trovava Marco Materazzi. Fa fermare l’auto e va a salutare il suo difensore. È l’addio ufficiale all’Inter.

“Per favore, non date quest’idea a Friedkin”, ammette in conferenza stampa di presentazione riferendosi all’esperienza vissuta al Tottenham con le telecamere di “All or nothing”. Perché sì, insomma, lo spogliatoio è un luogo troppo intimo per gli estranei. “Odio la mia vita sociale: per strada vorrei poter essere normale”, ammette nel 2012 alla CNN.

Ha guidato alcune delle squadre più rappresentative della storia: al Real Madrid ha riportato Liga e Copa del Rey, senza vincere la Decima, arrivata un anno dopo il suo addio. In Spagna, chiaramente, questa cosa la fecero notare. Contro il Sassuolo raggiunge quota 1000 panchine in carriera: ci sono gare che rimangono in eterno. Gesti che non è possibile replicare: è stato più di un allenatore, per molti, fin qui. Guida spirituale, prima di tutto: degno rappresentante della “Parresia” greca. Non più “Special One”, ma “Special 1000”. Da qualsiasi punto di vista, e senza dubbio, inimitabile.

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