“L’area divenne una trincea e l’ho fatto senza vergogna”. (Diego Pablo Simeone)
La verità è che c’è stato un momento in cui tutti hanno iniziato a pensare a Guardiola come un allenatore non più rivoluzionario, quanto capace di vincere più Champions League in scioltezza, grazie a un gioco quasi impossibile da prevedere, nella sua tessa prevedibilità. E non è così.
Il punto, messo in mostra nel corso del “post-Wembley” (che dura ancora oggi e che chiameremo, come periodo, il “secondo guardiolismo”), è che le squadre di Guardiola a un certo punto si sono incartate, piegate sulle loro stesse premesse.
Nel 2016 il suo Bayern Monaco è la migliore squadra al mondo. Ma, attenzione: come lo è stato il suo Manchester City nel 2022, pur avendo preso due gol in un minuto dal Real Madrid in semifinale. O come la squadra che ha affrontato il Chelsea di Thomas Tuchel: superiore, secondo i pronostici.
Ecco, nel 2016 è stato messo in pratica più o meno lo stesso delitto, operato, nella forma e nella sostanza, da una squadra che è sembrata a tratti talmente superiore da mostrare il suo lato debole. La tensione, il nervosismo. L’incapacità di render concreto quel che in potenza è perfetto.
Il goal di Robert Lewandowski, al 74’ della partita contro l’Atletico Madrid, in semifinale, ne è la dimostrazione: i bavaresi hanno appena siglato il pari, ma all’andata è finita 1-0 per i Colchoneros. È impressionante, quella sfida lì: il Bayern potenzialmente può chiudere il primo tempo sul 4-0. Come minimo: e invece no, finisce 1-1. Finisce 1-1 e il Bayern di Pep viene eliminato da quello che verrà definito un catenaccio (operato da Diego Pablo Simeone), nel senso puro della parola.
“Io non sono mai capace di fare catenaccio: però ammiro la sua capacità di resistere e resistere e resistere perché sa che a un certo punto la squadra creerà la giusta occasione”.
Amen. Guardiola, stressato da un calcio più efficace, crolla con il suo castello costruito su concetti ornamentali. Siamo andati persino oltre, in quel caso, la fine.