
A un certo punto, tra fine luglio e inizio agosto 2021, è ricomparso dall'oblio. Un picchiettare frenetico di dita gli ha ridato forma e vita. È bastato un accordo tra Juventus e Santos per Kaio Jorge e tac!, il mondo si è improvvisamente ricordato di lui. Twitter è impazzito, il suo nome è schizzato ai primi posti delle tendenze, il suo volto è tornato familiare per qualche ora. Con una domanda ricorrente: ma questo ragazzino - Kaio Jorge, appunto - non sarà mica un altro Gabigol? Perché l'ex nerazzurro, in Europa e in Italia, è simbolo di fallimento. Cocente, inequivocabile. Specialmente a fronte di quell'investimento altissimo e pesantissimo, 30 milioni che, sommati ai 40 per João Mario, si trasformano in una settantina. E in un bagno di sangue economico.
Gabigol, da qualche anno a questa parte, l'abbiamo dimenticato un po' tutti. Una meteora, un flop, un bidone. O anche tutto quanto assieme, come un mix di cui non andare esattamente orgogliosi. Se lo sono invece coccolati in Brasile, dove si è ricostruito in maniera poderosa una carriera e una credibilità che, in realtà, laggiù non aveva mai perso completamente. Al Santos, il club degli esordi prima dell'avventura europea, ma soprattutto al Flamengo. Dove, in un paio d'anni, è diventato uno dei più grandi beniamini della storia del club. Magari non alla pari di Zico, il più grande, ma quasi. Perché, come il Galinho, ha regalato quasi da solo ai rubronegros una Copa Libertadores, la Champions League del Sudamerica, il trofeo più ambito.
La serata che consegna Gabigol alla leggenda è il 23 novembre 2019. A Lima, sede della finale unica della Libertadores, il River Plate è avanti per 1-0 sul Fla. Sembra l'ennesima serata stregata, di nuovo contro un'argentina, proprio come un paio d'anni prima contro l'Independiente, anche se allora si trattava di Copa Sudamericana. Ma dall'89' al 92' accade l'impensabile: Gabigol segna una prima volta e poi pure una seconda volta, aggiungendo infine un cartellino rosso alla propria allucinante serata. È una sorta di replay di Bayern Monaco-Manchester United '99, solo che questa volta l'eroe è uno solo. Ed è un eroe che non ha paura delle superstizioni: prima della gara ha perfino toccato la coppa...

Rewind. Meglio tornare indietro di un paio d'anni, o poco meno. Al mese di gennaio 2018, l'inizio della rinascita. Gabigol è un calciatore psicologicamente distrutto. Non capisce come possa aver fallito in una maniera così sonante, fragorosa. All'Inter, ma pure al Benfica, dov'è stato sballottato in prestito per sei mesi come un pacco postale qualsiasi. Così decide di ripartire dove tutto è iniziato: al Santos. Del resto è l'ennesimo menino da Vila prodotto da quelle parti, un figliol prodigo che il club è ben lieto di riaccogliere all'ovile. E funziona, altroché: Gabigol ritrova se stesso, la voglia di giocare e un minutaggio di rilievo, concludendo il Brasileirão con 18 reti, al primo posto della classifica cannonieri.
Decisiva per la svolta è la decisione del tecnico Cuca di porre Gabigol al centro del proprio progetto tattico. Schierato largo a destra nelle rarissime apparizioni interiste, ora va a piazzarsi in mezzo all'attacco. Da solo. E dunque con la possibilità di svariare da una parte all'altra del campo, senza vincoli né costrizioni. Il resto, naturalmente, lo fa la fiducia. Quella che a Milano non ha mai trovato, nonostante l'iniziale e a volte ossessiva curiosità dei tifosi di vederlo in campo, e che in Brasile gli hanno sempre regalato.
“Se guardiamo alle mie origini – dice Gabigol nel 2018 – non sono un centravanti. Però ci ho giocato e mi piace farlo. Dopo l'arrivo di Cuca il mio rendimento è migliorato, questo lo sanno tutti. Ho una maggiore libertà di arretrare il mio raggio d'azione, di allargarmi, senza necessariamente ricevere il pallone spalle alla porta”.
Curioso rileggere sensazioni simili a tre anni di distanza. Gabigol si è (ri)consacrato proprio lì, nel ruolo di punta mobile ma più avanzata di un 4-2-3-1. Anche al Flamengo, che dal 2019 è il suo nido. L'all in dei carioca, che in pochi mesi hanno messo assieme un dream team comprendente anche Filipe Luis, Giorgian de Arrascaeta, Bruno Henrique, Rodrigo Caio e l'ex Bayern Rafinha, oltre al portiere Diego Alves, vede lui come perno centrale del progetto. Fiducia, ancora una volta. Per nulla esagerata. Perché in due anni Gabigol stravolge il Brasile. Segna 25 volte in campionato nel magico 2019 e altre 14 nel 2020, annata che ancora una volta vede il Flamengo chiudere davanti a tutti (stavolta col brivido, a differenza di 12 mesi prima).
“È un giocatore buono solo per il Brasile”, provocava l'ex River Driussi quattro giorni prima della finale di Libertadores. Ma sono parole che gli si sono ritorte clamorosamente contro. Anche perché Gabigol non è più il ragazzino che Frank de Boer chiamava “Gabi-non-gol” e al quale rinfacciava una certa anarchia tattica. Oggi è un giocatore veramente fatto e finito. Ha rafforzato il fisico e quando esulta lo fa flettendo i bicipiti sopra la testa, simbolo di potenza, sua e della propria squadra. A volte esagera nel riversare in campo le emozioni: in tre anni si è fatto espellere sei volte, non poche. Ma non sono che dettagli.
“Come poteva funzionare all'Inter, se non ha mai giocato? È arrivato, hanno fatto una festa enorme e ciò ha causato invidia nei compagni di squadra argentini– è la tesi di Wagner Ribeiro, il suo agente, in una recente intervista a 'UOL' – E infatti è andato al Santos e si è laureato subito capocannoniere, ripetendosi al Flamengo”.

Il passato è il passato. Il post Milano, lontano dalla depressione calcistica della panchina, rappresenta un presente felice. Nel 2019, il miglior anno della sua vita, Gabigol non ha solo vinto tutto il vincibile: è stato premiato miglior calciatore del Sudamerica ed è tornato a indossare la maglia della Seleção, che lo ha chiamato anche per la recente Copa America. A maggio ha superato Pelé nella classifica marcatori della storia della Libertadores, diventando al contempo il flamenguista più prolifico di sempre nella competizione. Non male.
E dunque, il dubbio continua a farsi largo. L'Inter non ha creduto nel proprio investimento, dice qualcuno. No, ribatte qualcun altro, è Gabigol che non si è mai messo nelle condizioni di farsi apprezzare. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Anche perché, mai dimenticarlo, il brasiliano arrivò a Milano a 19 anni, venendo catapultato in un ambiente impossibile da gestire per un adolescente. Ora che le primavere sono 26, Gabigol si rende conto di essersi ripreso tutto con gli interessi. E, magari, di essere davvero pronto per una nuova chiamata europea. Sì, forse siamo noi che non lo abbiamo capito fino in fondo.


