Questa finale – la gioia che strappa le lacrime e le notti che si fanno insonni tra il caldo e i sogni più belli – parte dal silenzio. Il silenzio di San Siro del 13 novembre 2017, quasi quattro anni fa. La partita più sciagurata della storia della nostra Nazionale, in una notte fredda nella quale capimmo che qualcosa era finito, spezzato. Non eravamo più immortali. Questa finale di Wembley comincia lì, il fischio che sentiremo domenica sera è solo un dettaglio, serve per l’arbitro, gli assistenti, le televisioni collegate e le pubblicità. Una convenzione.
Perché la nostra partita esiste già da allora, dura da quella notte, con il faccione disinteressato di Ventura, che si scusava a metà, senza dimettersi, con le urla di De Rossi in panchina, e una formazione senza né capo né coda che non sapeva più come distribuirsi in un campo che, all’improvviso, sembrava diventato piccolissimo. E la nostra partita comincia lì perché, dopo la notte più buia, è arrivato un uomo.
Un pazzo, come in tanti stanno ripetendo ora, perché ora è facile incensare il folle temerario che ha salvato il nostro calcio. Il pazzo che affermava che la sua squadra avrebbe compiuto grandi cose; e non era una dichiarazione spavalda, oppure di marketing, furbetta, uno spot di sé stessi come fanno certi allenatori mediatici. Proprio no. Roberto Mancini sapeva perfettamente di cosa stava parlando, perché aveva visto dove chi lo aveva preceduto e chi lo avrebbe dovuto commentare, non erano riusciti a mettere lo sguardo.
La finale di Wembley è un ruggito che ci meritiamo e a quel ruggito dovranno pensare i nostri ragazzi, in faccia agli inglesi e il loro tormentone “Football is coming home”, che giocheranno in casa, sospinti dal vento di una vittoria che sembrerebbe annunciata, per almanacco, cabala e rigori regalati con due palloni in campo in semifinale. Ma ci siamo ancora noi, tra loro e la coppa. I pazzi, gli affamati di rivincita, i quattro volte Campioni del Mondo.
C’è il tiraggiro e pure un tormentone di Italia ’90 rispolverato dal gruppo, con la Nannini e Bennato che sembrano ringiovaniti nei loro jeans a vita alta che gli calzano a pennello. C’è la squadra che ha giocato meglio al calcio fino a ora e quella che ha saputo battere pure l’unica che ha giocato meglio, la Spagna del signore più elegante e poetico del calcio moderno, Luis Enrique, che ha affermato che, domenica, tiferà per noi. E noi gli crediamo.
GettyCi sono Bonucci e Chiellini; il capitano con il 3, eterna roccia, ultimo centrale vecchia maniera, redivivo Vierchowood, Gentile, Baresi. L’uomo che ha segnato il rigore decisivo contro gli iberici senza nemmeno doverlo calciare, abbracciando un incredulo collega capitano, Jordi Alba, ridendo e scherzando; come dopo un paio di birre di troppo ci si lancia al collo di uno sconosciuto incontrato per caso in discoteca. Troppo italiano lui, troppo italiani gli altri. Anche chi è brasiliano in partenza, quel Jorginho che, dovesse alzare anche questa coppa, un Pallone d’Oro direi sia d’obbligo. C’è stato, e c’è ancora, Spina. L’esterno migliore degli Europei che sarà in campo pure senza esserci, giocheremo in dodici.
Anzi, giocheremo in quasi sessanta milioni. Sessanta milioni di italiani con le maglie addosso da casa, a sudarci dentro per l’afa criminale che sta soffocando il nostro paese sotto il cielo di un’estate italiana. E poi ci sono gli uomini che non ti aspetti – perché l’uomo della provvidenza non è mai quello che ti aspetti – come Pessina (due gol magnifici per lui) e Bernardeschi, vittima di meme infiniti, che entra nel momento più tosto della semifinale e mette un rigore all’incrocio dei pali, giusto per dire: non moriamo mai.
Perché lo possiamo urlare, con orgoglio e certezza: l’Italia non muore mai. Possono spegnersi le luci nella notte più buia, può restringersi il campo e si può scegliere l’allenatore sbagliato, quello sì. Ma l’Italia è un paese di navigatori, santi e poeti, ma soprattutto di calciatori. Calciatori bravi, che con la palla incollata ai piedi hanno dominato un Europeo, spiazzando i giornalisti di mezzo continente che hanno dovuto ammettere che non siamo solo catenaccio e contropiede, che sì, gesticoliamo tanto e magari simuliamo con un uomo a terra più del dovuto (e i loro? Ah, giusto, la differenza è che ai loro danno i rigori, poi), ma noi, quando conta, ci siamo sempre.
Questa finale dura da quasi quattro anni. Adesso manca solo un tassello. Vincerla. E allora: Forza, Italia. Andiamocela a prendere. Come solo undici matti vestiti d’azzurro possono fare.
