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Giancarlo Marocchi: una vita nel calcio tra Bologna, Juve e studi TV

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Dal 1987, l’anno del ritiro di Michel Platini, al 1990, quello dell’arrivo di Roberto Baggio, la maglia numero 10 della Juventus è stata ‘tenuta in caldo’ da un giocatore che poco aveva a che fare, anche dal punto di vista del ruolo, sia con ‘Le Roi’ che con il ‘Divin Codino’.

In realtà, a raccogliere l’eredità del fuoriclasse transalpino in bianconero sarebbe dovuto essere Sasha Zavarov, gioiello sovietico dalla tecnica raffinata che con la maglia della Dinamo Kiev e della sua Nazionale aveva fatto intravedere sprazzi di calcio meravigliosi, ma che mai si è realmente adattato allo stile di vita di una Torino troppo lontana da ciò a cui era abituato.

La 10 viene inizialmente affidata a lui, così come imposto dal ruolo e dalle qualità tecniche, ma ben presto all’ombra della Mole si accorgono che ‘Lo Zar’ è frenato da quella timidezza che limita non poco e quindi, al fine di provare a farlo rendere al meglio, decidono non solo di acquistare un connazionale che lo aiuti ad ambientarsi, Sergei Aleinikov, ma anche di sgravarlo dalla responsabilità di portare sulle spalle una maglia così pesante.

Si arriva quindi alla conclusione che a portare in giro per i campi di tutta Italia e tutta Europa quel numero che è stato ‘di proprietà’ di alcuni tra i più grandi campioni della storia bianconera, sarebbe stato un ragazzo che in Serie A non ci era mai stato, ma che nelle serie inferiori aveva dimostrato di avere personalità da vendere.

Era arrivato a Torino accompagnato dal soprannome di ‘Cicciobello’, cosa dovuta ad un carattere apparentemente mite, oltre che ad un volto quasi da ragazzino, ma in realtà quando scendeva in campo si trasformava, abbinando ad un’eccellente tecnica di base, tanta intelligenza tattica e all’occorrenza anche qualche ‘pedata’. Era arrivato Giancarlo Marocchi, ovvero uno dei migliori centrocampisti italiani della sua epoca.

Aveva scoperto il calcio nella sua Imola, ma è stato a Bologna che ha capito che poteva fare del calciatore la professione di una vita. A livello giovanile aveva vinto con la maglia rossoblù addosso il titolo di campione d’Italia Allievi insieme ad un certo Roberto Mancini, ma la sua sarebbe stata una trafila destinata a durare poco.

Fa la spola tra Imola e Bologna in treno tentando anche di studiare durante il tragitto e intanto impara come si sta in campo sfruttando quell’intelligenza che poi gli avrebbe consentito di diventare un giocatore tanto duttile quanto prezioso per tutti gli allenatori che l’hanno avuto. Esordisce in Serie B a 17 anni, appena in tempo per vedere la sua squadra del cuore, il Bologna appunto, retrocedere, ma l’iniziale e comprensibile rammarico verrà spazzato via da quella che si trasforma come la più grande delle opportunità: in Serie C di talenti come lui ce ne sono pochi e quindi una maglia da titolare non gliela può negare nessuno.

Diventa un elemento inamovibile dell’undici iniziale, gioca prevalentemente da trequartista e, sebbene la confidenza con il goal vada ancora affinata, si rivela essere uno dei grandi protagonisti della promozione. Tornato in B, la maglia da titolare non la lascerà mai, a dimostrazione di una crescita costante, ma saranno due gli incontri che gli cambieranno realmente la carriera.

Il primo è quello con Eraldo Pecci, grande centrocampista che, sceso in serie cadetta dopo una carriera vissuta con le maglie del Torino, della Fiorentina e del Napoli addosso, gli spiegherà come si sta realmente in campo (“A te non importa se si vince o si perde, ti basta giocare. Non funziona così, si scende in campo sempre per vincere”) e Gigi Maifredi, tecnico visionario che creerà uno dei Bologna più belli della storia recente e che decide di arretrarlo sulla linea di mediana.

Di quel Bologna che gioca un calcio stupendo sarà uno degli ingranaggi fondamentali ma, proprio quando il suo approdo in Serie A con i colori della sua vita è diventato realtà, si troverà di fronte ad un bivio che in realtà gli impone una scelta quasi obbligata.

E’ già considerato uno dei ‘Golden Boy’ del calcio italiano quanto il presidente del club felsineo, Gino Corioni, ed il direttore sportivo Nello Governato lo caricano in auto per portarlo a Torino. La Juventus ha messo sul tavolo qualcosa come 4,5 miliardi di lire per assicurarsi la sua firma e non si può rifiutare. Marocchi scopre che c’è un altro pianeta calcistico lontano dalla sua Bologna e, sebbene la tentazione di restare a casa sia forte, quando scorge negli uffici del club bianconero la leggendaria figura di Giampiero Boniperti, capisce perché sono in molti ad asserire che alla Juventus non si può dire di no.

Sarà l’inizio di un’avventura che durerà otto anni e che lo condurrà dritto nel calcio che conta davvero.

