
Vi sfidiamo con una provocazione, ma siamo sicuri di vincere: conoscete Ciriaco Sforza solo ed esclusivamente per il film “Tre uomini e una gamba” di Aldo, Giovanni e Giacomo. Non conoscete la sua storia, né sapete i motivi dietro al suo flop con la maglia dell’Inter. O, al massimo, vi siete informati solo dopo aver visto il film del trio comico italiano. Spoiler: tranquilli, è tutto normale. Sarebbe strano il contrario.
Eh già, perché almeno in Italia, Ciriaco Sforza è noto al grande pubblico proprio per quella mitica e immortale scena di “Tre uomini e una gamba”. Per quei pochi che non la conoscessero, ve la raccontiamo in breve (oltre a lasciarvi il video qui sotto per strapparvi una risata). Giacomino si trova ricoverato in ospedale, dopo una intossicazione di cozze che lo ha portato ad “una bella colica renale”.
Deve passare la notte in ospedale, ma non ha il pigiama perché normalmente dorme nudo, a suo dire. Così l’amico fraterno Aldo gli presta il suo. Nella scena seguente, si vede Giacomino passeggiare assonnato in ospedale, con il “pigiama” di Aldo: un paio di pantaloncini corti ed una maglietta dell’Inter. Ma a restare nella storia non è tanto la maglia nerazzurra, quanto il giocatore ed il numero che sono impressi sulla maglia: Ciriaco Sforza ed il suo 21.
Giovanni così richiama Aldo: “Sì però anche tu, ti sembra il caso di dormire con la maglietta di Sforza?”. E qui arriva il mito, il ricordo di Sforza cambierà drasticamente in Italia per la battuta seguente di Aldo: “Eh, quella di Ronaldo era finita...”.
L’ex calciatore svizzero da quel momento in poi sarà sempre associato a quel film, la sua storia si intreccia a doppia mandata a quella di Ronaldo. Una contrapposizione che funziona subito, d’impatto, tra il Fenomeno che tutti i tifosi dell’Inter hanno adorato ed il flop tipico del club di Moratti, che in quegli anni rivoluzionava la squadra ad ogni estate con calciatori che da lì all’anno seguente non si sarebbe ricordato più nessuno.
Ma una delle cose più divertenti è il fatto che, all’Inter, Ciriaco Sforza e Ronaldo Luís Nazário de Lima non hanno mai giocato insieme. E questa non è una cosa che tutti sanno… Lo svizzero milita in Serie A una sola stagione, quella del 1996-1997, il brasiliano arriva all’Inter proprio l’estate in cui Sforza saluta l’Italia. Ma, ai fini del film, questo poco conta: il dualismo tra il desiderio di avere la maglia di Ronaldo e ritrovarsi con quella di Sforza è troppo esilarante.
Soprattutto per i più giovani, andiamo però a ripercorrere quella stagione del calciatore svizzero all’Inter. Fu davvero così deludente? Beh, come sempre il ruolo principale viene giocato dalle aspettative e dal contesto. In termini di numeri, per uno che di ruolo faceva il regista di centrocampo, le sue statistiche non furono nemmeno così deludenti: 40 presenze tra Serie A, Coppa Italia e Coppa UEFA, con quattro goal messi a segno.
Era l’Inter di Roy Hodgson e proprio l’allenatore inglese lo volle a Milano a tutti i costi: aveva allenato Ciriaco Sforza da commissario tecnico della Svizzera (ruolo coperto dal 1992 al 1995) ed era diventato il suo pupillo. Convinse Moratti a prelevarlo dal Bayern Monaco (i bavaresi lo avevano acquistato dal Kaiserslautern), dove aveva deluso le aspettative. Un acquisto però che già in partenza per molti fu sbagliato a livello di concetto.
In quella zona di campo, già dall’anno precedente, a Milano c’è infatti Paul Ince, pupillo di Massimo Moratti. Ed infatti per tutto il 1996-1997, Sforza e l’inglese si calpestano i piedi in mezzo al campo. E pensare che l’avventura nerazzurra era cominciata nel miglior modo possibile: prima giornata di campionato, debutto e gran goal (un mancino al volo, da posizione decentrata) contro l’Udinese. Quello resterà però anche l’unico suo goal in Serie A, mentre gli altri tre verranno segnati in Coppa UEFA.
