Pubblicità
Pubblicità
Diego MaradonaGetty Images

Hall of Fame Vol. III - Diego Armando Maradona, il Dio del calcio che rendeva possibile l'impossibile

Pubblicità

Nella Hall of fame dei calciatori che hanno segnato un’epoca c’è d’ufficio quello che per tanti, ancora oggi e quindi per sempre, è considerato il migliore di tutti. C’è infatti un prima e un dopo Diego Armando Maradona nel mondo del calcio e non solo.

Un talento cristallino la cui epopea è stata tanto grande da farlo entrare nella storia del ‘900. Di lui si è parlato in libri, canzoni e film come a testimoniarne il passaggio. È stato un’icona, un mito, un nome e un volto riconosciuto in tutto il pianeta, per tanti – e soprattutto per i ceti popolari, da cui proveniva – un sinonimo di riscatto. A cementarlo per sempre nella nostra memoria sono state alcune delle giocate più impensabili mai viste su un campo da calcio ma anche la sua capacità di rendere possibile l’impossibile.

Ha vinto infatti, anche se molto meno di altri grandissimi, scegliendo gli sfavoriti, sfidando il potere costituito. Ha vinto anche con la sua nazionale, l’Argentina, portando un gruppo di giocatori modesti sul tetto del mondo e dimostrando, come mai prima e mai dopo, come un singolo – pur con comprimari motivati e ispirati – possa scrivere la storia anche in uno sport di squadra.

  • FBL-FRA-ARG-MARADONA-MARSEILLEAFP

    COME ATLANTE

    Raccontare di Maradona ti pone di fronte a un mare magnum di spunti, storie e possibilità, tra cui quella, molto concreta, di finire nella banalità, nella retorica. Qui l’obiettivo è rimarcare una delle cose che più lo ha distinto dalla pletora di fenomeni che hanno calcato i campi a ogni latitudine: l’aver convinto gruppi, squadre, giocatori – che senza di lui mai avrebbero potuto sognare di arrivare a certi traguardi – che in realtà vincere era possibile. E riuscirci poi davvero.

    Di imprese d’altronde è piena la storia del calcio, eppure forse mai c’era stato un solo uomo che, alla stregua di Atlante, si era fatto carico in tal modo delle sorti delle sue squadre, portandole poi al successo. Maradona l’ha fatto e più volte. Si è tenuto lontano dalle corazzate più ricche e blasonate per mettersi all’opposizione, per fare la rivoluzione. Non ha mai giocato per super team: è passato per il Barcellona sì ma in una versione dei blaugrana ben diversa dai fasti che verranno, ha scelto invece di legarsi a una squadra perdente, mettendola sulla cartina del calcio che conta.

    Prima del suo arrivo, il Napoli non aveva mai vinto un campionato e passeranno oltre 30 anni prima di tornare a farlo dopo il suo addio. Con gli azzurri, che avevano sollevato un paio di sparuti trofei nazionali e avevano raggiunto solo piazzamenti d’onore in Serie A, Maradona vince 2 Scudetti, 1 Coppa Italia, 1 Coppa UEFA e 1 Supercoppa Italiana in 7 anni. Ma le statistiche (115 goal in 259 partite al Napoli) raccontano solo una parte di quello che seppe creare.

    El Pibe de Oro trascinava, entrava sottopelle ai suoi compagni, creava un rapporto di fiducia incrollabile, li convinceva che qualsiasi impresa fosse possibile. Per lui, gli altri si toglievano qualcosa, vivevano di luce riflessa per un bene supremo, per una vittoria che sapevano sarebbe potuta arrivata solo grazie al loro amico geniale. Maradona era un vincente e rendeva vincenti.

  • Pubblicità
  • gam5wwyoglud1qfviaj4fvrqe

    AL NAPOLI

    Sceglie Napoli nel 1984 dopo la prima avventura europea, finita male a Barcellona. Ferlaino, dopo una trattativa romanzesca, sborsa 13 miliardi e mezzo e corona il sogno di quei 70mila spettatori e oltre che lo accolgono al San Paolo il 5 luglio in uno stadio che ora porta il suo nome.

    L’argentino sa di essere arrivato in una squadra mediocre che pochi mesi prima si era salvata per un solo punto dalla retrocessione, di avere al suo fianco più gregari che stelle. É un alieno ma c’è da mettere le basi per un progetto duraturo e vincente. Dai comprimari ai nazionali, si crea, anno dopo anno, una squadra sempre più competitiva che centra un 8º posto al primo anno, un 3º e quindi il primo, storico, Scudetto nel 1986/1987.

    Sono anni in cui la Serie A è il miglior campionato al mondo: c’é la Juventus di Platini, il Milan di Berlusconi, Sacchi e degli olandesi, l’Inter di Trapattoni, la Sampdoria di Vialli e Mancini, il Verona scudettato nel 1985, Falcao, Zico, Baggio, Socrates, Junior… Nelle 7 stagioni italiane di Maradona, tra il 1984-85 e il 1990-91, lo Scudetto viene vinto da 6 squadre diverse: solo il Napoli sa ripetersi.

    Di Scudetti che finiscono fuori dal solco delle 3 big del Nord ce ne sono stati (dalla Samp al Verona, dalla Fiorentina al Cagliari, dalla Lazio alla Roma, fino al Torino) e alcune di queste, come le romane, sono riuscite anche a ripetersi a distanza però di decenni. L’unica eccezione, l’unico ciclo vincente lontano da Juve, Inter e Milan è proprio quello del Napoli di Maradona.

