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Ispirare una generazione: la leggenda di George Weah

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Uno dei primi ricordi delle elementari, per molti, è un ragazzino che fa la spola tra l’aula e il cortile con la maglia del Milan addosso, talmente grande da lambire le ginocchia: sulla schiena il numero nove, ma senza nome. “È di Weah”, pronunciato con certo e consapevole orgoglio, nascondendo l’inevitabile imbarazzo scaturito dalla visione di un corpo esile ingombrato da un simbolo probabilmente ereditato dal padre o dal fratello e appartenuto, al contrario e alla lontana, a un uomo grande e grosso come George.

I nati nell’ultimo periodo degli anni Novanta, presumibilmente, possiedono una percezione sbiadita dell’importanza del passaggio di Weah nel mondo del calcio: ci può stare, presi come siamo stati a goderci la “Ronaldo-era” alle porte del nuovo millennio, vicinissimi alla prima realizzazione del progetto dei “Galacticos” e assorbiti, quasi interamente, dall’affermazione dei brasiliani e del "Joga Bonito". Ah, che nostalgia.

Weah, però, che degli anni Novanta è stato un po’ il simbolo, occupa un posto nella storia del calcio fin troppo ignorato dalle nuove generazioni: anche per questo motivo, in maniera spontanea, sentiamo quasi la necessità di consigliare la visione di alcuni dei video che si possono reperire facilmente su YouTube. Il primo alla voce “Weah Milan”, tra l’altro, è una compilation dei migliori dieci goal siglati durante la sua esperienza in rossonero. Meno di tre minuti per conoscere chi, e cosa, è stato Weah per gli italiani, tutti.

“Il mio arrivo al Milan è stato controverso. Tutti dicevano che in Italia non ce l’avrei mai fatta, anche Jean-Pierre Papin disse che non avrei segnato neanche un goal”, ha raccontato a Sky, diversi anni fa.

Oggi George Weah è effettivamente un po’ diverso dal ricordo consegnato dalle galoppate box to box che lo hanno contraddistinto. Nel gennaio del 2020 in migliaia sono scesi in piazza a protestare contro le misure economiche adottate per il suo Paese: dal 2018 Weah è il presidente della Liberia, dopo aver vinto le elezioni presidenziali che, tre anni dopo il suo ritiro (e la sua ultima esperienza all’Al-Jazira, avvenuta nel 2002), perse contro l’ex presidente Ellen Johnson Sirleaf, meglio conosciuta come “Ma Ellen”. Ha lo stesso sorriso di sempre, ma gli occhi certamente più impegnati e pensierosi: partito da uno slum della sua Clara Town, a Monrovia, guida un’intera nazione dal palazzo presidenziale. Ma non è una contraddizione: è solo il risultato di un riscatto personale covato nella polvere contro pregiudizi e tanti, tantissimi ostacoli.

Superati, un po’, come i suoi avversari. Ha sempre avuto la naturale predisposizione a “proteggere” e guidare dalle retrovie, sin dal suo primo approccio con il calcio: “Quando ero piccolo giocavo in porta, poi negli anni ’80 le cose sono cambiate ”, ammette, sempre a Sky. Fortuna che ci ha ripensato.

Intervistato da Dribbling, nel 2000, precorre i tempi in uno dei primi show culinari della TV moderna: altro che Masterchef. È appena arrivato a Londra, al Chelsea, e la troupe RAI gli rivolge una, due, tre domande mentre, con occhiali interessati, dosa bene gli ingredienti, intento a preparare una torta che spedirà ai suoi ex compagni del Milan. Ben prima di mettersi ai fornelli mettono su una VHS (dite la verità: ma quanta nostalgia vi provoca tutto ciò?) con i saluti e le dediche di Maldini, Costacurta, Boban e gli altri.

Billy ha la voce spezzata e lo sguardo basso: “A Weah chiediamo eventualmente di mandarci qualche cassetta reggae perché qua manca la musica. George mandaci qualcosa, ti prego”. Weah Prende un mucchio di CD (masterizzati), seleziona una raccolta di “street jams”. Ah, gli anni Novanta. Con ogni probabilità si sarà anche messo a ballar qualcosa, ma le telecamere tagliano corto.

Peccato, vista la vena artistico-musicale che lo ha sempre contraddistinto, persino in campo: “Da giovane, quando giocavo per strada, mi chiamavano John Travolta perché ballavo mentre giocavo, provocavo gli avversari”.