Giancarlo Marocchi Dunga Juventus Fiorentina 1990Getty

Arriva alla Juve al momento giusto e con la maturità giusta e a confermarlo ci sono due dati significativi: nella sua prima annata in bianconero diventa fin da subito titolare e non si perde una sola partita di campionato e inoltre, nel dicembre del 1988, con appena dieci partite in massima serie nelle gambe, fa il suo esordio in Nazionale maggiore. All’epoca la cosa rappresentò un record in fatto di precocità.

Quella nella quale gioca non è la miglior Juventus della storia, ma trova in Dino Zoff un tecnico che crede profondamente in lui. Al suo secondo anno in bianconero mette i primi importanti trofei in bacheca, ovvero una Coppa Italia ed una Coppa UEFA, e soprattutto si guadagna un posto nella lista stilata da Azeglio Vicini dei convocati per Italia ’90.

I Mondiali si riveleranno una delle più grandi esperienze della sua carriera, ma proprio quell’avventura sarà accompagnata da un rimpianto: nel corso del torneo non metterà mai piede in campo, anche perché arriverà all’appuntamento non propriamente nelle condizioni migliori.

Le cose alla Juventus vanno però per il meglio ed anzi sulla carta sono destinate a migliorare. Il club bianconero ha deciso di congedare Zoff, l’allenatore che l’ha lanciato a grandi livelli, ma ha anche scelto di affidare la panchina ad un altro dei suoi maestri: Gigi Maifredi.

In un momento storico nel quale le grandi avversarie nella lotta al titolo sono il Napoli di Maradona, il Milan degli olandesi e l’Inter dei record, la Juve decide di tentare l’assalto a quello Scudetto che insegue dal 1986 con il bel gioco. Dovranno essere le idee di Maifredi a colmare il gap tecnico che c’è con le altre squadre: l’intuizione è potenzialmente giusta, ma il tutto si risolverà in un disastro. Il settimo posto in campionato vorrà dire prima storica esclusione dalle coppe europee dopo ventotto anni di presenza continua e fine anticipata dell’esperimento.

La Juventus dovrà attendere il 1995 e l’inizio dell’era Lippi per tornare a vincere quello Scudetto nel frattempo atteso per nove anni e la stagione successiva sarà suggellata da un trionfo ancora più importante: quello in Champions League.

E’ il 1996 quando Marocchi raggiunge, dal punto di vista dei risultati, l’apice della sua carriera, ma ormai ha già compiuto 31 anni e non è più un punto fermo del centrocampo della Juventus.

A detta di molti ha già ampiamente dato il meglio di sé quindi, nessuno resterà sorpreso quando, dopo 319 partite condite da 25 goal e soprattutto scandite da uno Scudetto, due Coppe Italia, una Supercoppa Italia, una Champions League e due Coppe UEFA, verrà lasciato libero da ogni vincolo contrattuale.

In realtà Marocchi sa che ha ancora tanto calcio nelle gambe e che c’è un modo potenzialmente bellissimo per chiudere la sua carriera. Chiama il Bologna per capire se ci sono le possibilità di finire lì dove tutto era iniziato. Nel suo mondo, quello rossoblù, sono in molti ad essere rimasti scottati dal suo addio di molti anni prima e c’è anche chi ritiene che ormai abbia poco da dare.

Giancarlo Marocchi BolognaGetty

Il Bologna, dopo un’attenta riflessione, deciderà di accoglierlo di nuovo tra le sue braccia e lui ricambierà la fiducia con quattro annate vissute da leader e giocate ad alte livelli. All’ombra delle Due Torri condividerà lo spogliatoio con grandi giocatori come Andersson, Shalimov, Roberto Baggio (colui che ereditò la sua 10 alla Juve anni prima), Ingesson, Signori e Pagliuca e sfiorerà una finale di Coppa UEFA, prima di appendere le scarpe al chiodo nel 2000 dopo 500 partite da professionista e in un Dall’Ara che gli riserverà un tributo meraviglioso. Gli screzi del passato con la piazza erano ormai un lontano ricordo e il ‘figliol prodigo’ aveva dato gli ultimi calci ad un pallone lì dove era giusto che lo facesse.

Dal calcio ha ottenuto tutto ciò che poteva ottenere, ma una passione non la si può abbandonare per sempre. Si riscoprirà osservatore, poi team manager, poi ancora direttore generale e responsabile del settore giovanile, sempre al Bologna, prima di iniziare una nuova carriera che a cadenza più meno quotidiana lo riporterà nelle case di tutti gli italiani, proprio come quando giocava a calcio.

Diventato un apprezzato opinionista televisivo, davanti alle telecamere oggi sfrutta quelle stesse qualità che l’hanno portato ad essere un grande centrocampista, compreso quella combattività che sfodera quando serve.

Nel 2014, dopo un Roma-Milan, Mario Balotelli, sentitosi criticato proprio da Marocchi (“Secondo me ti muovi poco in campo per quelle che sono le tue qualità”) si è limitato a rispondere “Secondo me non capisci di calcio. Te lo dico io, fidati”.

Una ‘Balotellata’, oltre che un errore madornale: non si gioca per diciotto anni a grandi livelli e condividendo il campo con alcuni tra i più forti giocatori di sempre, se non si ha una straordinaria idea di quello che accade dentro e fuori il terreno di gioco.

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