Carlos Bianchi infila mentalmente la mano nel taschino della giacca, estrae un cellulare immaginario e, sempre nella propria testa, inizia a comporre una serie di cifre. Lentamente, una dopo l'altra. Qualche argentino magari ci crede davvero, perché laggiù la narrativa calcistica è spesso florida quando si tratta di far viaggiare la fantasia. Sta di fatto che, nell'immaginario della gente del Boca Juniors e di quella che il Boca Juniors proprio non lo regge, all'altro capo del telefono qualcuno risponde veramente. È una voce divina che riecheggia nella testa di Bianchi. E, come per magia, trova la soluzione a tutti i suoi problemi.
Sette campionati argentini, quattro Libertadores, tre Intercontinentali. Nessuno, in Argentina, ha alzato più trofei di lui. I maligni sostengono che li abbia vinti proprio così, con quell'aggeggio tra le dita. È il celeberrimo e mitologico "celular de Dios". Il cellulare di Dio. Emblema della fortuna sfacciata, quella che quando ne hai bisogno è sempre lì a sostenerti. Una telefonata e via: il Boca se la cava quasi sempre. Spesso ai calci di rigore, e durante il regno di Bianchi accade un po' più spesso del normale. Nel 2016, dopo una soffertissima qualificazione in Libertadores, il suo pupillo Guillermo Barros Schelotto, ai tempi allenatore xeneize, ha scherzato: “Il celular de Dios ce l'ha sempre lui, ma credo glielo ruberò”.
Bianchi lo hanno sempre chiamato "Virrey", vicerè, in onore del militare Santiago de Liniers. Lo ha soprannominato così per la prima volta Victor Hugo Morales, il cantore delle gesta messicane di Maradona, ai tempi del Velez Sarsfield. Dove Carlos è un'icona da allenatore, ma pure da calciatore. Quando gioca ha un carattere piuttosto fumantino, una volta finisce un carcere per una notte dopo una rissa con un tifoso dell'Huracan, ma segna sempre. Per dire: ancora oggi è lui il miglior marcatore della storia del club di Liniers, con 206 reti. Attaccante duro e puro, di quelli che non vanno in cerca di fronzoli, vive pure una lunga parentesi in Francia tra PSG (71 centri in 80 partite ufficiali, un'enormità), Strasburgo e Reims. Per cinque volte è il capocannoniere della Division 1, l'ex Ligue 1. Fino al 2018 era l'argentino con più reti in un singolo campionato nazionale: 385. Ma nel 1978 non viene convocato da Menotti per i Mondiali di Baires, che l'Argentina puntualmente conquisterà.
“Nella mia carriera da calciatore ho solo un rimpianto: non aver giocato un Mondiale – ha confessato anni dopo – Me lo meritavo. Sia nel '74 che nel '78 ero l'attaccante del momento, però i commissari tecnici non la pensavano allo stesso modo. Ho segnato 206 volte al Velez, 179 in Francia. Se ne avessi fatti due o tre in più, forse sarei stato convocato...”.
Imagen: @DataRef_Chiaro, di Bianchi ci si ricorda soprattutto in altre vesti: quelle di allenatore. Al Velez, innanzitutto. Dove torna alla fine del 1992 e in tre anni e mezzo inserisce in bacheca praticamente tutto: tre campionati, una Libertadores, un'Intercontinentale. Sotto i colpi degli argentini cadono quasi tutti. Anche il grande Milan campione d'Europa in carica, che a Tokyo si arrende al rigore di Trotta e al raddoppio del “Turco” Asad. Bianchi diventa ben presto l'allenatore sensazione del Sudamerica. Lo vogliono tutti, soprattutto dall'Europa. Lo chiama la Roma, che si è appena separata con Carletto Mazzone. Serve una svolta internazionale per alzare l'asticella delle ambizioni del club. E Carlos accetta.
