
Quando la sera del 15 giugno 1999 Andriy Shevchenko sbarca a Malpensa per iniziare la sua avventura al Milan, ad attenderlo trova il direttore generale rossonero, Ariedo Braida, un interprete, qualche giornalista, pochi curiosi ed una discreta dose di scetticismo.
In quegli anni la Champions League era già un fenomeno planetario e le immagini delle sfide europee entravano nelle case degli italiani con una certa assiduità, quindi del ventitreenne attaccante ucraino si sapeva già abbastanza. Da almeno un paio di stagioni si era guadagnato le attenzioni di molti e l’aveva fatto a suon di prestazioni incredibili.
Se inizialmente furono solo gli occhi più attenti a cogliere le qualità di quel giovane talento che molto presto aveva iniziato a fare sfracelli in patria, dal 5 novembre 1997 il suo nome iniziò ad diventare familiare per tutti. La sua Dinamo Kiev è infatti impegnata in casa del Barcellona, al Camp Nou, per una sfida della fase a gironi di Champions. Sheva apre le marcature al 9’, poi’ si ripete al 32’ e poi ancora al 44’. Una tripletta in una sola frazione di gioco sotto gli occhi di Luis Figo e Rivaldo. Non propriamente due qualunque.
Fu quella sera che la stella di colui che poi si sarebbe meritato il soprannome di Zar iniziò a brillare realmente. L’Europa aveva trovato un potenziale campione, un ragazzo che nell’edizione successiva della massima competizione continentale per club, avrebbe trascinato la sua squadra fino alle semifinali, dove si fermò dopo due partite tiratissime solo al cospetto di quel Bayern che poi perse una delle finali più drammatiche della storia (avanti grazie ad un goal di Basler, si fece superare da un Manchester United capace di segnare con Sheringham al 91’ e Solskjaer al 93’ le reti del definitivo 2-1).
Di quella Champions Andriy Shevchenko fu anche capocannoniere con 8 reti al pari di Yorke, tuttavia ad alcuni la cosa ancora non bastava. Quello che era arrivato al Milan era un ragazzo i cui numeri parlavano di più che semplici e reiterati exploit, ma veniva dall’Ucraina e quindi da un campionato poco competitivo. Insomma la Serie A era un’altra cosa ed era tutto da vedere se sarebbe riuscito a confermarsi anche in Italia.
Il realtà quando il Milan versò nelle casse della Dinamo Kiev ben 25 milioni di dollari pur di anticipare, già a maggio e prima dell’apertura della finestra estiva di calciomercato, una nutrita concorrenza, lo fece con la convinzione di chi conosceva alla perfezione il giocatore.
GettyIl club meneghino infatti aveva iniziato a seguirlo già almeno un paio di anni prima, così come confermato da Alberto Zaccheroni, ovvero il primo allenatore italiano di Sheva.
“L’idea di prenderlo c’era già da tempo, lo voleva Fabio Capello già un anno prima che arrivassi. Lo fecero seguire per molto tempo e poi un giorno Berlusconi mi chiamò per dirmi che a Wembley si giocava Dinamo Kiev-Arsenal. Mi chiese di fare una relazione sul ragazzo, mi mise a disposizione anche il suo aereo personale. Vidi un giocatore che copriva tutto il campo, che aveva qualità da attaccante, ma anche tanta corsa. Era un ragazzo che giocava per la squadra. Sulla relazione scrissi ‘Assolutamente da prendere’”.
A notare per primo quel diamante grezzo fu Ariedo Braida, un dirigente che di colpi in carriera ne ha sbagliati pochi e che qualche tempo più tardi si sarebbe ritrovato a Malpensa ad attendere l’arrivo di quella sua ‘scoperta’.
“Io e Galliani non siamo mai andati a vedere insieme un giocatore che volevamo prendere. Lo facemmo una sola volta e fu per Shevchenko. Andammo a Kiev per una partita di Champions e lui non toccò palla. Galliani mi chiese se ero realmente sicuro di voler spendere una cifra del genere per quel ragazzo, ma nessuno può giocarle tutte bene. Gli dissi di stare tranquillo, che l’avevo visto più volte. Quando tornai a Kiev portai a Shevchenko una maglietta del Milan e gli dissi che con quella avrebbe vinto il Pallone d’Oro”.
Quello che era arrivato in Italia, non era solamente un giocatore visionato più e più volte, era un ragazzo con qualità e caratteristiche semplicemente uniche, più che pronto non per il campionato italiano, ma anche per scrivere la storia.
Era cresciuto sotto lo sguardo attento e severo di Valeriy Lobanovskyi, una leggenda della panchina che proprio in lui aveva visto un talento da plasmare. Lo chiamavano il ‘Colonello’ perché era un era un colonnello dell'Armata Rossa, ma anche perché i suoi metodi erano durissimi. In occidente erano giunte poche notizie a riguardo ma in particolare si era spesso sentito parlare della ‘salita della morte’, ovvero di ripetute su ripetute su pendenze del 18%. Al di là della bravura tecnica, chi resisteva senza sbattere a terra si meritava un posto nella sua Dinamo.