    Un’impresa che logora quello stesso gruppo e lo stesso Maradona che tenta anche, invano, di cambiare aria. Resta e vince il Tricolore ancora, per l’ultima volta, nel 1989-90, prima che una squalifica per cocaina ponga fine alla sua epopea napoletana.

  • Pubblicità
    Pubblicità
  • Diego Maradona Argentina England 1986 World CupGetty Images

    CON L'ARGENTINA

    Anche in nazionale, in anni in cui di talento in Albiceleste ce n'era poco, Maradona ha dovuto fare di necessità virtù e creare attorno alla sua leadership delle squadre capaci di seguirlo e di credere nella sua visione. Diego debutta a 16 anni con l’Albiceleste ma Menotti decide di escluderlo dai Mondiali casalinghi del 1978. Troppa la pressione per un torneo che i suoi comunque vincono. Il 10 si rifà dominando i Mondiali U20 e prendendosi la nazionale nel 1982.

    La squadra è forte, forse la migliore della sua carriera, eppure si schianta contro Brasile e Italia. A sprazzi Maradona dimostra la sua grandezza ma finisce male il primo Mondiale, facendosi espellere. Torna al proscenio 4 anni dopo con un gruppo più modesto ma anche con una maturità diversa. Ha compreso l’importanza del gruppo e a Messico '86 lo cesella secondo la sua volontà: è lui che decide che di Passarella e Ramon Diaz, due del River, due campioni ma che con lui non si sono mai presi, si può anche fare a meno. Non sbaglia niente. È coinvolto in 10 dei 14 goal totali (5 reti e 5 assist), manda in porta tutti, segna prima di mano all’Inghilterra, con tutte le implicazioni politiche e sociali di quel gesto, poi realizza il goal del secolo, saltando mezza squadra inglese, spazza via il Belgio e quindi la Germania in finale.

    È un torneo dominato, il secondo Mondiale per l’Argentina, la migliore prestazione di sempre di un singolo in una competizione così importante. Beardsley, attaccante inglese, dice: “Se Maradona fosse nato a Toronto, il Canada sarebbe diventato Campione del Mondo”. Una resa per manifesta superiorità. Ci proverà ancora, nel 1990, in Italia, con una squadra forse ancora più debole e giocando in condizioni fisiche precarie. Gli argentini eliminano il Brasile, passano ai rigori contro la Yugoslavia e allo stesso modo, in semifinale a Napoli, contro i padroni di casa. In finale, a Roma, tra fischi e insulti, ricambiati, a trionfare però stavolta sono i tedeschi. Sembra l’epilogo della grande storia di Maradona ai Mondiali, ma non è così.

    Ormai fuori forma e fuori dal calcio che conta, reduce da una squalifica, Diego si rimette in sesto per Usa ’94. Segna subito un goal da urlo alla Grecia e sfoga tutta la rabbia repressa da anni passati nel dimenticatoio. La gioia però dura poco e, al termine della seconda sfida, con la Nigeria, nel suo sangue vengono trovate tracce di efedrina. Stavolta è finita davvero, viene squalificato e costretto a lasciare la nazionale che uscirà di lì a breve. Chiude il conto con 34 goal in 91 partite, un Mondiale vinto e uno sfiorato.

  • ENJOYED THIS STORY?

    Add GOAL.com as a preferred source on Google to see more of our reporting

  • Diego Armando Maradona, Ballon d'OrGetty Images

    GOAT

    Nato nel 1960, morto nel 2020, Maradona era entrato presto nel vivaio dell’Argentinos Jr e fin dalla tenera età è stato sotto i riflettori. In un’intervista in cui veniva presentato come il possibile prossimo campione del Paese, aveva dichiarato di sognare di giocare i Mondiali e di vincerli. A 20 anni era già il miglior giocatore del continente, i passaggi al Boca Juniors e al Barcellona prima dell’apoteosi napoletana. Lasciata l’Italia, ha provato a riciclarsi al Siviglia e al Newell’s Old Boys prima di chiudere ancora al Boca. Ha vissuto mille vite, è caduto e ha provato a rialzarsi.

    È stato un ribelle e anche per questo ha rappresentato un modello per tanti, nonostante una vita di grandi contraddizioni. Arrivato sotto al Vesuvio, disse di voler essere “l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”. Ci é riuscito creando un rapporto di simbiosi con la città e i suoi abitanti, talvolta fin troppo stretto. In campo, come fuori, è stato protagonista del suo tempo. Ha segnato goal da centrocampo, punizioni dall’area di rigore, dato spettacolo durante le gare e anche prima.

    Mai egoista, rendeva migliori quelli che giocavano attorno a lui. Il suo eterno metro di paragone Pelé ha giocato nel Brasile con alcuni dei migliori giocatori di sempre, Cruijff idem tra Ajax e Olanda, Messi e Ronaldo sono stati le punte di diamante di grandi squadre, tutti gli altri papabili per il titolo di migliore di sempre sono passati per club storici come Real Madrid, Juventus, Milan o l’ultimo Barcellona. È in questo che el Diez ha marcato la sua differenza. C'è chi ha vinto di più, chi ha avuto carriere migliori, eppure il fascino di Maradona, la capacità di trascinare squadre sulla carta modeste a vincere trofei insperati non saranno mai pareggiati. Lui non ha giocato con le big ma contro di esse e spesso, più di quanto fosse lecito aspettarsi, le ha anche battute.

  • Pubblicità
    Pubblicità
0