Adolfo Valencia alla Reggiana: El Tren deragliato

Adolfo Valencia ReggianaGetty

Immaginatevi un giocatore capace di andare in doppia cifra con il Bayern Monaco. Un Muller, un Lewandowski, un Gnabry, ma anche un Robben o un Ribery, andando leggermente indietro nel tempo. E immaginate che quel signor X abbia militato con l'Atletico Madrid, segnando leggermente meno, numero magico sei. Due delle squadre migliori d'Europa. Valore, alle stelle. Aggiungiamo un pizzico di polvere di stelle, con una media notevole con la maglia della sua Nazionale. A 28 anni, dopo una carriera del genere, sbarca in Serie B, alla Reggiana. Impossibile, oggi. Sveglia, la realtà. Ma allora, nel 1996, Adolfo Valencia finì veramente a Reggio Emilia.

Altri tempi, verrebbe da dire. Ed effettivamente non si può esimersi dall'evidenziare come a metà anni '90, anche una squadra neopromossa in Serie A come la Reggiana potesse permettersi un giocatore come Valencia, che oltre ad aver giocato nella natia Colombia, si era messo in mostra con il Bayern, big sì, ma non agli attuali livelli, e con l'Atletico, anni luce lontano da quello del Cholo Simeone.

Sia il Bayern che l'Atletico hanno potuto bearsi della velocità di Valencia, meglio noto come El Tren (non serve la traduzione, suvvia), ma entrambe sono passate oltre dopo appena una stagione. Definire la carriera del colombiano è facile, considerando che in Germania, a Madrid, e persino alla Reggiana, le sue esperienze sono durate quel periodo tra il poter dire, sì, di aver vissuto in una città, e quello di non averla però vissuta completamente.

PAOK, in Grecia, Metrostars a New York, Medellin, tutte-una-sola-stagione. L'eccezione che conferma la regola è il suo Independiente Santa Fe, da Bogotà con furore. Lì ha esordito, lì si è messo in mostra, lì è stato pescato dalla Reggiana, dopo che Valencia era tornato in patria in seguito all'one-shot con l'Atletico Madrid.

Sulla carta d'identità all'epoca dell'ingaggio da parte della Reggiana gli anni erano già 28, ma nel suo passaporto i timbri tedeschi e spagnoli avevano un gran significato, tanto da renderlo idolo prima che arrivasse, un racconto leggendario tramandato da riviste e prime immagini del calcio europeo in video.

Valencia è un gran bel giocatore, segna ovunque vada, si rende protagonista persino al Mondiale 1994, segnando reti decisive a Romania e Stati Uniti, ma non sempre per lui la vita è facile. La sua velocità serve a scappare dagli avversari, ma non dagli insulti razzisti subiti pesantemente nello stesso anno, all'Atletico Madrid. Dai suoi stessi tifosi. Tenetevi forte, sì, dai suoi stessi 'tifosi'.

Sei reti in un'annata, abbiamo accennato. Troppo poche per i Colchoneros, che dagli spalti inneggiano i più spregevoli insulti, tra l'altro ancor più forti quando a pronunciarli è lo stesso presidente Jesus Gil. Valencia allora prende armi e bagagli rapidamente per tornare in patria, senza accettare nuove destinazioni europee, deluso dal Vecchio Continente. Poi, però, nel 1996, la neopromossa Reggiana, tra un acquisto esotico e l'altro, lo convince a riprendere la strada mediterranea.

In panchina è partito il giovanissimo Ancelotti, che ha ottenuto la promozione iniziando una carriera che lo porterà a portare la corona in lungo e in largo. Si siede sul legno del Giglio (oggi Mapei Stadium) Mircea Lucescu, arrivano dal calciomercato una vecchia conoscenza della Serie A come lo svedese Grun, l'esperto tedesco Beiersdorfer, l'austriaco Michael Hatz. In più, chi conosce bene la massima serie, da Ioan Sabău a Gianluca Sordo, da Angelo Carbone a Sandro Tovalieri. Tante, troppe, scommesse. Valencia è il nome che deve alzare l'asticella del mercato, la sicurezza.

Sa giocare, sa correre, sa segnare. Ma Valencia ha bisogno di una dimensione perfetta attorno a lui. Al minimo errore della squadra anche El Tren deraglia. E in quella Reggiana è difficile rimanere nei binari. Gli stranieri presenti in squadra non sono certo dei campioni, tra quelli che hanno fatto il loro tempo e quelli che non riescono proprio a ricordarsi come si è decisivi. Simutenkov è l'emblema: sempre in bilico tra gloria e disperazione.

