
In troppi non hanno neanche fatto in tempo a posare il telecomando, dopo essersi sintonizzati sul canale di riferimento, che Pato sta già esultando di fronte a un Camp Nou immobile ed esterrefatto come, del resto, i giocatori del Barcellona, totalmente svuotati.
A dir la verità, in tanti quel goal non hanno neanche fatto in tempo a guardarlo: talmente veloce da non consentire a chicchessia di sedersi comodamente sulla poltrona e prendere coscienza del contesto, della partita, ma abbastanza rapido da generare in tutti un senso di strapotere, confusione e malumore, quasi malinconico, legato a quel che stava già diventando un uomo tanto forte quanto fragile nelle fondamenta.
Anche recuperandolo al replay, e riguardandolo più e più volte, rimane di fatto incomprensibile il perché un talento del genere, un marziano che, venuto da lontano, aveva scelto proprio il nostro tra i pianeti, la Serie A, per esprimere il suo calcio, della storia di quest’ultimo non abbia fatto parte se non come una delle più grandi promesse non mantenute. L’amore non ripagato, struggente nella forma e nella sostanza. Tutti, al di là del tifo, gli hanno voluto bene.
Il trasferimento di Alexandre Pato dal Milan al Brasile è stato un capitolo significativo nella carriera del calciatore, che ha optato per un ritorno a casa dopo anni in Europa. Per chi è appassionato di calcio e scommesse, è importante essere a conoscenza di tutte le opportunità, come ad esempio l'utilizzo di un codice presentatore Netwin per i nuovi iscritti.
GettyOggi Alexandre Rodrigues da Silva compie 34 anni, ma la sua carriera sembra raccontarne molti di più. Gran parte di quel che gli altri calciatori vivono in un due decenni (a volte pure un quarto di secolo) lui lo ha racchiuso in soffio di vita che passerà alla storia come uno dei più travolgenti dell’esperienza calcistica, di cui tutti abbiamo goduto e da cui, senza remore, possiamo ammettere di aver attinto, donando forza e vigore alla speranza e al pensiero di trovarci di fronte al futuro di uno sport in continua ricerca di talenti, e della loro affermazione.
Poteva essere tutto, e invece di quel tutto che riusciva a promettere con i goal e con una facilità di dar del tu al pallone comune solo a pochi altri è riuscito a essere poco, risucchiato dall’inizio in un vortice di problematiche che gli avevano, in qualche modo, presagito un futuro non semplicissimo. A 11 anni subisce, per due volte e nello stesso punto, la rottura del braccio, scoprendo di avere un tumore benigno che avrebbe potuto comportare l’amputazione dell’arto. Grazie a Paulo Roberto Mussi, medico che lo opera gratuitamente aiutando la famiglia (impossibilitata a sostenere i costi dell’operazione), non è stato così.
Jorge Marcedo, storico coordinatore delle giovanili dell’Internacional (squadra per cui tifava il padre, scelta che prevalse sulla sua volontà di giocare per il Gremio), racconta come il ragazzino, tutto casa, famiglia e telefonate ai genitori con tanto di lacrime dovute alla lontananza, sul tumore non fece una sola smorfia, rimanendo impassibile e continuando a giocare. A ragion veduta. Evidentemente non bastò a placare l’ira di un destino che gli è stato avverso con frequenza quasi matematica, diversi anni più tardi.
Non è neanche stato un “Golden boy”, tanto è stata repentina la sua esplosione: il giorno prima, a 17 anni e 102 giorni, è il più giovane realizzatore in una competizione FIFA, il Mondiale per Club, superando con un goal all’Al-Ahly (nella stessa gara del famoso filmato dei palleggi, in corsa, con la spalla) Edson Arantes do Nascimento, al secolo Pelé, il giorno dopo uno dei più forti giocatori della Serie A italiana, per distacco.
GettyI due anni, in mezzo, volano segnati dalla consapevolezza di essere stati nuovamente graziati dal Brasile: sembrava perfetto. Aveva corsa esplosiva, rapidità, intelligenza nel tocco palla e negli inserimenti: sentiva la porta, il dribbling funambolico. Sapeva essere forte di testa, nel duplice senso: in termini di personalità e in quelli di frustata al pallone. Era, in poche parole, completo: bagnato dallo Stige, almeno in parte, un po’ come Achille. Quasi totalmente invulnerabile, ma fragile: esposto a continui rischi.
