Se foste capitati a Bologna poco più di cento anni fa, vagando per la città avreste potuto incontrare un gruppo di ragazzi ben vestiti e ancor meglio educati scontrarsi per la conquista di un oggetto in cuoio vagamente sferico, alzando nel tumido cielo bolognese la polvere dell’antica piazza d’armi dei Prati Caprara.
Tra quei “quattro matti dietro a un pallone”, come furono definiti dagli occasionali spettatori, avreste potuto scorgere anche un illustre studente del Collegio di Spagna di nome Antonio Bernabéu, fratello di un certo Santiago. Un boemo appassionato di calcio si interessò di loro e chiese se avessero voglia di fare sul serio. Così, centododici anni fa, quell’intraprendente mitteleuropeo si riunì con un gruppo di amici nelle sale della Birreria Ronzani, sede del Circolo Turistico Bolognese, per deliberare la nascita del Bologna Football Club. Il nostro, al secolo Emilio Arnstein, decise anche che il rosso e il blu della divisa del collegio svizzero di Rorschach indossata ai Prati di Caprara da Arrigo Gradi, il più valido di quei “quattro matti” e primo capitano del sodalizio petroniano, sarebbero divenuti i colori sociali.
Nasceva così, il 3 ottobre 1909, quella che non è soltanto la storia di una squadra, ma di un’intera città. «Io credo che il Bologna sia per Bologna, per la sua popolazione, per la sua socialità se non il bene più importante qualcosa che gli si avvicina molto» sostiene Matteo Marani, insigne giornalista senza bisogno di presentazioni e illustre tifoso rossoblù.
La penetrazione della squadra nell’impianto genetico cittadino viene da lontano, ossia da quando il Bologna era la “squadra che tremare il mondo fa”: «È chiaro che il fatto di poter vantare il possesso di una delle squadre più importanti in patria e in Europa proprio negli anni ’30, ovvero quando in Italia il calcio “esplose”, resta nel tessuto urbano, diventando come una seconda pelle» spiega Marani.
Immergendoci in quegli anni d’oro, vale la pena approfondire la storia del primo Scudetto felsineo, detto “delle pistole”. La stagione di cui trattiamo è quella 1924/25, quando il campionato di Serie A non era ancora organizzato in un girone unico; pertanto, si resero necessarie le finali interregionali tra Genoa e Bologna, poi ribattezzata la “partita delle otto ore”, per accedere alla finalissima nazionale contro l’Alba Roma in vista dell’assegnazione del massimo alloro tricolore.
Dopo la vittoria del Genoa allo “Stadio Sterlino” all’andata e quella dei “veltri” in Liguria al ritorno, il regolamento impose la disputa di uno spareggio da giocarsi in campo neutro, precisamente nella mediana Milano. Al seguito di due treni speciali oltremodo carichi grazie alle tariffe ferroviarie dimezzate c’era anche Leandro Arpinati, gerarca fascista con pieni poteri sul capoluogo emiliano e fervente sostenitore dei petroniani, che sarebbe divenuto a suo modo protagonista della sfida. Sotto di 2 a 0, i bolognesi nella ripresa accorciarono le distanze con l’ala Giuseppe Muzzioli dopo un quarto d’ora di discussioni e di polemiche. Il motivo fu il seguente: inizialmente sul tiro di Muzzioli l’arbitro Mauro aveva segnalato il calcio d’angolo in favore del Bologna, ma un’invasione di campo da parte degli spettatori fece mutare consiglio al direttore di gara, il quale assegnava così la rete ai felsinei.
Gli astanti scesi sul terreno di gioco erano, infatti, tifosi e fascisti bolognesi che, mentre un connivente Arpinati rimaneva in tribuna, avevano intimidito l’arbitro con insulti e minacce, sostenendo di aver visto il pallone entrare; Mauro aveva dunque preso la scelta più indicata a salvaguardare la propria persona, promettendo nel contempo a De Vecchi, capitano del Genoa, che avrebbe applicato l’articolo 50 del regolamento federale e riconosciuto la vittoria della sua squadra.
