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Joachim LöwGetty Images

Joachim Löw e la Germania: la fine di un ciclo spinto troppo oltre il limite

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La storia dello sport ci ha insegnato che non esiste un momento più o meno giusto per chiudere un ciclo. Puoi fermarti da vincitore, essere ricordato come tale, ma avere il tuo nome legato a una sola impresa, che è un’impresa, ma è sempre una. Puoi provare a ripeterti e riuscirci, diventando un vincitore seriale. Oppure puoi rimanere “tanto a lungo da diventare il cattivo”, parafrasando una delle frasi più celebri del cinema.

Joachim Löw ha scelto inconsciamente di rientrare in quest’ultimo rango. Il termine ‘parabola’ è spesso abusato quando si raccontano carriere. Quella dell’ormai ex commissario tecnico della Germania, invece, sembra essere totalmente riconducibile alla formula matematica. Partito dal basso, arrivato fino al top, poi tornato lentamente verso il fondo, fino a sfiorare lo zero. Evitando però di toccarlo. Solo per 6 minuti, grazie al goal di Goretzka contro l’Ungheria che ha evitato la seconda eliminazione consecutiva ai gironi dopo il flop di Russia 2018.

12 luglio 2006, 29 giugno 2021. Quasi 15 anni. 179 mesi e mezzo. 5466 giorni. Un’infinità. Sempre sulla stessa panchina. Dalla nomina dopo la delusione di Klinsmann al Mondiale di casa - non si parla di fallimento solo perché la squadra è andata a un goal di Grosso a fine supplementare dalla finalissima - alla sconfitta negli ottavi di finale a Wembley contro l’Inghilterra a Euro 2020. L’inizio e la fine di un ciclo durato 198 partite. Fosse riuscito a raggiungere la semifinale, avrebbe fatto addirittura 200. Cifra più che tonda. 124 vittorie, il 62,6% del totale. Ciò che più conta, soprattutto, la vittoria al Mondiale del 2014. Il trionfo.

Joachim Löw Germany World Cup 2014Getty Images

Di strada Jogi ne ha fatta. Nel 2006 era solo uno degli assistenti di Klinsmann, anche se in molti lo avevano già designato come erede, anche per la fiducia non proprio totale nei confronti dell’ex attaccante anche dell’Inter. Lo stesso Löw era un attaccante, di caratura decisamente inferiore. Si è fatto un nome a Friburgo. Meglio come allenatore: si è guadagnato la panchina dello Stoccarda a soli 35 anni e ha pure vinto la DFB-Pokal. Poi Turchia, Austria. Una carriera che si preannunciava non entusiasmante. Fino al 12 luglio 2006. La svolta. Della vita.

Finalista a Euro 2008, semifinalista al Mondiale del 2010 e a Euro 2012. Battuto dalla Spagna nei primi due casi, dall’Italia nel secondo. Dopo Ribbeck (due anni), Völler (quattro) e Klinsmann (due), la DFB aveva la sensazione di aver trovato l’uomo giusto per aprire un ciclo. Come era successo con Berti Vogts. Probabilmente non si aspettavano che sarebbe arrivato a superare anche due istituzioni come Herberger (CT dal ’36 al ’64) e Schön (che lo ha sostituito ed è rimasto fino al ’78). Ora tra le istituzioni c’è anche lui. Comunque sia andato il finale.

Nel processo che ha portato la Germania a vincere il Mondiale c’è tanto della rivoluzione voluta dalla DFB con i famosi centri federali, ma altrettanto dell’idea di Löw di trasformare la nazionale in qualcosa di molto simile al club. Anzitutto scegliendo la costanza. Convocazioni mai troppo ampie, a tratti anche indipendenti dalle prestazioni, finalizzate alla formazione di un gruppo che si conoscesse bene, in grado di omogeneizzarsi e unire due generazioni diverse: la classe di Müller, Boateng, Özil, Hummels, Khedira, con quella dei Lahm, Schweinsteiger, Klose. Chi è arrivato intorno alla fine degli anni ’10 con chi è arrivato già all’inizio.

La squadra del 2014 ne è stata la perfetta sintesi. Löw ha dato il proprio imprinting tattico, miscelando anche le tendenze della Bundesliga e le correnti di pensiero. Le idee di Guardiola, i concetti di Heynckes, i meccanismi di Klopp. La Germania è diventata l’esempio da seguire, una volta di più. È andata vicina a confermarsi anche all’Europeo del 2016, fermata soltanto in semifinale. Aveva però dimostrato di esserci. Ancora. Per sei grandi tornei di fila, sempre tra le migliori quattro.