Il 29 giugno del 1996 rappresenta uno dei tratti più emozionanti del rapporto con il Velez. In un Amalfitani in lacrime, Bianchi dirige la squadra per l'ultima volta contro il Colon, quando alla fine di quel Clausura mancano quattro giornate. Dalle tribune risuona costantemente un coro: "Olé olé olé olé olá, a Carlos Bianchi nunca lo voy a olvidar". In soldoni: non ti dimenticheremo mai. Chilavert e compagni vincono 2-0 e restano primi. Dopo la partita, le attenzioni sono tutte per Bianchi. Che piange a lungo e promette: “Se all'ultima giornata sarete ancora in corsa per vincere il campionato, io sarò qui”. Ed è quel che accade: il Velez pareggia senza reti contro l'Independiente sotto gli occhi di Bianchi, “Chila” para un rigore al campione del mondo '86 Burruchaga e per il Pelado, nonostante in panchina sieda l'amico Osvaldo Piazza, è il terzo trionfo nazionale.
Normale che le attese, nella Roma gialla e rossa, siano alte. Enormi, addirittura. Oscar Tabarez, appena nominato successore di Capello al Milan, spara: “Bianchi vi stupirà: ha grinta e forza. Nessuno sa vincere come lui”. E l'argentino, accolto come una star, promette: “Sono arrivato in Italia per continuare a vincere”. Assieme a lui arriva Roberto Trotta, il difensore che un paio d'anni prima abbatteva il Milan in Giappone. Ma i primi problemi nascono praticamente subito. Sono i giorni dell'addio del Principe Giannini, mal digerito dai tifosi che arrivano a puntare il dito contro il tecnico: “Sei un ospite, impara a rispettare il padrone di casa”.
Giannini effettivamente se ne va, allo Sturm Graz, e non è che i primi risultati contribuiscano granché a rasserenare l'ambiente: la cocente eliminazione dalla Coppa Italia per mano del Cesena di Hubner, che alla fine di quell'annata piomberà dalla B alla C, è la prima avvisaglia di quel che potrà accadere. Poi, pian piano, le cose si sistemano. In un mese, da metà settembre a metà ottobre, la Roma vince quattro volte in sei uscite tra campionato e Coppa UEFA. Stride solo il pesantissimo ko contro la Sampdoria, che si impone per 4-1 all'Olimpico. Balbo e compagni, per 90 minuti, sono addirittura primi in classifica. Ma il castello di carte, nonostante un esaltante 3-0 al Milan, crolla ben presto. La Roma viene eliminata dall'Europa per mano del Karlsruhe e in campionato inizia a perdere costantemente terreno nei confronti delle prime posizioni.
Getty ImagesNel bel mezzo del caos, amplificato dal rapporto spesso scontroso coi giornalisti locali e dall'addio a gennaio del fido Trotta, scoppia il caso Totti. Che all'epoca è un ventenne di belle (bellissime) speranze, niente più. Bianchi proprio non lo vede. Lo considera pigro, indolente. Lo vede attaccante puro, ma il ragazzino non si fa problemi a rispondergli per le rime: “La mia posizione in campo è dietro alle punte”. Al posto di Totti sogna Jari Litmanen. Tanto che a gennaio l'addio è praticamente cosa fatta. Lo seduce la Sampdoria, che arriva a un passo dalla chiusura. Ma lo vuole anche il Cagliari di Mazzone. Alla fine non se ne farà nulla, ma il rapporto giocatore-allenatore continuerà a non esistere. Nel 2018, alla presentazione della sua autobiografia, Totti inviterà al Colosseo tutti i suoi ex allenatori tranne due: Bianchi e Spalletti, l'altro “nemico”.
“Si sa che è stato soprattutto il presidente a volerlo – ha raccontato Francesco nel proprio libro, riferendosi proprio a Bianchi – e che i buoni risultati iniziali – la squadra non ha lavorato molto in estate, quindi è brillante – l'hanno esaltato, convincendolo di aver fatto una scelta geniale. Perinetti (il direttore sportivo, ndr) è meno entusiasta, e finge di non sentire gli ordini presidenziali di prolungare immediatamente il contratto all'argentino. Non piacciono a lui come non piacciono a noi giocatori certe abitudini portate da Bianchi a Trigoria, per esempio le partitelle romani contro resto del mondo nelle quali si percepisce la sua antipatia nei nostri confronti. Tifa spudoratamente per gli altri e si diverte a vederci sconfitti, è perfino imbarazzante da raccontare perché non mi crede nessuno. Non ci metto molto a capire che ha puntato me in particolare perché mi considera uno scansafatiche, e non c'è verso di fargli cambiare idea, nemmeno lavorando il triplo, che poi è la razione abituale che mi riserva”.
