
Quando Arjen Robben ha deciso di mettere un punto alla sua carriera, salvo poi tornare sui suoi passi e firmare con il ‘suo’ Groningen prima di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo il 15 luglio 2021, il Bayern Monaco lo ha salutato con il nomignolo che in Baviera è più caro: non quello di ‘Alien’, piuttosto quello di ‘Mr. Wembley’. Il riferimento, neanche a dirlo, è alla finale di Champions League del 2013, quando il numero 10 segnò a pochi minuti dal termine il decisivo 2-1. Per battere il Borussia Dortmund di Jürgen Klopp che nei due anni precedenti aveva soffiato la Bundesliga a Manuel Neuer e compagni. Per riportare a Monaco una coppa che mancava da 12 anni e che era stata appena sfiorata nel 2010 e soprattutto nel 2012, nella ‘Finale Dahoam’, la finale in casa, all’Allianz Arena, persa contro il Chelsea.
Dentro quel sinistro sbucciato, su intuizione del suo partner in crime Franck Ribéry, che si infilò lentamente alle spalle di Roman Weidenfeller, c’era tutto ciò che Robben aveva passato nei precedenti mesi. In cui era stato continuamente apostrofato come ‘quello forte, ma non decisivo’. Oltreoceano, nello sport americano, li chiamano clutch players. Quei giocatori che nei momenti chiave ci sono sempre, che rispondono sempre ‘presente’ quando la palla scotta da una loro giocata può dipendere il destino della squadra, l’esito di una finale. L’olandese, tra questi, non ci rientrava mai. Perché la sua storia recente a livello di finali e di momenti decisivi, per l’appunto, raccontava soltanto di grandi fallimenti e occasioni mancate. Tutte racchiuse, dimenticate in quell’urlo, in quella corsa a braccia aperte dopo aver segnato il goal decisivo per arrivare a prende per le grandi orecchie la coppa più ambita d’Europa.
Già il 2010 per Robben era stato un anno difficile. Era arrivato fino alla finale di Champions League con Louis van Gaal in panchina, salvo perderla contro l’Inter per 2-0. Era stata una finale che il Bayern aveva giocato senza Ribéry, squalificato in quell’occasione. Un mese e mezzo dopo, un trauma ancora più grande: la sconfitta in finale al Mondiale in Sudafrica contro la Spagna. Una squadra superiore, nei singoli. Eppure, in quella notte di Johannesburg, sotto il rumore delle Vuvuzela, Robben aveva avuto la più grande occasione di tutti i novanta minuti. Minuto 62, lanciato in profondità, uno-contro-uno con Iker Casillas. La palla sul mancino, solo davanti al portiere, indisturbato. Palla fuori. Piede di Casillas, riflesso quasi incondizionato, per deviare un tiro che chiunque davanti alla televisione o allo stadio aveva già visto in porta. Iniesta, nella stessa situazione, la porta l’aveva vista. E Robben era finito al centro delle critiche per quello che poteva essere e non è stato.
GettySalto in avanti di un paio d’anni. Aprile 2012. Era il Bayern di Jupp Heynckes, appena tornato dopo quasi vent’anni sulla panchina del club più importante di Germania. La competizione con il Borussia Dortmund di Klopp era serratissima. Un testa a testa che sembrava potersi risolvere nel Klassiker di ritorno al Westfalenstadion. Alla trentesima giornata, con i gialloneri sul +3 e una situazione da vero ‘dentro o fuori’ per i bavaresi. A un quarto d’ora dalla fine il goal di tacco di Lewandowski aveva inguaiato il Bayern, che però all’85’ aveva avuto la grandissima occasione del pareggio. Dagli undici metri. Rigorista: Arjen Robben.