Ristabilito l’ordine pubblico, la gara veniva pareggiata a dieci minuti dal termine da una rete di Pozzi. Tuttavia, i genoani non si presentarono per i tempi supplementari, sicuri che la vittoria sarebbe stata concessa a tavolino. Così non fu, in quanto Mauro considerò nullo il match, ordinandone la ripetizione. Si rese dunque necessaria una quarta finale, questa volta a Torino, che finì con un altro pareggio, anche se a fare notizia furono ancora i supporter bolognesi. Dopo la partita, alla stazione Porta Nuova tra i due treni speciali dedicati ai tifosi di opposto schieramento, posti a quattro binari di distanza l’uno dall’altro, scoppiò un acceso confronto.
Tra insulti e sassaiole ad un certo punto dal treno emiliano furono sparati alcuni colpi di pistola, appunto, fortunatamente senza feriti: nonostante il grave episodio, il Bologna FC fu costretto a pagare soltanto una lieve multa. Il campionato, però, doveva ancora decidersi. L’ultimo atto della “partita delle otto ore” andò in scena al campo “Forza e coraggio” di Vigentino, comune alle porte di Milano, alle 7 del mattino e a porte chiuse per evitare nuovi scontri: il quinto Genoa-Bologna (9 agosto 1925) terminò 2 a 0 per gli emiliani, che nella doppia finalissima contro la vincitrice della Lega Sud, l’Alba di Roma, s’imposero definitivamente. In questo modo, con la complicità di Arpinati i “veltri” si aggiudicarono lo “Scudetto delle pistole” il 23 agosto 1925, il primo della loro storia.
Dopo questo primo tricolore, i petroniani nell’arco di quindici anni porteranno all’ombra di San Luca altri cinque titoli nazionali, due Coppe Europa (la quale, chiamata anche “Coppa dell’Europa Centrale” o “Mitropa Cup”, allineava le due prime classificate dei campionati ungherese, austriaco, cecoslovacco e italiano) e una Coppa dell’Esposizione Universale di Parigi.
«Esattamente come un romano sa che Roma ha avuto un’importanza imperiale pur senza averla vissuta», riprende a proposito Marani «un tifoso bolognese, memore di questa antica grandezza della sua squadra ha nella propria antropologia, nella propria cultura una nobiltà sportiva di prim’ordine».
Dunque, si tratta di una partecipazione continua e profonda ai destini della squadra, tanto che per l’attuale presidente della Fondazione Museo del Calcio «Bologna è un paradosso, perché il tifoso felsineo che vive lontano dalle Due Torri è più incallito di chi è rimasto a vivere in città». È, insomma, portare la maglia del Bologna sette giorni su sette, come cantava Luca Carboni, ed è soprattutto riscuotere «grande simpatia grazie al proprio blasone e distinguersi per civiltà, educazione e garbo».
Tuttavia, l’attualità è ben diversa, come specifica il giornalista quando constata che la compagine emiliana è da qualche tempo «condannata a rimanere ferma tra l’undicesimo e il quindicesimo posto, ovvero in quella che io chiamo “la mattonella Bologna”, una sentenza di impasse senza uscita».
Insomma, non è sempre facile essere “veltro” e scalpitare di gioia o di irritazione sui seggiolini del Dall’Ara. «Io appartengo a quella generazione che ha vissuto il Bologna in Serie B e C» continua Marani «e mi sono abituato fin da subito a certi contesti. Ora, però, immaginate cosa abbia significato la retrocessione in Serie C del 1983 per quella generazione che ha visto il Bologna di Bulgarelli vincere lo Scudetto contro l’Inter campione d’Europa nel 1964: un dramma a tutti gli effetti».
Il giornalista ci scherza su, raccontandoci un aneddoto legato alla seconda retrocessione in Serie C dei rossoblù: «Ricordo una partita tremenda contro la Pro Sesto, era il 1993 e andai in trasferta per seguire la squadra. Presi un treno per Sesto San Giovanni, arrivai in questo stadio davvero “minimo” nella periferia di Milano e assistetti alla sconfitta del Bologna per 2 a 0. Un’onta incredibile».
Alla luce di questo recente passato, ben meno glorioso di quello delle origini, Marani sostiene che «bisogna sempre essere cauti nei giudizi, perché se si fa un bilancio dal 1982 in poi ci si rende conto che criticare Joey Saputo, cui va ascritto il merito di aver salvato il Bologna dopo l’era Guaraldi, spesso è un atto eccessivo».
Bologna si profila certamente come una «piazza dove è un piacere e un beneficio lavorare e giocare», ma in cui, proprio «come succede per ambienti come quelli di Torino e Fiorentina» è altrettanto «difficile operare, dal momento che il paragone va sempre ai tempi dei grandi successi, a quando “si è fatto di più e di meglio”».
