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L'altro "Diez" dell'Argentina al tempo di Messi: il "Pitu" Barrientos, "il calcio"

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In siciliano, l’unica parola che si avvicina, ai limiti, alla forma e al suono di “Pitu” è “Pitittu”: in breve, “Appetito”. Da lì, ovviamente, “Passarsi u pitittu”: togliersi uno sfizio. Soddisfare l’appetito “simbolico”: quello che viene dal profondo. L’appetito dell’anima: il calcio, come fatto sociale, in parte coincide con tutto ciò che riguarda la sfera interiore, stomaco compreso. Da sempre.

In verità, l’origine della parola “Pitu”, com’è noto, è diversa: distante dalla Sicilia, da Catania, pur legata da un filo riconoscibile e costante, coerente con la storia. In Sudamerica, ad esempio, con “Pitu” si intendono diversi aspetti della quotidianità, a seconda del Paese: in Brasile “Pitu”, o “Pitù” è un tipo di Cachaça, uno dei distillati più diffusi. In Argentina (e di conseguenza nei Paesi ispanici), invece, “Pitu”, come abbreviazione di “Pitufo”, è la traduzione del termine “Puffo”, poi presa in prestito per definire i “poliziotti”. Ma quest’ultimo concetto non riguarda la nostra storia, né quella di Pablo César Barrientos. Il “Pitu”, appunto.

Edgardo Bauza ha il viso scavato e definito di chi, pur non inserito nella nota lista degli allenatori “iconici” (al di fuori dell’Argentina), avrebbe potuto essere scritturato in un progetto cinematografico, se non fosse per quella perversa propensione al calcio che gli ha permesso di vincere due Copa Libertadores, con la Liga de Quito e il San Lorenzo. È anche il commissario tecnico della Nazionale argentina post “Tata” Martino, ma questo non lo ricorda quasi nessuno. Alla fine di dicembre del 2014 siede sulla panchina del San Lorenzo allo Stade de Marrakech di fronte al Real Madrid di Carlo Ancelotti, in finale del Mondiale per club, ma deve molto ad alcuni dei giocatori che compongono il suo 4-3-3. Uno è proprio il “Pitu”, che quel 2014 lo avrebbe dimenticato volentieri, se non fosse stato per l’esperienza in Marocco.

In estate lascia l’Italia e la Serie A, al termine della sanguinosa (simbolicamente) retrocessione del Catania in B: che stagione maledetta, quella. Aperta con un’immagine proveniente dall’anno passato, l’abbraccio, iconico, tra Barrientos e il “Papu” Alejandro Gomez, e sciolta nelle torbide acque dell’anticamera della decadenza di un impero che al “Pitu” ha dato tanto, ma a cui deve pure molto.

“Non leverei mai Barrientos dal calcio: Barrientos è il calcio”.
Barrientos Gomez CataniaGetty

È, probabilmente, una delle frasi più iconiche mai pronunciate nella lunga carriera da dirigente da Pietro Lo Monaco, che a Catania ha vissuto più vite, quasi quante il “Pitu”, pur in maniera assai diversa: è stato lui a volerlo in Sicilia, in fondo, quattro anni dopo uno dei più noti Sudamericano Under 20 della storia, disputato nello stesso anno dei Mondiali Under 20, vinti dall’Argentina. L’anno è il 2005.

Dell'Albiceleste che supererà il Brasile nella finale per il terzo e quarto posto ci sono Pablo Zabaleta, Ezequiel Garay, Lucas Biglia, “Pocho” Ezequiel Lavezzi. “Pitu”, ovviamente: e Lionel Andrés Messi Cuccittini. Leo. La “Pulga”. Con la numero 18. Sì. La 10 è già occupata: ce l’ha Barrientos.

