Il 4 maggio del 2005, Hakan Calhanoglu si trova ancora a Mannheim. La particolarità calcistica, in questo caso, è che la squadra della città, il Waldhof, veste di quel nerazzurro (o neroblu, per i pignoli) che sa di destino già scritto. In Bundesliga, in quei giorni il Bayern Monaco è campione di Germania con svariati turni d'anticipo, come spesso accade, e né Calhanoglu, né i calciatori del Bayern, avrebbero potuto immaginare (forse pensare, chissà) che da qualche parte a Regensburg, sarebbe nato Kenan Yildiz.
Quando a Istanbul, all'Ataturk, di fronte a una platea di giornalisti qualcuno osa un po' più di altri, chiedendo ad Hakan di Ilkay Gundogan alla vigilia della partita più importante della sua carriera, la finale di Champions League contro il Manchester City, la risposta del centrocampista dell'Inter non fa prigionieri.
"Dall'altra parte c'è Gundogan, che rispetto, ma a differenza mia gioca per la Germania. Per la nostra gente penso sia più importante che vinca io, sarei l'unico giocatore della Turchia a vincere la coppa".
Che fa riflettere: perché in fin dei conti Calhanoglu è turco, e tedesco, almeno quanto Gundogan. Nativo di Gelsenkirchen, ma scavato e definito dai lineamenti orientali.
Si sente turco, però: e lo stesso si dice di Yildiz, che a questo duello tra due scelte ideologiche e culturali assiste a distanza, da spettatore disinteressato. Forse in cuor suo ben posizionato a favore di Calhanoglu.
Perché il percorso è lo stesso: nato in Baviera, ma di sangue e spirito turco. Undici anni dopo Hakan: fratello maggiore spirituale ed esempio da seguire.




