“Fu il momento più triste della mia carriera: un Derby particolare, difficile. Restammo più di 40 minuti negli spogliatoi: non sapevamo cosa fosse successo all’esterno. Quando siamo entrati sul terreno di gioco cercammo di fare il meglio che si poteva fare”: tra i ricordi del compianto Stefano Farina, arbitro e designatore, ce n’è uno che lo stesso direttore di gara piemontese avrebbe voluto rimuovere, archiviandolo definitivamente.
Al 58’ lo stadio “Angelo Massimino” è un girone dantesco. Non si gioca più: i giocatori e i componenti degli staff tecnici di Catania e Palermo sono sparpagliati sulla fascia più vicina alla “Tribuna A”, fermi, con le borracce in mano a lavar gli occhi. Mica a dissetarsi. Lacrimano, mentre il campo si tinge di un opaco e denso bianco: sugli spalti continuano a piovere lacrimogeni. È un inferno.
Quello che va in scena, quella sera, è il primo Derby giocato nella città etnea dal ritorno in Serie A di entrambe le squadre siciliane: un evento che, tra l’altro, ha un background sportivo assai “particolare”, almeno quanto inedito. Sia il Catania che il Palermo, alla vigilia, sono in corsa per un piazzamento valido per la qualificazione alla successiva Champions League (rispettivamente quarti, i rossazzurri, e terzi, i rosanero). Dal punto di vista simbolico, comunque, avrebbe dovuto, e potuto, essere il giorno di massima espressione del calcio siciliano tutto, per l’ultima volta nella storia rappresentato da tre squadre (Messina compreso) in massima serie: e invece passerà alla storia come il giorno in cui la Sicilia si è riscoperta fragile nelle fondamenta, mostrando contraddizioni che, 17 anni più tardi, appaiono anch’esse deboli, nel profondo.
A rendere più complessa la lettura dell’evento in sé, sciolto dai connotati calcistici, l’altro lato “religioso” (l’altro, sì, rispetto al calcio): la festa di Sant’Agata, in programma tra il 3 e il 5 febbraio. Una delle celebrazioni più seguite a livello mondiale, proprio in concomitanza con quella che, da calendario, sarebbe stata la data della partita, il 4: l’allora sindaco Umberto Scapagnini invia una lettera al Ministero dell’Interno per chiedere lo spostamento del Derby. Richiesta accettata: disputare un match così importante nei giorni di Sant’Agata, pur simbolicamente interessante, sarebbe stata una follia. Quella di anticiparla alle ore 15 di venerdì 2, con il favore della luce, invece, rimarrà solo un’ipotesi: si gioca alle ore 18.
“Giocare a tutti i costi alle 15 con la luce del giorno avrebbe rafforzato l'assunto che il tifoso catanese è il più cattivo d' Italia, e questo non è vero e mi dà molto fastidio. Ringrazio il prefetto per il buon senso”, spiegò pochi giorni prima l’allora direttore generale del Catania, Pietro Lo Monaco.
Lo stesso che aveva minacciato di non far scendere in campo la sua squadra, qualora si fosse giocato nel primo pomeriggio: in totale contrapposizione con quanto, invece, sostenuto dal presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, che aveva definito lo stesso spostamento “la solita storia all’Italiana”, prima di essere smentito da Antonino Pulvirenti, ai microfoni di Sky Sport. “Zamparini non sa cosa sia la festa di Sant’Agata per Catania”. Non sapremo mai cosa sarebbe accaduto, di diverso, se fosse stato scelto un orario diverso. No, questo no: a noi tocca ricordare tutto il resto. Del “senno di poi” ce ne facciamo poco: resta la vis polemica dei protagonisti, spazzata via di lì a qualche giorno dallo scoramento.
Una delle immagini più significative di quella sera, comunque, viene consegnata dalla coreografia del “Massimino”, all’inizio della sfida solo ospitato da tifosi del Catania: quelli del Palermo sono ancora fuori. La “Curva Nord” espone uno degli striscioni più famosi del club rossazzurro, già mostrato all’esordio, dal ritorno in Serie A, contro l’Atalanta: la “Sud”, invece, un quadro. È l’immagine di Sant’Agata: alle sue spalle vengono sparati dei fuochi d’artificio. Sembra uno stadio sudamericano: è pur sempre uno dei Derby più sentiti d’Italia.
Fuori dalle mura, il Questore schiera un servizio d’ordine di millecinquecento uomini: un esercito, chiamato a spegnere sul nascere qualsiasi forma di violenza, soprattutto dopo quanto accaduto all’andata, al “Renzo Barbera”. Cinque tifosi arrestati, cinque poliziotti feriti: bilancio che rafforzava l’idea di una gara “a forte rischio”. I tifosi del Palermo arrivano dopo l’intervallo.
“C’è stato un tour alternativo: non volevano far fare un giro convenzionale le forze dell’ordine per evitare imboscate. Il problema è che questo tour alternativo ha confuso gli autisti, che hanno sbagliato strada”, racconta Paolo Assogna da bordocampo.
