
9 marzo 2004. Old Trafford, Manchester. La gara di ritorno degli ottavi di finale di Champions League pare avviata verso l'unico esito possibile e immaginabile: United ai quarti, Porto eliminato. L'1-0 qualifica i Red Devils, che all'andata avevano perso per 2-1 in Portogallo. Poi, al 90', la svolta. Della serata, di quell'edizione di Champions. Ma, se vogliamo, anche di una bella fetta di calcio moderno. Benni McCarthy, che a Oporto aveva realizzato una doppietta, batte una punizione maligna che il portiere Howard legge male e respinge peggio: sul pallone si avventa tale Francisco Costinha, il cui tap-in ravvicinato è vincente. 1-1. Porto ai quarti.
Quel che succede in quei secondi è destinato a entrare nella storia. La corsa sfrenata di José Mourinho sotto il settore dei tifosi del Porto, per partecipare all'esultanza collettiva dei propri giocatori, non l'ha dimenticata nessuno. Sa benissimo, José, che quella rete può cambiargli la carriera. Perché dopo lo United ci sono il Lione, il Deportivo La Coruña e infine il Monaco, avversari di livello ma ampiamente superabili. E infatti il Porto passa sopra a tutti come un trattore, conquista la Champions League a Gelsenkirchen e Mou prende il treno che porta dritto verso la gloria. Ma tutto parte da lui, da Costinha. Un anonimo pedatore del pallone trasformatosi in re per una notte.
GettySalto in avanti. 23 febbraio 2010, nemmeno sei anni più tardi. L'Atalanta emette un comunicato così scarno, freddo e apparentemente sarcastico da risultare surreale: “Risoluzione consensuale per Costinha. Ciao”. Nessun augurio “per il prosieguo della tua carriera professionale” (che in realtà si concluderà lì), nessun “ringraziamento per l'impegno profuso”, nessuna frase fatta da annuncio ufficiale. Nessuna mielosa ipocrisia, in fondo. Perché il rapporto tra Costinha e l'Atalanta è stato focoso, ma nel senso sbagliato. Turbolento, velenoso, pieno di accuse reciproche. Fino a una separazione al cianuro.
Costinha arriva all'Atalanta nell'estate del 2007. A parametro zero, anche se l'ingaggio è bello pesante. Un colpo da novanta, si pensa all'epoca. Il portoghese si era messo in luce già una decina d'anni prima nel Monaco, inerpicandosi fino alla semifinale di Champions League con un altro nome: il “Da Costa” che nel 1998 segnava al Delle Alpi contro la Juventus, poi vincente per 4-1, era proprio lui. Tra il Principato e Oporto, dove arriva nel 2002, il suo palmares è impressionante: una Ligue 1, due campionati portoghesi, una Coppa UEFA, la Champions di Gelsenkirchen, una Coppa Intercontinentale, più coppe e coppette assortite. E, con la Selecção, la cavalcata fino alla finale di Euro 2004, poi persa contro la Grecia.
Quando sbarca a Bergamo, Costinha ha 33 anni. Non è più un ragazzino, e nel recente passato si è visto: viene da una stagione senza troppo smalto all'Atletico Madrid, dopo averne trascorsa un'altra in Russia con la Dinamo Mosca. Le primavere migliori le ha vissute nel Porto assieme al sodale Maniche, altro pupillo di Mourinho, che qualche anno dopo se lo porterà all'Inter. Mou lo amava, Costinha. Perché era lui l'equilibratore del suo gioco, quello che permetteva a trequartisti e attaccanti di non preoccuparsi troppo della fase difensiva, perché tanto c'era lui in mezzo al campo a correre e pressare per due.
A Bergamo, questo Costinha non si vede. E dire che l'esordio in Serie A è un sogno. 2 settembre 2007, Atalanta-Parma 2-0. Il nuovo arrivato, nerazzurro da poco più di una settimana, viene schierato titolare da Gigi Delneri, che ha già avuto modo di apprezzarlo nella sua brevissima parentesi nel Porto post Mou. Gioca 54 minuti, Costinha, prima di far spazio a Tissone. E gioca tutto sommato discretamente, tanto che il giorno dopo i 6 in pagella non mancano. “Il fiato ancora manca”, scrive la Gazzetta dello Sport, ma tanto il tempo per recuperare c'è, giusto?
Sbagliato. Perché da quel 2 settembre al 23 febbraio 2010, il famoso giorno dell'addio al veleno, quella rimarrà l'unica presenza di Costinha con l'Atalanta. Si parte con un infortunio muscolare che lo tiene fuori un mese: distrazione muscolare di secondo grado al bicipite femorale della gamba sinistra, recita la diagnosi. Il recupero, tra ricadute e cattiva gestione, è un calvario. Tanto che il portoghese trascorre l'intero 2007/08 in infermeria e l'Atalantaarriva perfino a chiedere la rescissione unilaterale del contratto al Collegio Arbitrale.