E l’esperienza all’Inter si concluse proprio con la cocente sconfitta in finale di quella Coppa UEFA, che Sforza aveva comunque disputato da protagonista e da titolare. Finale persa ai rigori contro lo Schalke 04, dopo una doppia sfida tra andata e ritorno che si era chiusa in perfetto equilibrio (1-0 all'andata e 1-0 al ritorno).
Sforza lascerà i nerazzurri nell’estate del 1997, per tornare in Germania e ripercorre allo stesso modo le vecchie tappe della sua carriera, prima al Kaiserslautern dove riesce a vincere una Bundesliga inaspettata, con la squadra appena neopromossa dalla Zweite Liga (record nella storia del calcio tedesco); poi ancora al Bayern Monaco dove la sua carriera si incaglia del tutto. Qui, comunque, si riesce a prendere una rivincita verso Milano che ha dell’incredibile: pur restando in panchina nella finale, vince l’edizione 2000-2001 della Champions League, con la finale disputata proprio a San Siro, nel suo vecchio stadio ai tempi dell’Inter.
GettyL’avventura al Bayern finisce però male ed il giocatore tornerà per la terza volta al Kaiserslautern, dove chiuderà la carriera da calciatore nel 2006. Ma come mai finì bruscamente il capitolo con i bavaresi? Per un “litigio” con Karl-Heinz Rummenigge, all’epoca vice-presidente del club. Nel corso di un’intervista a ‘Blick’ risalente al 2016, Sforza parlò così di quell’episodio, che a suo dire gli danneggiò la vita.
“Una volta Karl-Heinz venne nello spogliatoio del Bayern, diede la mano a tutti, anche a me, ma io fui l'unico che non guardò in faccia. Guardava già al giocatore successivo. Gli dissi che in situazioni del genere le persone si guardano negli occhi, gli dissi che io ero stato educato in questo modo. Poco dopo mi definì pubblicamente "Stinkstiefel" (letteralmente ‘stivale puzzolente’, si usa per una persona molto lamentosa e scontrosa) e venni messo in disparte. Forse era infastidito dal fatto che lo avessi ripreso davanti a tutti. Mi ha danneggiato per tutta la vita”.
Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, Sforza diventò sùbito allenatore: due anni al Lucerna, tre al Grasshoppers, Thun, Wil e l’avventura al Basilea, grande occasione della sua vita. Ma nella sua vita, purtroppo, ci fu anche spazio per un periodo molto buio. Una vera e propria depressione, che lo colpì ai tempi del Grasshoppers. Il suo racconto, sempre affidato ai microfoni di ‘Blick’, è però di grande stimolo per tutte le altre persone che si ritrovano nella sua stessa situazione.
“La malattia era un segnale che dovevo cambiare la mia vita. Mi ammalai per un insieme di fattori . Il primo anno al Grasshoppers arrivai terzo, ma la società doveva vendere per risanare i debiti. Avrei dovuto tirarmi indietro. Non c'era un progetto... Invece restai ma non riuscivo più a dormire. Avevo paura. Paura del fallimento, della vita. Avevo paura di morire di infarto per via della pressione. Andai dallo psicologo e parlai, parlai, parlai. Non è una debolezza andarci. Non ho mai preso antidepressivi. Per me era importante riuscire a farcela senza. Oggi sono un uomo più forte”.
Come avrete potuto notare, tra Bundesliga e Champions League, quel ricordo che abbiamo noi italiani di Sforza è sicuramente deviato e ‘falsificato’. Ma siamo comunque giustificati a ridere ogni volta davanti a quelle battute, perché lo stesso Ciriaco, anni dopo, commentò con queste parole il mito di Aldo, Giovanni e Giacomo.
“Se le persone si ricordano di questo film e quindi anche di me, allora posso prenderlo come un complimento, è una cosa positiva”.