George Weah Milan Ballon d'OrGetty

Al Monaco, dopo l’esperienza al Tonnerre Yaoundé, squadra camerunese che ha lanciato tra gli altri Roger Milla, lo aiuta molto Arsene Wenger, che lo tratta come un figlio. Al termine dei suoi quattro anni nel Principato passa al Paris Saint-Germain, esperienza complessa e caratterizzata sì da numerosi goal, ma anche da tanti, troppi, momenti controversi.

Non ha avuto un rapporto idilliaco con i due allenatori che ha incontrato: Artur Jorge, tra il ’91 e il ’94, e Luis Miguel Fernandez, nell’ultimo anno. Del suo addio si ricordano soprattutto gli insulti razzisti ricevuti dai tifosi del PSG in occasione della partita che ha segnato l’epilogo della sua parentesi a Parigi. “Non abbiamo bisogno di te”, recita uno striscione semplicemente orribile, caratterizzato da simboli antisemiti.

“Ho fatto di tutto per il PSG. Addirittura quando stavo male mi venivano a prendere in ospedale per farmi giocare e ho sempre giocato. L’ultima volta che è successo era una partita di Coppa UEFA contro il Napoli: ero in ospedale, rischiavo di morire per la malaria e loro volevano giocassi. Alla fine ho dovuto giocare perché il PSG aveva bisogno di quella vittoria. Ho accettato di rischiare la vita pur di giocare e ho segnato una doppietta. Quelle persone mi avevano quasi ucciso: così ho deciso di cambiare”, racconta. Mai decisione fu più giusta.

Al suo esordio in rossonero sbaglia un rigore: è il Trofeo Berlusconi, e lui è l’unico a fallire dal dischetto nella lotteria che consegna il “titolo” alla Juventus. Gli si avvicina Fabio Capello, da lui spesso definito “intelligente” (e a cui va il grande merito di averlo reso quel che, poi, è stato in definitiva), quindi Ariedo Braida: lo tranquillizzano. Lui sta già pensando al campionato: ha voluto fortemente il Milan e l’Italia, nonostante tutto.

La prima rete siglata in rossonero coincide esattamente con l’ultima di Franco Baresi con il Milan, contro il Padova: un goal e un assist per il capitano. Giornata da sogno. A dicembre arriva anche il Pallone d’Oro, il primo a essere assegnato a un calciatore non europeo: a fine stagione vince lo Scudetto. Insomma: in Italia ce l’ha fatta. Contro tutti.

George Weah Ronaldo Milan InterGetty

Tifava Juventus, come raccontato in una puntata di Controcampo del 1999, quando al goal subito dai bianconeri contro la Reggina al “Delle Alpi” si dispiacque: “Ci sono rimasto un po’ male perché sono un tifoso della Juve, spero che vinca stasera. Quando ero piccolo conoscevo solo la Juve, quando ero in Africa”. Contro i bianconeri segnerà diverse reti: “Eh ma io devo fare il mio lavoro!”.

“Siamo cresciuti con la passione per il calcio, giocavamo per strada, personalmente però non avrei mai pensato di poter diventare uno dei migliori calciatori al mondo”.

Al ragazzino che, nei nostri ricordi, alle elementari indossava la sua maglia qualcuno ha chiesto, almeno una volta, “perché Weah?”. La risposta, ovviamente, sta principalmente nel goal segnato al Verona alla prima di Serie A 1996/97: una corsa dalla propria area di rigore che ha radici profonde. Rimanda all’Africa, alle serate passate in strada che tanto non piacevano a sua nonna, che ha sempre cercato di tenerlo lontano da luoghi ostili, nonostante la povertà. Agli insulti ricevuti al PSG, alle cure di Wenger: al futuro ancora ignoto, al Chelsea e al Manchester City. Al Marsiglia. Alla presidenza della Liberia: alle proteste per la sua politica. Ma tanto, per dirla come la direbbe lui (e come gli ha insegnato un certo Roberto Baggio): “È tutto un magna magna”.

Non esiste un solo termine per definite quella rete, che in verità è un misto di tutto: velocità, forza fisica, intelligenza, sfrontatezza, incoscienza. Una spiegazione, estrapolandola dal contesto, la dà scherzosamente al microfono di Carlo Pellegatti: “Saluto tutti, belli e brutti”. I detrattori e i suoi avversari: proprio tutti. Lasciati indietro ad ammirare King George involarsi e andare in rete, ogni volta come la prima, entusiasmante. Sorprendente.

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