Atavicamente, siamo portati a ricercare, nel quotidiano, icone alle quali trasferire, o scaricare (fate voi), speranze o aspettative, delegittimando, almeno in parte, la nostra influenza sul corso degli eventi. Che poi è la funzione primaria degli "idoli": religiosi, laici. Figure prominenti e marcate, distinte dal comune.
Nel calcio, o nello sport in generale, è anche più semplice, vista la natura quasi "devota" della pratica che, di settimana in settimana, persino giorni, induce tutti (nessuno escluso, pur con le dovute differenze) a rivolgere quello strano, ma intenso, sentimento di fedeltà alla causa. A un singolo. A un insieme di valori rappresentati da questo o l'altro, appunto, "idolo".
La seconda stella cucita dall'Inter di Simone Inzaghi a pochi millimetri dal suo stemma, accanto allo Scudetto, ha diversi uomini-copertina, e questo ci riporta all'importanza del progetto tecnico di un allenatore che ha saputo discostarsi dalle gesta iconiche di un singolo per consegnare alla storia l'immagine di un gruppo che verrà ricordato come tale, unito, senza particolari figure di spicco.
C'è, però, che in questo necessario vizio morale di cui siamo quasi schiavi di trovare "l'immagine", la fotografia, il fotogramma "eccezionale", nel senso proprio di "eccezione", ci rimbalza in testa un'esultanza, tra tutti. Quindi un nome e un cognome: Lautaro Martinez. Perché è il capitano, perché è il capocannoniere (della Serie A, non solo dell'Inter), perché è il simbolo e perché, in qualche modo, ha riacceso il dibattito storico che ha riportato la sua figura al centro dei dialoghi sul migliore attaccante nella storia del club nerazzurro.
O, almeno, dal Duemila (giù di lì) a oggi: quando il calcio ha smesso di essere solo piena devozione ed è diventato continua ricerca di una spiegazione più razionale. Ecco, noi ci proviamo.

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