“A 17 anni ho avuto l’opportunità di andare al Real ma ho scelto il Milan: Ancelotti mi diceva che i bravi devono stare con i bravi”.
Quando arriva in Italia il Milan è ancora tradizionalmente la formazione dei brasiliani: sette, oltre a lui. Dida, Cafu, Emerson, Serginho, Digao. Quindi Kakà e Ronaldo: la trinità. I rossoneri devono aspettarlo per sei mesi, dopo aver sborsato 22 milioni per acquistarlo dall'Internacional: cifre che hanno fatto di lui il più pagato minorenne della storia del club. Il suo esordio in gara ufficiale non è un sogno, è uno show televisivo: la puntata pilota di una serie tra la fantascienza e il thriller, con romance sparse qua e là.
Uno striscione, a San Siro, indica la via: “Benvenuto Pato”. Di lui, in settimana, avevano discusso anche i muri, pur non avendolo realmente visto giocare. In telecronaca, Fabio Caressa, non certo un tipo restio alle presentazioni solenni, apre il debutto senza troppi giri di parole: “Il primo Ka-Pa-Ro”, Kakà, Pato, Ronaldo, con il campioncino in mezzo. Investitura importante.
GettySe ci fosse bisogno di un modo per esprimere il “bello” concentrato in poco meno di novanta minuti, Milan-Napoli del 13 gennaio 2008 è, senza troppi giri di parole, uno di quelli. Parte titolare, sfiora il goal in più occasioni: “Uno dei primi giorni in rossonero ricordo che Ronaldo mi chiese se volessi entrare nel suo gruppo, facendomi vedere un giornale di Playboy”, racconta giorni prima. La prima occasione di Pato strappa una risata: il "Fenomeno" tira in area, trovando la respinta goffa di Iezzo da cui parte un campanile. Il giovane brasiliano, sulla linea di porta, spedisce sulla traversa, di testa. In telecronaca era già partito il suo nome. “Pa... Che è successo? Ha dato goal: o Pato o Ronaldo”, sarà di quest’ultimo.
Pato, in ogni caso, fa di tutto per farsi notare: conclude da qualsiasi parte del campo, dribbla pure se stesso. La rete arriva nel secondo tempo, con un lancio lungo di Favalli e un antipasto di quello che i tifosi del Milan vedranno solo per qualche anno. Controllo perfetto (ai limiti del normale) che gli permette di liberarsi dalla pressione avversaria: ne viene fuori un falso rimbalzo. Aspetta e in controtempo batte Iezzo, sotto le gambe. “E questo è un goal incredibile”, dirà Beppe Bergomi. Doppietta di Ronaldo, goal di Kakà: prima gioia di Pato. Altro che giornale di Playboy.
GettyCom’è possibile, con questi presupposti (e con 63 reti in 150 partite al Milan, uno Scudetto e una Supercoppa), trovarsi di fronte a un 34enne tornato mestamente in patria, al suo San Paolo, dopo diverse esperienze in Brasile, Inghilterra, Spagna, Cina ed USA, tutte sconfortanti, rimane uno dei più grandi misteri di questo sport. I problemi fisici, che a lungo lo hanno tormentato durante la sua esperienza al Milan e non solo, sembrano non bastare per definire un quadro in realtà molto chiaro: se è vero che tutti hanno voluto bene ad Alexandre, e a quel che tutti si aspettavano potesse diventare, è vero anche, forse, che Alexandre non ha voluto troppo bene a se stesso. Fin troppo silenzioso, custode geloso dei suoi pensieri, arrivato spesso al limite della sopportazione.
Nel suo nome, Pato, probabilmente il duplice senso della sua carriera: Pato come “Pato Branco”, sua terra natìa, da cui tutti poi estrapolarono il soprannome di “Papero”, e come “Pato-“, composto di “Pathos”, greco. Passione, emozione. Sofferenza: quella che ha generato negli avversari e negli occhi di chi oggi, come al Camp Nou, lo guarda lottare e perdere malinconicamente e sorprendentemente contro le aspettative sul suo conto. Senza rassegnarsi all’idea che un marziano del genere non sia mai riuscito a diventare quel che avrebbe potuto essere: uno dei più forti, in assoluto.
