Nell’ultimo decennio e poco più, i tifosi dell’ Arsenal hanno sopportato dipartite dolorose. I passaggi di Robin van Persie e Alexis Sanchez al Manchester United, di Adebayor e Nasri al Manchester City, Fabregas al Barcellona, fino ad un altro idolo come Olivier Giroud, finito al Chelsea. Nessuna di queste sembra però paragonabile all’addio dato da Aaron Ramsey al club londinese nel maggio 2019, a parametro zero, con il passaggio alla Juventus, per la verità già formalizzato l’inverno precedente. Al momento dei saluti, il gallese contava 371 gettoni con i Gunners, raccolti in una carriera durata 11 anni nei quali ha toccato il fondo, è risalito, è entrato nel mito, è diventato leggenda.
Nella sua ultima stagione all’Emirates Stadium, Ramsey è stato l’unico a godere del privilegio di avere sulla giacca della divisa d’ordinanza il ‘golden badge’, ovvero il logo dorato. Rosso per tutti i suoi compagni, oro per lui. Riconoscimento che si guadagna solo chi taglia il traguardo delle 300 presenze con il club del North London. Simbolo che equivale ad un posto nell’Olimpo della storia del club londinese. Il classe 1990 lo ha paragonato alla giacca verde dei Masters di golf, sport al quale è appassionato.
Getty ImagesEra il 2008 quando Arsène Wenger ha notato le doti di un giovane centrocampista del Cardiff, in Championship. L’attenzione del manager alsaziano verso i talenti low cost è sempre stato uno dei suoi punti di forza nello sviluppo di un club che ambiva ad essere virtuoso nelle prestazioni sportive ed economiche. Nel 2016, dopo l’acquisto di Rob Holding dal Bolton, è scaturita una delle sue massime: “Scusate se non è costato 50 milioni”.
Ramsey è costato poco più di 6 milioni, un investimento a lungo termine. Arrivato a Londra appena diciassettenne si è trovato immediatamente coinvolto nelle rotazioni della prima squadra. Una prassi usuale per Wenger, che ha sempre preferito valorizzare da subito ad alto livello i talenti. Ramsey dava l’impressione di essere un centrocampista ancora da sgrezzare, ma di grandissima prospettiva. E il tempo sembrava essere dalla sua. Crescita costante, spezzata d’improvviso. Da un tackle troppo violento di Ryan Shawcross in uno Stoke City-Arsenal al Britannia Stadium, il 27 febbraio del 2010.
L’intervento in netto ritardo, con la gamba tesa del ventitreenne difensore dello Stoke City gli ha provocato la frattura della tibia e del perone della gamba destra. Seppure in un'epoca di stato embrionale dei social, network le immagini - non adatte ai più sensibili - hanno fatto rapidamente il giro del web. Le lacrime di Fabregas, Nasri, Vermaelen e di tutti i suoi compagni, le fotografie della sua gamba destra letteralmente spezzata e le sue urla di dolore hanno scosso la Premier League. Il fermo immagine più emblematico è l’urlo di Sol Cambpell, la frustrazione, una reazione che sembra lasciar trasparire un grido “come è potuto succedere?”, insieme alle lacrime di Shawcross all’uscita dal campo.
“Quando ho visto la mia gamba spezzata, mi è passato per la testa di tutto. Quando stavamo andando all’ospedale, i dottori mi hanno subito detto che sarei tornato a giocare. Mi ha aiutato molto a sentirmi sicuro anche nella fase di recupero”, ha raccontato a ‘The Independent’.
Getty ImagesPochi anni prima l’Arsenal aveva vissuto una scena tremendamente simile, con protagonista Eduardo — che era in panchina a Stoke-on-Trent durante il dramma, ed è anche entrato in campo nel finale. Stavolta, un altro dramma. Toccava ad Aaron Ramsey, a un ragazzo di 19 anni con una cinquantina di presenze nell’Arsenal e la nomea di grande talento. In molti sembravano già temere per la sua carriera.