“In 14 anni di carriera non mi era mai capitata una stagione così – dice nell'agosto del 2008 all'Eco di Bergamo – mi dispiace per la società che ha fatto un investimento importante e per il mister che ancora adesso è sotto pressione per aver voluto un calciatore che non ha dato niente. L'Atalanta ha chiesto la rescissione? Posso capire la società che deve fare i propri interessi. In fondo io non ho mai giocato e ho tre anni di contratto. Ma quest'anno sarà diverso, sono molto fiducioso. Di quanto successo l'anno scorso non voglio più parlare, ora voglio dare anche io qualcosa all'Atalanta. Se ho pensato di andarmene? Mai. Andrei contro il mio carattere. Ovunque sono stato ho lasciato un buon ricordo e sono andato via da vincente. Non voglio lasciare l'Atalanta da perdente, non voglio pensare di essere venuto qui in vacanza, come tanta gente ancora crede".
-Nonostante lo spirito battagliero, la svolta non arriva. Nella seconda stagione l'Atalanta scarica Costinha, che non viene mai convocato da Delneri. La frattura è ormai totale, tanto che più volte il giocatore viene beccato a San Siro a vedere le partite dell'Inter di Mourinho, invece che all'Atleti Azzurri di Bergamo. Vero solo in parte, si è difeso Costinha qualche anno più tardi raccontando la propria versione al Corriere di Bergamo.
“Ho visto tutte le partite dell'Atalanta, ma in tv, a casa mia. Non allo stadio perché stavo male. Il calcio è stata la mia vita e non potevo giocare per decisioni altrui. Tutti sparlavano di me alle spalle: li capisco perché non avevano informazioni. Solo quando l'Atalanta non giocava mi recavo a San Siro per l'amicizia che mi lega a Mourinho".
Il sodalizio con Mou potrebbe peraltro riformarsi proprio all'Inter, che nel 2009 imbastisce con l'Atalanta uno scambio con Olivier Dacourt, fuori dai piani della dirigenza e di Mou. Per Costinha è un sogno. O, se si preferisce, l'uscita da un incubo. Ma l'operazione non va a buon fine: il portoghese resta a Bergamo, l'ex romanista a Milano. Prima di lasciare comunque l'Inter qualche mese dopo, ma per tornare in Inghilterra, al Fulham. Altro motivo di risentimento per Costinha, che quello sgarbo non l'mai dimenticato.
“Potevo andare all'Inter, con Mourinho – ha raccontato l'ex nerazzurro – Però all'Atalanta rifiutarono uno scambio con Dacourt, probabilmente avrebbero perso la faccia. Non solo non mi facevano giocare, ma parlavano anche male di me”.
Nel mirino ci sono due dirigenti: il direttore sportivo Carlo Osti e soprattutto il direttore generale Cesare Giacobazzi. Nel 2007 è proprio quest'ultimo a opporsi con tutte le proprie forze all'acquisto di Costinha, considerato costoso e sul viale del tramonto. Ma a prevalere è la volontà del presidente Ivan Ruggeri, che pretende la chiusura dell'operazione. Quando lo stesso Ruggeri viene colpito qualche mese dopo da un'emorragia cerebrale che lo porterà alla morte nel 2013, dovendo lasciare le redini del club al figlio Alessandro, il mondo di Costinha si sfascia.
“L'Atalanta ha perso una figura straordinaria, aveva un carisma incredibile. Alessandro è un bravo ragazzo, ma aveva già altro a cui pensare e si fidava dei propri direttori. Con lui non ho problemi, ci sentiamo anche per Natale. Pressioni per non farmi giocare? Dovreste chiederlo a Delneri, ma sono freddo e analizzo le cose. Ogni volta che mancava un centrocampista ne veniva acquistato un altro. Anche successivamente con Gregucci e Conte: piuttosto di farmi giocare hanno comprato Zanetti e De Ascentiis”.
Eccolo, il triennio italiano di Costinha. Una piccola, grande macchia in un percorso costellato di trionfi. Quella gara contro il Parma, preludio a un rapporto pieno di reciproche soddisfazioni, si trasforma nel suo canto del cigno. Il pupillo di Mourinho, dopo quel pomeriggio estivo, non mette più piede in campo. Tre giorni dopo l'addio a Bergamo diventa il ds dello Sporting, poi emigra in Svizzera, infine si ricicla come allenatore portando il Nacional dalla Segunda alla Primeira Liga nel 2018. L'Atalanta è il passato. Basta solo non rivangarlo.


