Quando nell’inverno del 2003 lo notò in Brasile, l’allora direttore sportivo della Roma Franco Baldini capì subito due cose: Amantino Mancini aveva le qualità per poter far bene anche in Italia, ma inserirlo fin da subito in una rosa piena di campioni come quella giallorossa rappresentava un potenziale rischio.
Il gioiello dell’Atletico Mineiro era reduce da una stagione da 15 goal in 25 partite in Brasile, cosa questa che gli consentì di lottare per la classifica del cannonieri del Brasileirao con gente del calibro di Romario e Luis Fabiano, ma non era propriamente un attaccante. Era, anzi, un giocatore che doveva probabilmente ancora trovare la sua vera posizione in campo. Secondo alcuni era un esterno offensivo capace di coprire tutta la fascia con estrema facilità, secondo altri invece aveva addirittura le potenzialità per diventare il futuro terzino destro della Nazionale brasiliana.
Quello che era certo è che aveva bisogno di farsi le ossa da qualche parte. E così quel ragazzo di 22 anni, che ad inizio carriera si era guadagnato il soprannome di ‘Mansinho’, ovvero il mansueto, venne dirottato al Venezia, dove ad attenderlo ci sarebbero stati sei mesi di apprendistato in Serie B.
Passare dai 30° di Belo Horizonte, ai più o meno zero dell’inverno della Laguna, non è facile per nessuno, ma ancor più complicato era il passaggio da un calcio fatto di tecnica, velocità e anche amore per lo spettacolo, ad uno terribilmente concreto, nel quale spesso è preferibile lanciare la palla in avanti per ripartire e soprattutto per evitare guai.
I primi mesi italiani di Mancini sono dunque complicati. Il suo stile di gioco mal si adatta a quello del suo allenatore Gianfranco Bellotto, e così quello che dopo mezza stagione vissuta al Venezia si presenta al cospetto di Fabio Capello è un ragazzo che in Serie B ha giocato poco, del quale non si sono ancora realmente capite le reali potenzialità, ma che almeno ha iniziato ad apprendere l’italiano.
“Presentarsi a Trigoria non fu facile. Venivo da un’esperienza a Venezia nella quale non avevo giocato praticamente mai. Ricordo che entrai nell’ufficio di Capello e lui mi chiese subito: ‘Perché non hai mai giocato lì?’. Io non sapevo cosa rispondergli”.
Di solito una riserva di Serie B farebbe fatica a trovare spazio in qualunque squadra di A, figuriamoci in una che punta al titolo. Quella nella quale si stava affacciando Mancini, era la Roma di Panucci, Chivu (che quell’estate arrivò con lui nella capitale), Samuel, Candela, Emerson, Tommasi, Cassano, Montella e Totti. In poche parole era un gruppo composto da campioni.
Eppure Fabio Capello, uno che di giocatori fuori dal comune nella sua lunga avventura nel mondo del calcio ne aveva visti in discreta quantità, proprio come successo mesi prima a Baldini, notò in quel ragazzo brasiliano un qualcosa di speciale.
Le prime sensazioni nel ritiro austriaco sono più che buone, così come le prime prestazioni nelle amichevoli. Mancini si vede messo a disposizione un minutaggio che forse nemmeno immaginava e si impegna per ripagare la fiducia concessa. In realtà, in una squadra ricca di qualità, il suo calcio può semplicemente esaltarsi e paradossalmente, le cose per lui si fanno più facili, proprio nel momento in cui si sarebbero dovute rivelare più difficili.
L’Amantino Mancini che si presenta ai blocchi di partenza del campionato di Serie A 2003-2004 è lontano parente del ‘Mansinho’ visto a Venezia. Si prende fin da subito una maglia da titolare a destra e non la lascia più. Nel 3-4-1-2 giallorosso si esalta e sulla fascia torna a scatenare i suoi cavalli così come non faceva da quando giocava nella sua Belo Horizonte.
Mancini non è l’unico a correre veloce, anche la Roma fila che è una bellezza. Nelle prime otto giornate ottiene cinque vittorie e tre pareggi che le consentono di restare nella scia della capolista Juventus, ma al nono turno c’è un esame fondamentale da superare: il Derby della Capitale.