Joachim Löw Thomas MüllerGetty

Poi, il disastro del 2018. Il massacro inatteso, annunciato solo per alcuni. Oliver Bierhoff, che di Löw è sempre stato la spalla di come direttore sportivo della nazionale — 'spalla', sebbene formalmente ne sia il ‘capo’ — aveva visto alcune crepe nel sistema nei giorni che anticipavano il Mondiale. Lungimiranza. I veterani hanno tradito le attese, i giovani non sono riusciti a mostrarsi subito all’altezza. Risultato: frittata fatta. A Euro 2020 l'ha evitata Goretzka, forse l'ha solo ritardata. II crollo di Wembley con l'Inghilterra ha sancito la fine definitiva del rapporto. Era già stata annunciata a inizio marzo, con le dimissioni.

Forse lo Jogi di qualche anno prima avrebbe provato qualche mossa coraggiosa e a sorpresa per evitare un finale così. Un po’ come la mossa di Christoph Kramer titolare nella finalissima del Mondiale 2014. Oppure, sempre nello stesso anno, la fortissima tentazione di chiamare Gnabry nella rosa dei ventitré.

Sul finale, però, in molti lo hanno visto più stanco, più scarico rispetto agli anni precedenti. Forse senza nemmeno le energie mentali per tentare certe mosse, sbagliarle e subirne le conseguenze.

La fiducia rinnovata del post Mondiale 2018, con il rinnovo fino al 2022, è stata tradita dalle prestazioni negative in Nations League e da sconfitte che sono entrate nella storia dalla parte sbagliata: il 6-0 con la Spagna, la sconfitta in casa con la Macedonia del Nord. Con il Bundestrainer ancora sulla graticola, con voci di addio anticipato sempre più frequenti. La DFB ha dato fiducia, ancora, anche per Euro 2020, ma con Hansi Flick già pronto a subentrare al suo posto dopo l’annuncio delle dimissioni a inizio marzo. Con un anno e mezzo di anticipo sulla scadenza di un contratto che doveva andare fino al Mondiale in Qatar.

Stanchezza, tanta. Questa la sensazione. Anche a Euro 2020, Löw è sembrato accontentarsi. Ha provato a spingere sulle sue idee, sulle sue convinzioni, senza dover rendere conto a nessuno. Senza provare nemmeno a metterle in dubbio. Ad esempio, la posizione di Kimmich, spostato nuovamente esterno destro, ruolo che non gli appartiene - si vedano i buchi lasciati con l’Inghilterra, ma anche nelle gare precedenti - e precludendosi la possibilità di affidarsi a lui e Goretzka come coppia mediana. Quello che è probabilmente il miglior duo del mondo.

Joachim Löw Germany Euro 2020Getty Images

In Germania è stato criticato anche per la scelta di non provare a schierare il talentuoso Florian Neuhaus del Gladbach, dopo aver fatto molto bene negli ultimi mesi anche con la maglia della Mannschaft. Oppure per non essersi affidato di più a Jamal Musiala, il classe 2003 che ha sorpreso tutti con il Bayern, ma evidentemente non ha impressionato abbastanza Löw che si è rifugiato nella mancanza di esperienza in certe partite. Nonostante quest’anno abbia giocato gare importanti in Champions League.

Un finale triste, che non può rispecchiare il lavoro fatto tra il 2006 e il 2017, dalla promozione alla Confederations Cup vinta in Russia, prima di tornare un anno dopo e combinarla grossa, grossissima. Guadagnarsi la fiducia in base al lavoro svolto in precedenza, un contratto fino al 2022. Per poi pentirsene, forse. O almeno è ciò che i risultati e il linguaggio del corpo hanno trasmesso. Si è affidato ai suoi, a Kroos, a Neuer, anche a Müller e Hummels. Alla fine è rimasto deluso. Aveva fatto una scelta coraggiosa decidendo di rinunciare agli ultimi due. Poi è tornato indietro. Dal vecchio al nuovo. E stavolta non in positivo.

“Appena è finita la partita ho subito guardato Jogi ed è stata una brutta sensazione, è un uomo di classe. Dobbiamo tutti ringraziarlo molto, è un peccato che sia finita così”, ha dichiarato Manuel Neuer, il capitano di Jogi nelle ultime due deludenti avventure.

Sia la Germania che Löw hanno già deciso il loro futuro. La DFB ha scelto il suo ex vice Hansi Flick come successore: proverà a vincere anche Euro 2024 in casa per completare la sua bacheca, dove annovera già un Mondiale e tutto ciò che poteva vincere a livello di club col Bayern Monaco. Jogi invece si prenderà una pausa, ha bisogno di riposare, per sua stessa ammissione. Staccare. Dimenticare il triste epilogo di una storia lunga 15 anni e che rimarrà nei libri, con un Mondiale vinto, una finale Europea persa, una Confederations Cup vinta. E poi la doppia delusione. Iniziata come un'avventura epica è diventata un thriller con finale drammatico.

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