Valencia, in questo contesto, no, non può brillare. Non è l'unico giocatore a salvarsi, in una Reggiana che fatica enormemente in Serie A, perché anche lui, nelle 23 gare giocate, non è assolutamente infallibile. Sì, segna quattro goal, sì, corre da una parte all'altra, ma no, non è una sentenza. Sbaglia tanto, si dispera per se stesso e per i compagni di squadra.

Contro la Roma arriva il primo goal in Serie A, pesante, per l'1-1 in cui il centro giallorosso è segnato da Tommasi. Poi, le sue reti si perdono come polvere nel vento, in quell'autunno del 1996, in cui contro Udinese e Bologna non basta. Solamente in primavera avrà nuovamente la gioia del goal, ancora contro gli emiliani, nel derby regionale, ancora k.o.

Nel resto dell'annata Valencia, più che spento, è se stesso. Un giocatore che con grandi campioni al suo fianco può rendere entro un certo limite, in una Colombia leggendaria, in un Bayern, in un Atletico. Ma con una squadra neopromossa, con sconfitte continue e con un cambio necessario in panchina (Oddo al posto di Lucescu causa situazione pericolante in classifica), non riesce a rendere.

Con il cambio Oddo-Lucescu, Valencia non viene nemmeno più considerato un titolare, giocando un girone di ritorno decisamente diverso rispetto a quello dell'andata, in cui per lo meno aveva la possibilità di sbagliare e qualche volta di segnare. Né una né l'altra al ritorno, seconda scelta da dicembre in avanti.

Non solo le prestazioni e il nuovo sceriffo in città, portano l'ex Independiente, sponda colombiana, a crollare. Se il suo pubblico va in visibilio dopo il goal alla Roma, segnato da subentrato, dopo pochi minuti, lo stesso lo guarda in malo modo per la sua cocciutaggine.

E' il 20 ottobre quando le prime avvisaglie di un difficile lungo periodo alla Reggiana possano avverarsi. La squadra granata affronta il Piacenza e Valencia, contrariamente a pensieri, gesti e parole di allenatore e compagni, decide di tirare un rigore. Sbaglia solo chi si prende la responsabilità, vero. Ma altrettanto vero che, se l'insistenza porta all'errore, come avverrà per mano di Taibi, allora tutto gira all'opposto del calderone. Accusato numero uno.

L'arrivo di Oddo è l'inizio della fine, in un viaggio rapido e poco indolore. Giornata dopo giornata, Valencia perde sempre più fiducia, fallisce sempre più goal, manca il bersaglio, ma viene colpito da titoli negativi, da fischi, oooo-no e mani sul volto da parte dei tifosi della Reggiana. Piano piano, mentre la squadra scivola verso la Serie B, lui scivola nei sondaggi, in fondo ai cuori, tra panchina e tribuna.

In tribuna, ad applaudirlo nell'agosto del 1996, c'era un pubblico col sorriso sulle labbra. Era appena sbarcato in Serie A, il magico color granata della Reggiana, niente poteva intaccare la passione dei fans. Sapere di avere in squadra un giocatore passato per Bayern Monaco e Atletico Madrid aumentava il viaggio mentale, applaudendolo ancor più per aver superato lavori di fatica come il venditore di cocco e lo scaricatore di legna. Giocatore operaio con grandi maglie addosso, era il delirio.

4000 tifosi ad alzare i decibel, al Giglio, quando Antonella Elia presenta la squadra, quando nomina Valencia. Tutti ci credono, tutti lo aspettano. Ma più di tutti ci crede lui, altrimenti non avrebbe tirato quel rigore a tutti i costi, altrimenti non avrebbe chiesto al suo procuratore Jairo Arcinegas spiegazioni sulla fila di panchine dell'ultima parte di stagione.

Credeva nella Reggiana, Valencia. Ma una serie di meteore dall'alto, da ogni lato, lo hanno spinto via da Reggio, via dalla Serie A, via dall'Europa (con parentesi in Grecia, breve, più avanti). Di nuovo in patria, e poi giù di Asia e Nord-America. Si è trascinato distrattamente e ormai oltre i trenta, verso una conclusione di una carriera di sprazzi, di lampi, di titoli per avere giocato e segnato qui e là, ma per non aver mai superato l'asticella.

Di Reggiana non ha praticamente mai parlato, Valencia, messa da parte, tra il dispiacere di non aver sfondato in Serie A e la consapevolezza di non aver fatto abbastanza. Avrà però raccontato qualche aneddoto al figlio, José Adolfo, come il padre sballottato da una parte all'altra del mondo, senza però avere l'ebbrezza, come il padre, di giocare in club d'élite. Senza però mai viverli veramente. E dove sembrava poter essere idolo, in quel di Reggio Emilia, la sbornia iniziale si è trasformata solo in un pesante mal di testa.