
“El Zurdo” Fredy Bessio continua a cantare, quasi in trance. Sembra voglia andare avanti così all'infinito. E non è il solo, perché come lui ci sono altre 55000 anime, unite in un solo corpo e in un solo spirito. “Orientales, la Patria o la tumba! Libertad o con gloria morir!”. E via così. Il 19 novembre 2009, al Centenario di Montevideo, tutti gli occhi e tutte le orecchie sono per lui. Anche quelle di Diego Lugano. È il capitano dell'Uruguay che, quella notte, deve difendere con le unghie e con i denti la qualificazione ai Mondiali del Sudafrica. Ma alla partita si penserà in un secondo momento. Prima c'è un inno da onorare nel migliore dei modi.
Peccato che le regole della FIFA impongano una durata non superiore al minuto e mezzo. L'inno dell'Uruguay è più lungo e sfora pesantemente. Ma “el Zurdo”, celebre cantante locale, va avanti lo stesso. I giocatori schierati in campo lo seguono alla perfezione. Chi controlla l'orologio sbuffando è l'arbitro di quell'incontro, Massimo Busacca. Uno abituato alla precisione e al rispetto delle norme. È svizzero, del resto, anche se nome e cognome ne tradiscono le evidenti origini italiane. E ha l'autorità per qualche bonaria minaccia. Quando si gira verso Lugano, che in qualità di capitano è proprio accanto a lui, inizia un siparietto entrato nella storia.
“Lugano, finitela. Saluta la gente e iniziamo”.
“Stanno cantando il nostro inno”.
“Lugano, finitela”.
“Assolutamente no”.
“Lugano, occhio che vi sospendo la partita e la perdete a tavolino”.
“Rispetta il nostro inno”.
“Vi fischio un rigore contro e non andate ai Mondiali”.
“Fallo e non esci vivo da qui. Qui non siamo in Europa, ti stacchiamo la testa. Ci sono 70000 uruguaiani pronti a picchiarti”.
Nemmeno Busacca riesce a mettersi di traverso tra l'Uruguay e i Mondiali. La Celeste, che all'andata ha vinto 1-0 in trasferta, pareggia 1-1 e vola in Sudafrica. Dopo la partita, Lugano e il fischietto svizzero si ritrovano in aereo. Racconterà il giocatore di non aver rivolto mezza parola al direttore di gara, perché “non sapeva se stesse scherzando oppure no”. Infine, il terzo e ultimo capitolo dell'incontro ravvicinato. Proprio in Sudafrica, prima della gara inaugurale contro i padroni di casa. Busacca si avvicina a Lugano e di nuovo prende il via il siparietto.
“Oggi non voglio ascoltare sette minuti di inno, eh? Qui non ci sono 70000 uruguaiani pronti a picchiarmi”.
“Nessun problema: ti picchio io da solo”. Ed entrambi scoppiano in una risata.
Per capire cos'abbia rappresentato Diego Lugano nel corso della propria carriera, la scenetta con Busacca delinea un ritratto piuttosto fedele: quello di un calciatore sanguigno e sempre pronto alla battaglia. Uno che ha posto la propria nazionale sopra tutto e sopra tutti. Uno che, come confessato da lui stesso, in macchina prima delle partite si ascoltava la registrazione della radiocronaca del Maracanazo del 1950 per caricarsi.
“Non so nemmeno io perché lo facessi – ha raccontato a 'Infobae' – Mi faceva capire che dovevo dare sempre di più, che avevo una grande responsabilità. Che facevo parte di un'eredità. In qualche modo comunicavo con la storia”.
Lugano è quello che viene ricordato più per l'atteggiamento provocatorio in campo che per le proprie doti. Andate su YouTube e ne avrete la riprova. Una compilation delle sue gesta ha per titolo “Diego Lugano: risse, cartellini rossi, momenti di furia”. Se al San Paolo lo hanno sempre chiamato “Dios”, soprannome che, in quanto religioso, non ha mai apprezzato, ecco che per qualche buontempone della rete è diventato “el Dios del foul”. Eppure in carriera Lugano si è visto sventolare in faccia appena nove cartellini rossi, dei quali quattro diretti. Ma la nomea di killer del pallone gli è sempre rimasta addosso, appiccicata come una seconda pelle. Una sorta di Paolo Montero dei nostri tempi, uno che non sopporta Neymar, “con quelle simulazioni e quei saltelli che fanno sì che i difensori entrino ancora più duramente nei suoi confronti”.