Getty ImagesAnche la Lazio è forte, ma non arriva all’appuntamento nelle migliori condizioni possibili. Roberto Mancini recupera in extremis Stam, ma non può contare su Peruzzi, Cesar, Lopez, Fiore e Muzzi. Sono tutti costretti ai box ed il tecnico quindi opta per una formazione più ‘chiusa’ che prevede il solo Corradi in attacco.
Anche Capello deve rinunciare ad un uomo importante, ovvero Chivu, ma la difesa della Roma è stata fino a quel punto la più solida dell’intero torneo e Zebina, Samuel e Panucci formano comunque un terzetto che dà garanzie più che ampie.
Sono le 20,30 del 9 novembre 2003 quando il direttore di gara, Matteo Trefoloni, sancisce l’inizio di un Derby che si giocherà davanti agli oltre 70mila dell’Olimpico. Il canovaccio tattico è chiaro fin dai primi minuti: la Roma detta i ritmi, mentre la Lazio si difende con grandissimo ordine e quando può prova a ripartire.
Totti, Cassano e Montella, sembrano rimbalzare contro Favalli, Negro, Stam ed Oddo e, come spesso succede nelle stracittadine, la partita stenta a decollare. A vincere è soprattutto il nervosismo, mentre le vere azioni da rete si contano sulle dita di una mano.
La sensazione è quella che si sia di fronte ad una di quelle partite che solo una giocata personale può sbloccare ed infatti, all’80’ è proprio un’intuizione straordinaria a cambiare il volto delle cose. Calcio di punizione battuto da Antonio Cassano dalla destra, pochi metri fuori dall’area di rigore. Il pallone viaggia morbido verso il centro dove Mancini, liberatosi dalla marcatura di Corradi, si lascia passare la sfera tra le gambe, per poi colpirla con il tacco destro. È l’apoteosi. Sereni si allunga sulla sua destra, ma semplicemente non può arrivarci. La Roma è avanti grazie ad uno dei goal più belli della storia del Derby della Capitale.
“È stata una rete memorabile, la mia prima con la maglia della Roma. Riuscii a colpire il pallone con il tacco, un gesto tecnico incredibile. Quando vidi entrare la palla in rete mi misi a correre verso la Curva Sud. Ci fu un boato, non capii più niente”.
Amantino Mancini aveva scelto il modo più bello in assoluto per segnare il suo primo goal in Serie A e, ironia della sorte, l’aveva fatto contro colui che del colpo di tacco ne aveva fatto un’arte: Roberto Mancini.
Quasi un segno del destino, un qualcosa che era scritto nel loro nome. Sì, perché se Alessandro Faioli Amantino per tutti sarebbe poi diventato Mancini, lo doveva in qualche modo proprio a Roberto.
“Fu Cerezo a chiamarmi per la prima volta così. Lui aveva giocato con Roberto Mancini e mi disse che in qualche modo gli somigliavo”.
Da ‘Mansinho’ a ‘Mancini’, dal punto di vista della pronuncia il passo è breve, ma al di là del suono c’è un mondo di differenza. Soprattutto poi se si parla di calcio.
Quello stesso Roberto che nel 1999 aveva fatto alzare tutti in piedi aParmabattendo Buffon con un colpo tacco di rara bellezza, questa volta si ritrovava suo malgrado costretto a vedere la sua Lazio punita da un gesto tecnico altrettanto geniale.
Amantino Mancini, qualche minuto più tardi, servirà ad Emerson il pallone che sarebbe valso il 2-0 finale. Quel trionfo nel Derby sarebbe valso quei punti che avrebbero consentito di restare in scia alla Juventus, ma i giallorossi, dopo un grande girone d’andata e dopo aver anche provato l’ebbrezza della vetta, rallenteranno vistosamente in quello di ritorno, tanto che dovranno poi accontentarsi di un secondo posto a -11 dal Milan.
Mancini chiuderà la sua prima stagione in Serie A con 33 presenze (fu il giocatore più utilizzato insieme a Cassano ed Emerson da Capello) condite da ben otto goal.
La consacrazione era stata raggiunta così come l’immortalità. 21 anni prima del colpo di testa da tre punti di un altro Mancini, ovvero Gianluca, nessun tifoso giallorosso potrà infatti mai dimenticare quello che da allora è per tutti i romanisti semplicemente il ‘Tacco di Dio’.