Non era la prima volta, in verità: Pablo e Leo sono nati con due anni di distanza. “Pitu” è più grande, e anche per questo motivo è sostanzialmente all’ultima occasione prima della Nazionale maggiore. Per la “Pulga”, comunque, non è un problema: non lo è mai stato. Fatto sta che in Argentina, e per gli argentini, pur consapevoli di avere tra le mani l’uomo che li porterà, un giorno, a vincere di nuovo una Coppa del Mondo (perché certe cose sono scritte, le senti, al di là dei fiumi di retorica), nel 2005 “Pitu” è potenzialmente più forte della “Pulga”. Punto.

"I migliori giocatori che ho avuto? Uno forte che non è riuscito ad esprimersi è stato Barrientos: nelle giovanili aveva il 10 e costringeva Messi a prendere il 7. Non è riuscito ad esprimere il suo potenziale, un po' per l'infortunio e un po' per il carattere particolare".

C’è un errore, l’avrete capito, nelle parole che Rolando Maran rilascia a Sky Sport nel 2020: la 7 va a Lavezzi, in quella squadra allenata da Hugo Tocalli. Poco cambia: c’è un passaggio che, però, svela il perché della mancata consacrazione del “Pitu” sull’altare del calcio internazionale, ed eterno. Relegandolo a giocatore “iconico” e “romantico”, senza punti fermi: e, come nella stragrande maggioranza dei calciatori “romantici”, c’entrano le ginocchia. Troppo fragili, maledette.

Quando Sinisa Mihajlovic lo manda in campo contro il Genoa, al Massimino, in una calda, ma bella, giornata di metà maggio che coincide con l’ultimo turno di Serie A, nel 2010, “Pitu” ha la 10 sulla maglia e tre operazioni al ginocchio alle spalle. Tre. Tutte avvenute dopo l’esperienza all’FK Mosca, all’incirca all’inizio del Clausura del 2009, di ritorno al San Lorenzo.

È una follia, quella di Pietro Lo Monaco: una bellissima pazzia. Portare a Catania, e al Catania, un giocatore che deve sottoporsi a una serie infinita di interventi che, concretamente, possono mettere fine anzitempo alla sua carriera. Il tutto a 4 milioni di euro: cifra record per il club etneo, nel 2009.

Catania lo aspetta, lo coccola: “Pitu” lavora in silenzio. Non è neanche un “oggetto misterioso”, perché di lui si dice un gran bene e parlano le cronache: la Sicilia, in fondo, sa essere una terra fantastica. C’è del simbolismo, ogni volta che si parla dell’Etna, giustificato dall’essenza di “vulcano” che facilmente aiuta a comprendere perché certe storie riescono meglio di altre. La lava, il calore, il flusso che viene trasmesso dalla presenta di “Idda” non è indifferente: “Pitu” lo assorbe come nettare e rinasce. Grazie a Vincenzo Montella, nel 2011: grazie alla 28.

Quella finale del 2014, contro il Real Madrid, comunque, rimane uno dei punti più alti della sua carriera: giocherà anche in Messico, al Toluca, e in Uruguay, al Nacional de Montevideo. Da calciatore romantico, però, riesce a chiudere il cerchio. Si è ritirato nel 2021, dopo essere ritornato al Jorge Newbery di Comodoro Rivadavia. Casa sua, insomma: oggi ne è il presidente.

In Serie A ha lasciato un’impronta indelebile e diversi fedeli. “Pitu” non calciava il pallone: lo accarezzava, lo accompagnava. Gli suggeriva traiettorie. E il pallone lo seguiva: mai il contrario. C’è, ad esempio, una raccolta di frame della sfida vinta in rimonta dal Catania contro la Fiorentina, nel 2013, che lo ritraggono prendere palla a centrocampo e fermare il tempo. Rallentarlo: dettarlo a suo piacimento. Un apprendista stregone prestato al calcio: agile e non veloce. Non lo prendeva nessuno, se non l’attimo dell’errore, eluso da una posa scomposta: tra gli “Olè” del Massimino. Lui, silenzioso nelle interviste: solo risposte monosillabiche, rotte con un sorriso. Piccolo come i "Pitufos", i Puffi: “Pitu”. Togliendo la 10 a Messi. Un “Pitittu”: uno sfizio tolto. E qualcosa in più.

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