“Ma Paolo era molto peggio di me – ha detto a 'Olé', analizzando il paragone – Era duro, un leader. E occhio che era anche un gran giocatore, eh. Il problema è che a causa della sua durezza si parlava poco dell'aspetto tecnico. Magari avessi avuto metà della tecnica che aveva lui...”.
Certo, come Montero anche Lugano ci mette parecchio del suo per alimentare la nomea di cattivo. Nel 2016 dà vita a un caliente scambio di vedute con Paolo Guerrero in un San Paolo-Flamengo: “Ci vediamo dopo la partita”. In seguito, però, definirà il peruviano “uno degli avversari più degni che abbia mai incontrato”. Un decennio prima, durante la semifinale di Libertadores del 2006, si era lasciato andare a una rissa verbale con il 'Bofo' Bautista, attaccante dei Chivas di Guadalajara, personaggio pittoresco che quando segnava si toglieva una scarpa e la lanciava ai tifosi.
“Sai chi è quello lì? (riferito a Rogerio Ceni, ndr). È il portiere tre volte campione della Libertadores. Ha più trofei in bacheca che tutti gli altri giocatori in campo oggi messi assieme”.
“I difensori limitati sono così – aveva ribattuto Bautista prima della partita di ritorno – picchiano per intimidare gli avversari. Lugano è forte e aggressivo, ma la sua qualità più importante sono i falli”.
Vero, ma fino a un certo punto. Perché, dopo i promettenti inizi in Uruguay, Lugano si trasferisce in Brasile ed entra rapidamente nella storia del San Paolo. Come calciatore, non come boxeur. L'anno migliore è il 2005, nel quale conquista Copa Libertadores e Mondiale per Club, venendo nominato miglior difensore del Brasileirão e pure del Sudamerica.
In quegli anni il Tricolor paulista, in patria ma pure in Sudamerica, è ingiocabile quasi per chiunque. Lugano diventa un tutt'uno con Ceni. Sono l'anima della difesa, la spina dorsale dello spogliatoio. Cattiveria agonistica abbinata a mentalità vincente. Nel giorno del ritiro dell'ex compagno, 3 dicembre 2017, Rogerio scrive sui social: “Gracias, Dios”. Anche se, quando anni dopo il portiere dirà che “nel calcio ho avuto al massimo un amico vero, ovvero Lugano”, l'uruguaiano non nasconderà il proprio stupore: “Ma se sono sette anni che non ci sentiamo!”.
Getty Images AsiaPacIl matrimonio finisce per la prima volta a metà 2006. Lugano lascia il San Paolo e il Brasile per andare al Fenerbahçe. Come Alex, altro sudamericano, diventerà un immortale del club. Vince due volte il campionato e altrettante la Supercoppa locale. I derby contro il Galatasaray sono una corrida alla quale – figuriamoci – non ha la minima intenzione di sottrarsi. I tifosi lo adorano, a tal punto che uscire di casa senza essere assediato è una missione praticamente impossibile.“Avevo le chiavi della città”, ha detto, paragonando la sua esperienza a quella nella più tranquilla Parigi. All'inizio del 2020 è tornato in Turchia per assistere a un Fener-Galatasaray, travestendosi con occhiali e barba posticcia per non farsi riconoscere.
“A livello individuale – ha raccontato Lugano al sito della CONMEBOL – credo che gli anni al Fenerbahçe siano stati i migliori della mia carriera. Anche lì, come al San Paolo, la tifoseria non mi ha mai dimenticato. È stato un gran bel periodo, abbiamo vinto dei trofei, giocato la Champions, io ho segnato parecchi goal. I tifosi turchi vivono per il calcio, sono appassionati. E poi la qualità della vita a Istanbul è molto buona”.
Nel 2009, però. sembra che la carriera di Lugano sia destinata ad assumere tinte tricolori. Lo vuole la Lazio, pare che l'accordo sia questione di ore. Ma l'uruguaiano, in scadenza, alla fine rinnova coi turchi. Rimane a Istanbul un altro paio d'anni, in tempo per vivere la grande delusione del 2010. Un finale di campionato memorabile, in cui a contendersi il titolo turco sono il Fener e il Bursaspor. Allo stadio del Fenerbahçe, fermo sull'1-1 col Trabzonspor, lo speaker dà erroneamente la notizia del pareggio del Bursaspor. Che però in realtà ha battuto il Besiktas, operando il sorpasso al primo posto. Tra seggiolini divelti e incendi sulle tribune, la gioia dei tifosi della Capitale si tramuta ben presto in rabbia.