No, così non può funzionare. I risultati arrivano a singhiozzo, la stagione si avvia verso il fallimento. I tifosi soprannominano Bianchi “Mago Galbusera”, come il personaggio della pubblicità, per via di quel taglio di capelli così particolare. E puntualmente, dopo una sconfitta contro il Cagliari dell'ex Mazzone, a inizio aprile l'esonero si abbatte sulla testa dell'argentino. Che non ne fa un dramma, almeno esteriormente: “Peccato che non mi sia stato dato il tempo di terminare il mio programma. Ma continuerò a tifare Roma, spero vada in UEFA”. Il presidente Sensi, se possibile, è più triste di lui: “Lo stimo più del giorno in cui l'ho incontrato per la prima volta, ma devo tamponare l'emergenza, deve comprendermi”.
La Roma passa nelle mani della coppia Sella-Liedholm, flirta con la retrocessione, si salva per quattro punti. Bianchi osserva tutto dall'esterno. Molti anni più tardi, intervistato dal 'Corriere dello Sport' mentre è in viaggio nella Capitale, tornerà a parlare del fallimento italiano:
“Conservo un buon ricordo, non serbo rancore. La mia carriera non si è fermata a Roma, ho continuato a vincere. Ma mi piace ricordare che quando sono stato esonerato, la Roma era settima in classifica. Dopo di me ha finito il campionato sfiorando la retrocessione in serie B. Noi quando siamo arrivati in Italia credevamo molto nel lavoro, ma non abbiamo avuto la possibilità di portare avanti il nostro progetto. Totti? Io conosco la verità su questa storia. Sono state dette tante cose non vere, mi hanno messo in bocca parole che non ho mai detto. Ma non ha senso parlare oggi di quello che è successo quasi quindici anni fa. Posso solo dire che la verità la conoscevamo io e il presidente Sensi, che oggi non c’è più. Tornare su questo argomento non conta”.
Abbandonata una barca sempre più zeppa d'acqua, Bianchi non può immaginare che il bello deve ancora venire. La chiamata del Boca Juniors arriva un anno e mezzo dopo, nel 1998, mentre sta commentando i Mondiali francesi a Parigi, dove ha ancora la residenza. Lo vorrebbe anche la Nazionale, ma lui rifiuta: non sarà l'unica volta. Al Boca inizia un'epopea irripetibile. Con Juan Roman Riquelme, Martin Palermo, Guillermo Barros Schelotto, ma anche il Pato Abbondanzieri, Hugo Ibarra, Clemente Rodriguez, Sebastian Battaglia e un giovane Walter Samuel, in tre anni e mezzo gli xeneizes conquistano tre volte il campionato, una la Coppa Intercontinentale e due la Copa Libertadores. Entrambe ai calci di rigore: nel 2000 contro il Palmeiras, 12 mesi dopo contro il Cruz Azul. La leggenda del "celular de Dios", in sostanza, nasce lì.
Ma c'è anche dell'altro. C'è, ad esempio, la volontà ferrea di non abbassare la guardia. Mai. Dopo ogni vittoria, ad esempio, Bianchi ha l'abitudine di inculcare nella testa dei propri calciatori il termine “provagar”, che nel gergo del Rio de la Plata significa “andare avanti”, “non fermarsi”. Lo faceva già ai tempi del Velez, quando faceva stampare centinaia di fotocopie appiccicandole alle pareti della sede, e porterà avanti l'usanza anche al Boca Juniors.
“Mi ricordo sempre – ha ricordato Julio Santella, preparatore fisico di quella squadra – che una volta, dopo aver vinto il campionato, tornammo nello spogliatoio e lui si mise a scrivere quella parola, "provagar", alla lavagna. Non ci stavo capendo nulla”.