In un certo senso, è lì che inizia la partita: pur con tutti i limiti del caso. Perché lo 0-0 del primo tempo, così come parte della ripresa, non lo ricorda più nessuno: le immagini dei goal sono confuse, invece. Al 50’ Andrea Caracciolo porta avanti i rosanero: girata perfetta, da attaccante puro, viziata da una posizione di fuorigioco. Sarà uno dei temi di una moviola mai affrontata, né presa in considerazione. Cinque minuti più tardi al “Massimino” non si vede più nulla: a un primo lancio di petardi e fumogeni ne segue uno di lacrimogeni, volto a sedare gli animi sugli spalti. I presenti lacrimano. L’aria diventa irrespirabile: le squadre rientrano negli spogliatoi. Eccolo, uno dei gironi dell’inferno.
Mezz’ora: tanto il Derby di Sicilia rimane fermo. Mezz’ora: mezz’ora di sospensione e di confusione, di dichiarazioni rilasciate a bordocampo dai rappresentanti di Catania e Palermo che si perdono nel nulla cosmico dei ricordi lasciati ai posteri. Un minuto dopo la ripresa del gioco, al 59’ di un cronometro ormai simbolico, Fabio Caserta scaglia il pallone alle spalle di Alberto Fontana. Il pareggio illude i rossazzurri: a otto dalla fine David Di Michele insacca l’1-2, tra le proteste dei giocatori allenati da Pasquale Marino, per un tocco di mano dell’attaccante rosanero. Farina convalida.
“Non è stata di quelle vittorie che ti esaltano, in un clima particolare”.
A parlare, nel post-partita, è Rino Foschi, direttore sportivo del Palermo. Quel poco di calcio che c’è stato, se c’è stato, finisce sostanzialmente lì. “Guidolin mi ha detto a un certo punto che non aveva più voglia di giocarla”, prosegue, prima di essere interrotto bruscamente da Giovanni Guardalà.
Il viso, scuro, è quello di Pietro Lo Monaco, sopraggiunto in mixed-zone: l’inquadratura di Sky Sport si allarga, riprendendo i due dirigenti di Catania e Palermo. Le polemiche della vigilia non esistono più: si rompe anche la “quarta parete”, coinvolgendo lo spettatore che, da casa, ferma il tempo e fissa lo schermo.
“Mi dicono che un poliziotto è morto: non so come, aspettiamo la conferma ufficiale dell’ospedale Garibaldi. Parlare di calcio penso sia perfettamente inutile”.
L’espressione di Foschi, dopo le parole di Lo Monaco, cambia: non è una notizia confermata, ma una voce concreta, importante, a cui fa eco in maniera assordante una serie di battute dei due dirigenti, infrante contro il freddo muro della realtà.
“Con questo ho finito: esco dal mondo del calcio, non mi riconosco assolutamente in tutto questo. Non è più calcio”, esordisce Lo Monaco. “Guardate queste immagini: ma cosa abbiamo vinto? Questa sera abbiamo perso tutti”, risponde Foschi. I due abbandonano la mixed-zone.
Quel che in cronaca non è stato raccontato è che, in qualche modo, il servizio d’ordine dispiegato per l’evento non ha funzionato: o se ha funzionato, comunque, qualcosa è andato storto. Alle prime, confuse, ricostruzioni seguono le immagini degli scontri dei tifosi del Catania con gli agenti. Uno di loro, trasportato all’Ospedale Garibaldi, perde la vita: l’ispettore capo Filippo Raciti, quarant’anni.
Questa, è bene precisarlo, non è la sede adatta per ricostruire una delle vicende che, a 17 anni di distanza, rimane piena di dubbi, perplessità e incongruenze sulla dinamica della morte di Raciti. Limitandoci a riportare quanto deciso nelle aule dei Tribunali, a essere condannati sono Antonino Speziale e Daniele Micale. Sul resto, sul come, su chi, sulle versioni depositate dai testimoni, su tutto questo resta, in trasparenza, un fondo di mistero.
“Il calcio si ferma a tempo indeterminato”: Luca Pancalli, allora commissario straordinario della FIGC, dopo un tavolo di emergenza con il Governo dà lo stop, effettivo, a tutte le competizioni calcistiche italiane, fino alle giovanili. Non si gioca. “Ci vogliono misure drastiche: altrimenti non ripartiamo”.
“Bisogna smettere di fare calcio a Catania”, commenta, invece, Antonino Pulvirenti.
Interviene anche il Giudice Sportivo che, rispondendo all’appello di Percalli, squalifica il vecchio “Cibali” fino alla fine della stagione 2006/07, costringendo il Catania a disputare le gare interne, restanti, in campo neutro e a porte chiuse (al “Manuzzi” di Cesena, al “Neri” di Rimini, al “Via del Mare” di Lecce e al “Dall’Ara” di Bologna), eccezion fatta per le ultime due, a porte aperte, pur in campo neutro. Il calcio in terra etnea, comunque, andrà avanti: per fortuna dei catanesi, dei siciliani tutti e degli italiani che in quell’inferno lì non si sono mai rispecchiati e mai si rispecchieranno.