İHANulla in confronto allo scandalo calcioscommesse che travolgerà la Turchia di lì a qualche mese. Anche il Fenerbahçe è messo in mezzo. Il club viene escluso dalla Champions League 2011/12 e, per protesta, il presidente Ali Koc dichiara in maniera provocatoria di volere la retrocessione: “Se non siamo in Champions, perché giochiamo la Super Lig?”. La squadra viene graziata e rimane in prima divisione, ma i tempi per l'addio di Lugano sono ormai maturi. Anche perché in quelle stesse settimane arriva la chiamata di lusso, quella a cui proprio non si può dir di no. Lo vuole il neonato PSG degli sceicchi e l'uruguaiano, naturalmente, accetta.
A Parigi, però, nulla va per il verso giusto. Ben presto arriva Carlo Ancelotti, che Lugano proprio non lo vede. Eppure era stato proprio lui ad evitare che l'esordio dell'italiano in panchina si trasformasse in una figuraccia, con una rete in extremis fondamentale per battere i dilettanti del Saint-Colomban in Coppa di Francia. Dopo qualche mese tra campo (poco) e panchina (parecchia), il culmine arriva con l'esclusione dalla lista Champions del 2012/13. E lì Lugano esplode pubblicamente, affidando al quotidiano 'Ovación' il proprio malcontento:
“Sono frustrato. Sono scelte dell'allenatore, ma sicuramente non mi fanno piacere. Qualcuno potrebbe pensare che per questo motivo non mi sto tenendo in forma, ma non è affatto così. Dallo staff medico mi dicono che le mie condizioni sono buone. Io ho altri principi e modi di fare e devo dire che ci sono rimasto molto male quando ho saputo solamente dai giornali che non sarei stato inserito nella lista UEFA”.
Sono gli ultimi battiti della carriera di Lugano. Che se ne va in prestito al Malaga, quindi accetta il West Bromwich Albion, infine emigra addirittura all'Hacken, in Svezia. “El fútbol es un poco loco – dice al momento dell'arrivo in Scandinavia – È incredibile che lontano da casa ti accolgano così bene e ti rispettino così tanto”. Una spruzzata di Paraguay (Cerro Porteño) e dunque, inevitabilmente, il ritorno al San Paolo. Lì dove tutto è davvero cominciato. Prima come calciatore, con tanto di litigio con l'ex romanista Michel Bastos. Poi come direttore delle relazioni internazionali. Se n'è andato all'inizio del 2021.
E poi c'è l'Uruguay, di cui è simbolo ed eroe. All'inizio non si prende benissimo col Maestro Tabarez, tanto da arrivare a dirgli: “Sei qui per il calcio, non per trovare soluzioni al mondo”. Ma col passare degli anni il rapporto diventerà strettissimo. Durante i ritiri condivide la stanza con Diego Forlan, dicendo che “eravamo come il giorno e la notte, lui perfettino con i suoi vestiti tutti piegati e riposti in ordine, io tutto il contrario”. Una volta rischia pure di venire alle mani col “gemello” Diego Godin, reo di aver lasciato in 10 l'Uruguay in una partita contro il Perú. Tutto normale.
Non toccategli la Celeste, a Lugano. O sono dolori. Come quella volta in cui il cileno Jara piazza un dito a tradimento nel fondoschiena di Cavani e Diego fa partire la minaccia via social:“Ci sarà di che parlare quando io e questo "Jarita" ci troveremo da qualche parte nel mondo”. Ancor più celebre è l'episodio del morso di Luis Suarez a Giorgio Chiellini. Quando gli chiedono un parere dopo la partita, Lugano ribalta la frittata:
“Io non ho visto alcun morso e nemmeno voi giornalisti, perché non ce ne sono stati. Quello di oggi è stato solo un contrasto di gioco. I segni sul collo di Chiellini sono vecchie cicatrici, chiunque se ne renderebbe conto”.
Normale, per uno che ha sempre fatto della polemica e delle esagerazioni uno stile di vita. Malvisto dagli avversari, esaltato dai compagni. Da quelli con cui ha vinto la Copa America del 2011 in Argentina, ad esempio. A proposito di quell'estate trionfale: dopo la finale vinta contro il Paraguay, l'Uruguay è stato insignito del premio Fair Play. In qualità di capitano, è toccato proprio a Lugano alzare il simbolico trofeo. E il Loco Abreu, un altro che ha sempre avuto una testa tutta particolare, se l'è fatta sotto dalle risate: “È come dare il Nobel per la pace a Osama Bin Laden”. Ma Diego non se l'è presa. Almeno per una volta.