“Dalla panchina, ho sentito il ‘crack’ della gamba di Ramsey che si rompeva - ha raccontato Dave Kitson, una delle riserve dello Stoke in quel pomeriggio dai contorni drammatici, sulle pagine del ‘Sun’ - Ho sentito un urlo. E la preparazione alla partita ha contribuito a ciò che successe: Tony Pulis, il nostro allenatore, odiava il modo in cui giocava Wenger. E viceversa. In allenamento Pulis diceva a Shawcross: ‘se manchi la palla, porta via anche l’uomo, andate aggressivi’. Quando è successo ciò che è successo non sapevo dove guardare, ero imbarazzato”.
Shawcross è stato squalificato per tre giornate. Decisione dura da comprendere per Ramsey, che ha affermato quanto fosse difficile da accettare la sanzione dopo essere stato fermo per nove mesi. In seguito il difensore dello Stoke City ha rivelato di aver provato a contattare il centrocampista dell’Arsenal, senza mai ricevere risposta. Nel 2012 si vociferava che il Galles prima di convocare Shawcross (inglese, ma convocabile per le origini) volesse consultarsi proprio con Ramsey, per capire se gli potesse andare bene condividere con lui lo spogliatoio. Alla fine ha esordito con l’Inghilterra.
Il ritorno in campo si era concretizzato il 23 novembre 2011, a nove mesi di distanza dal ‘crack’. Una presenza con le riserve dell’Arsenal, poi un doppio prestito di 40 giorni al Nottingham Forest e al ‘suo’ Cardiff per rimettere minuti delle gambe in Championship. Il 12 marzo 2011, invece, il ritorno con l’Arsenal, dopo un anno. E l’inizio della sua seconda vita calcistica, quando in pochi credevano alla sua ascesa. Tra quei pochi, Arsène Wenger.
“Faceva sì che non avessi paura di uscire dalla comfort zone per esprimere le mie qualità - ha dichiarato recentemente il gallese a ‘Sky Sport’ sul tecnico - Credeva in te, dava ai giovani giocatori delle opportunità di dimostrare il loro valore. È un grande uomo. Se avevi un problema e se avevi bisogno di qualsiasi cosa, lui era sempre lì, pronto a darti una mano e ad ascoltarti”.
L’alsaziano lo ha schierato sulla linea mediana, sulla trequarti, a volte spostandosi anche a destra. Nella prima parte della stagione 2013/14, 13 goal e la sensazione vera di rinascita. Prima dell’ennesimo passo indietro, un infortunio alla coscia. Altro stop, oltre tre mesi. Senza affrettare i tempi. Stavolta, senza bisogno di ripartire da zero. Anzi, andando subito a cento. Goal decisivo in finale di FA Cup contro l’Hull City, nel supplementare, per cancellare un digiuno di trofei di nove anni. Scena ricorrente. Nel 2017, il bis, stavolta contro il Chelsea di Antonio Conte. In tuffo di testa, in una delle partite più memorabili della seconda parte della carriera di Wenger a Londra, quella meno vincente. Con trofei ‘griffati’ da Ramsey. Mr. Wembley. Non a caso la vecchia casa dei Gunners.
GettyUna continuità ritrovata, seppur con una coscia mai del tutto ristabilita, con alcune ricadute pesanti che hanno inevitabilmente condizionato la carriera del gallese. Arrivato però vicino alle 400 presenze, vestendo anche la fascia di capitano. Regalando momenti memorabili, come il goal in Champions League contro il Galatasaray al volo da 35 metri.
Una storia che avrebbe meritato un finale diverso di un’amara sconfitta per 4-1 contro il Chelsea in finale di Europa League. A Baku. Quella partita Ramsey non l’ha potuta giocare a causa di un infortunio muscolare rimediato nei quarti di finale, nella doppia sfida contro il Napoli. Ha raccolto solo la medaglia d'argento, amareggiato. Nelle sue lacrime nella ‘guard of honor’ riservatagli da compagni e avversari all’Emirates, a casa sua, il rimpianto di non essere riuscito a trasformare l’Arsenal in un club vincente come avrebbe sognato. Anche se il suo nome non si separerà mai da quello dei Gunners, dal Golden badge e dalle due finali di FA Cup che lo hanno reso leggenda.