È proprio da un passato così imponente che scaturisce tutto l’amore di Marani per il Bologna, manifestatosi anche nel suo lavoro. Tanto la pubblicazione di un libro fondamentale sulla figura di Árpád Weisz, allenatore ebreo dei “veltri” tra il 1935 e il 1938 scomparso ad Auschwitz («l’idea nacque sfogliando un libro in cui trovai una sua fotografia»), quanto il documentario “Bologna Paradiso”, «più che un tributo da tifoso un omaggio alla storia del calcio», dimostrano infatti come la passione per la compagine felsinea abbia investito proficuamente la vita professionale del giornalista.
Salutiamo Matteo Marani domandandogli quale viso si immagini quando pensa al Bologna. «Forse quello di Bulgarelli» risponde incerto «con cui passai splendidi giorni in occasione dei Mondiali del 1998, instaurando un rapporto duraturo. Ecco, in realtà a ragionarci bene - e qui si fa risoluto - penso a Romano Fogli, al quale ho voluto un bene immenso e che ci ha lasciati da pochissimo».
Fogli, uno degli eroi di quel Bologna che giocava come si fa solo in paradiso, si è infatti ricongiunto con l’immensità del cielo il 21 settembre scorso. Il suo era un talento naturale ed irresistibile, quello di un mediano avanguardistico capace di scorribandare da un punto all’altro del rettangolo verde in maniera tanto pungente da guadagnarsi l’appellativo di “Zanzara”. Il numero sei dell’ultimo Bologna campione ha segnato pochissime volte in carriera, ma due reti sono state essenziali per collocarlo nel novero degli imperituri – o, meglio, sarebbe corretto dire una rete e mezzo. Sì, perché quella messa a referto in occasione dello spareggio Scudetto del 1964 fu in realtà un destro su punizione figurato nel tabellino come autorete di Facchetti, ma, nonostante un comprensibile rammarico per la mancata assegnazione, si può dire che non si configura come la più importante.
Nel 1954, infatti, quando Fogli era un rampante centrocampista impegnato nel campionato di Promozione toscano nelle fila del Santa Maria a Monte, squadra della sua città, un altro goal fu impareggiabilmente decisivo. La Nazionale juniores allora allenata da Giuseppe Meazza si stava allenando a Firenze, dove avrebbe dovuto giocare anche un’amichevole, quando agli ex giocatori Clocchiatti e Michelini venne in mente un’idea piuttosto estrosa: portare il ragazzino che li aveva folgorati all’attenzione del leggendario “Peppìn”. «Faresti giocare Romano un quarto d’ora?» si sentì chiedere Meazza, il quale spiegò loro che lo avrebbe fatto volentieri, qualora la Federazione, nella persona di Artemio Franchi, avesse permesso ad un giovane proveniente dalla Promozione di scendere in campo insieme ai prospetti delle squadre di Serie A. I due non si lasciarono pregare e corsero all’ufficio di Franchi, che concesse l’agognato privilegio.
Fogli si accomodò dunque sulle tribune dello “Stadio Comunale” avvolto dall’inospitalità dell’inverno fiorentino, rigido al punto che Romano dovette chiedere in prestito ad un giocatore del Lanerossi Vicenza un paio di pantaloni, certamente più caldi rispetto ai calzoncini del Santa Maria a Monte che indossava in quel momento. Oramai pronto a giocarsi le sue chanches solo nei minuti conclusivi della partita, all’intervallo fu sorprendentemente invitato da Meazza a scaldarsi in vista di un ingresso immediato.
Con la freddezza che lo avrebbe caratterizzato nel corso di tutta la sua carriera, Romano Fogli sfoggiò una prestazione sontuosa, ingemmata da un pregevole tiro al volo che si accomodò in fondo al sacco. Alla fine di quella stagione la “Zanzara” si sarebbe unita al Torino, per poi nel corso di gloriosi anni conquistare lo Scudetto “Paradiso” insieme ad una Mitropa Cup in Emilia e una Coppa dei Campioni, coronata poi dall’alloro intercontinentale, nel biennio al Milan. «Indimenticabile» sorride Marani. «Sì» chiosa dopo una breve riflessione «se penso al Bologna immagino senza dubbio il viso di Romano Fogli», cui anche noi rivolgiamo un grande pensiero e un po’ degli auguri per questo centododicesimo compleanno rossoblù.