Bianchi tornerà al Boca altre due volte, tra il 2003 e il 2004 e tra il 2012 e il 2013. Le minestre riscaldate solitamente non funzionano, ma con lui ci scappa sempre l'eccezione: arrivano un'altra Libertadores (più altre due finali perse) e un'altra Intercontinentale, quella del 2003 contro il Milan di Ancelotti. Il Pelado si issa al primo posto, e per distacco, nella classifica degli allenatori boquensi più amati e vincenti di sempre. Nel 2000 e nel 2003 viene eletto miglior allenatore del mondo dall'International Federation of Football History and Statistics (IFFHS). Nel 2016 verrà inaugurata alla Bombonera una statua a grandezza reale con le sue sembianze.
@BocaJrsOficialCarlos attira anche le attenzioni del presidente dell'AFA Julio Grondona, che più volte gli offre la panchina dell'Argentina. Nel 2004 pare fatta: “Voglia il cielo che il prossimo ct possa essere lui”, dice Grondona ai giornalisti dopo una riunione nella dimora del tecnico. Ma non se ne fa nulla per volontà del tecnico. Che aveva già rifiutato la Nazionale in passato, in quel famoso 1998, e lo rifarà una terza volta.
“Non mi pento, è stata una mia decisione – ha raccontato a 'France Football' – Il figlio del presidente dell'AFA ha dichiarato recentemente: 'Bianchi è sempre stato il candidato numero uno di mio padre'. Ma ho sempre detto di no perché avevo dei valori morali, valori importanti per la mia vita, un modo di essere che non coincideva con quello della Selección. Avevo già detto di no nel marzo del 1998, poco prima dei Mondiali in Francia, e poi ho rifiutato anche nel 2004 e nel 2006”.
Nel 2005, invece, Bianchi ci riprova con l'Europa. Dice di sì all'Atletico Madrid, con cui firma un biennale. Vuole cancellare il cattivo ricordo lasciato a Roma, è determinato finalmente a imporsi anche lontano dall'Argentina. Il problema è che quello non è ancora l'Atleti di Simeone: è reduce da un undicesimo posto in Liga e pochi anni prima era crollato addirittura in Segunda. Ma Bianchi ha entusiasmo: promette di lottare per l'Europa, confessa apertamente di volere Riquelme e paragona “il fervore dei tifosi dell'Atletico a quello dei tifosi del Boca”.
Ancora una volta, a una partenza entusiastica non corrisponde un finale felice. L'Atletico Madrid arranca e ben presto Bianchi perde la pazienza. Con tutti. Ai giornalisti che questionano i tanti goal subiti dalla squadra nel gioco aereo risponde piccato: “Vorrà dire che compreremo Michael Jordan”. E poi: “Quello che chiedo ai giocatori è difficilissimo, ma in Argentina sono sempre stato capito. Non voglio pensare che i calciatori argentini siano più intelligenti di quelli spagnoli”. Non esattamente il modo migliore per rimanere in sintonia con lo spogliatoio. Nella stessa conferenza, Bianchi annuncia: “Qui ho un contratto e lo porterò a termine”. Ma una settimana più tardi, dopo aver perso in Coppa del Re contro il Saragozza con tanto di pañolada finale del Calderon, l'argentino incompreso viene esonerato.
“¿Por que en Vélez y Boca sí y en el exterior, no?”. Perché al Boca e al Velez Bianchi ha vinto e all'estero no? La domanda riecheggia sulle pagine di 'Olé' poche ore dopo la cacciata dalla Spagna. E non trova risposta. Secondo Carlos Ischia, lo storico secondo di Bianchi (anche a Roma), “in Europa o si punta sul fisico o sul pallone, un mix non lo sopportano. E a volte un modo diverso di lavorare mette i giocatori contro l'allenatore. Specialmente se i risultati non sono buoni”. Alla fine, però, tutto si riassume nella linea di confine tracciata da Daniele De Rossi: “Bianchi al Boca è un dio e a Roma un mezzo idiota”. Semplice.