Non aveva mai sbagliato un rigore in Bundesliga fino a quel momento. Palla sul mancino, tiro a incrociare. Facile, prevedibile, poco angolato. Parato da Weidenfeller, che aveva indovinato il lato e aveva addirittura tenuto lì il pallone. Sconforto per Robben, acuito ulteriormente dal gesto di Neven Subotic, colonna della difesa del Dortmund dalla personalità. Che aveva deciso di far sentire tutta la pressione del caso a Robben, andando faccia a faccia e urlandogli qualcosa che di certo non sembrava una dimostrazione di stima o di affetto. Un gesto che il numero 10 del Bayern non si sarebbe dimenticato. “Neven è una delle persone più carine del pianeta, ma perse quella sua pacatezza per un secondo”, ha detto Klopp in seguito. Nel recupero, poi, lo stesso Robben si era divorato un altro goal da pochi passi, con la porta particolarmente vuota. Sopraffatto dalle emozioni.
“Si è detto molto su quel rigore. C’erano molte emozioni dentro di me, si vedeva che in quel periodo avevo tante cose per la testa”.
GettyLe stesse emozioni che lo hanno tradito un paio di mesi dopo, nella notte che a Monaco aspettavano da tempo. La finale di Champions League in casa, all’Allianz Arena, contro un Chelsea rimaneggiato. Tutti i pronostici pendevano dalla parte dei bavaresi, molti sentivano anche di averla già vinta, quella partita. Si raccontava di un clima festoso, più che di tensione, già da prima della partita. L’epilogo sarebbe stato totalmente diverso, perché alla fine sarebbe stato il Chelsea di Roberto Di Matteo ad alzare la coppa al cielo di Monaco. Con il Bayern a guardare, a rimpiangere le occasioni mancate e i rigori sbagliati, soprattutto quello di un simbolo del club come Bastian Schweinsteiger. Di quella serie di rigori, però, si ricordano anche i giocatori che decisero di non calciare dagli undici metri. Ad esempio Toni Kroos, che ha raccontato di non aver voluto prendersi la responsabilità perché non se la sentiva.
Dagli undici metri non si era presentato nemmeno Arjen Robben. Perché i fantasmi di due mesi prima, al Westfalenstadion, si erano già ripresentati al 97’, nei tempi supplementari. Quando un’ingenuità di Didier Drogba aveva regalato un rigore al Bayern Monaco. La chance delle chance per indirizzare la finale. Da ex, come Drogba e Lampard gli ricordavano prima che calciasse.
“Arjen, sei stato al Chelsea, non puoi segnare, non farlo! Comunque sappiamo dove calcerai”.
Altro rigore decisivo, altro errore. Di nuovo incrociando col mancino, di nuovo rasoterra, non abbastanza angolato. Drogba e Lampard lo sapevano. Cech come Weidenfeller, in presa in due tempi. Di nuovo Robben con l’espressione persa sul volto. Quasi come deluso da sé stesso. Per aggiungere un ulteriore carico alla nomea di giocatore forte, fortissimo, ma non in grado di condurre una squadra alla vittoria.
“È stato un rigore orribile. Volevo calciare di potenza e in alto, ma la palla non si è alzata a sufficiente. Non so descrivere come mi sia sentito, ma è stata una nottata terribile. Il fatto che Drogba e Platini mi abbiano consolato, ma non vale nulla. Volevo la coppa e non l’ho vinta”.
Getty Images / Alex LiveseyPer cambiare la sua reputazione, l’olandese aveva bisogno di una notte come quella di Wembley. Da protagonista assoluto in una finale. Finalmente in positivo. Propiziando il goal dell’1-0 di Mario Mandzukic, poi realizzando il 2-1 a ridosso del recupero, quando in campo molti sembravano già rassegnati al supplementare.
“Sembrava la trama di un film. Ho sbagliato un rigore contro il Chelsea e 12 mesi dopo ho segnato il goal decisivo. Credo sia un grande esempio di che carattere si debba avere per arrivare al successo. Se vivi una grande delusione, devi rimanere in piedi e combattere, resistere. Io ce l’ho fatta”.
Per diventare per sempre ‘Mr. Wembley’, per dimenticare tutti gli errori e consacrarsi finalmente come uno dei giocatori più forti della sua generazione, a livello mondiale. Senza più ‘se’ o ‘ma’.