“E’ stato il mio maestro di calcio, tutto è cominciato da lui, mi ha dato tantissimo. In ritiro ci allenavamo tre volte al giorno. Sveglia alle sei e primo allenamento alle sette. Poi colazione e subito secondo allenamento”.
Il primo Sheva del Milan è quindi non solo un calciatore estremamente completo, ma è anche un ragazzo con una straordinaria cultura del lavoro. I suoi compagni lo capirono fin dal primo allenamento, così come ricordato anni dopo da Billy Costacurta.
“Era con noi da poco e nel giorno delle ripetute, mentre a fine allenamento stavamo tutti tornando negli spogliatoi, venne da me e mi chiese ‘Ma quando iniziano gli allenamenti?’ Pensavo scherzasse, ma era serio. Quando uscii di nuovo lo vidi ancora in campo ad allenarsi”.
Tanta corsa, fisico straordinario e molto di più. Shevchenko chiuderà la sua prima stagione in Serie A con 24 goal all’attivo che gli valsero il titolo di capocannoniere, cosa questa che fece di lui il secondo straniero dopo Platini a riuscire a vincere la classifica dei marcatori al primo tentativo. Nel frattempo a dicembre si era piazzato terzo posto al Pallone d’Oro alle spalle di Rivaldo e Beckham. Sarà la prima volta che andrà vicino a quello che da tempo era un suo obiettivo.
GettyLa stagione 2000-2001 è quella della conferma: arrivano altri 24 goal in campionato (saranno 34 quelli complessivi in 51 partite) ed un altro terzo posto nella classifica del Pallone d’Oro questa volta alle spalle di Figo e Zidane, ma quella del Milan è un’annata non positiva che culmina con l’esonero di Zaccheroni.
Sheva è ormai considerato un big del calcio mondiale e quando l’estate successiva viene acquistato dalla Juventus Filippo Inzaghi, la curiosità nel vedere cosa possono fare insieme due tra gli attaccanti più letali in circolazione è enorme. In realtà all’inizio faticano a trovarsi e la squadra pensata da Fatih Terim incappa in troppi alti e bassi. La sensazione è quella che la stagione possa rivelarsi ancora avara di soddisfazioni, ma quando il 5 novembre 2001 la società decide di esonerare il tecnico turco per affidare la panchina a Carlo Ancelotti, inizia a gettare le basi per un ciclo straordinario.
L’annata 2002-2003 inizia male per il campione ucraino. Un infortunio al ginocchio lo costringe ad un lungo stop ed Ancelotti, per sopperire alla sua assenza, pensa ad un ‘Albero di Natale’ che preveda Rivaldo e Rui Costa a supporto di Inzaghi. L’esperimento funziona, la squadra viaggia ad un’ottima andatura, ma quando Shevechenko torna a disposizione il tecnico non ci pensa due volte a tornare alle due punte. I goal in campionato saranno solo 5, ma la stagione sarà in realtà trionfale. Il Milan, dopo tre anni senza successi, nel giro di pochi giorni alza prima la cielo la Champions League e poi la Coppa Italia.
La finale che separa il Milan dal tetto d’Europa è uno scontro fratricida tra italiane. A Manchester è infatti la Juventus l’ultimo scoglio da superare. La sfida è equilibrata e i 90’ regolamentari si chiudono sullo 0-0. Quando al 95’ Roque Junior riporta un infortunio muscolare, i rossoneri si riscoprono costretti a giocare con un uomo che formalmente è in campo, ma che in realtà può dare poco. C’è da stringere i denti e la squadra di Ancelotti lo fa, si arriva quindi ai rigori senza che nessuno abbia trovato la via della rete.
L’ultimo tiro dal dischetto, quello che vorrà dire vittoria, viene affidato proprio a Shevchenko che, nell’avviarsi verso la battuta sembra quasi immerso in un mondo tutto suo. Nessuna smorfia, nessuna emozione: solo uno squadro all’arbitro Merk in attesa del suo fischio, uno al pallone ed un altro a Buffon.
“Era la mia prima finale, la partita più importante della mia carriera. In quei dodici secondi che ho impiegato per arrivare dal centrocampo al dischetto, ho pensato a tutta la mia vita. Ho capito che il sogno che avevo fin da bambino stava per realizzarsi, già avevo pensato a come tirare. Ho sentito il fischio, sono partito e tutto è andato come avevo immaginato”.
GettyNel momento stesso in cui la palla varca la linea di porta, Shevchenko compie il suo primo passo verso un Pallone d’Oro che vincerà solo un anno dopo. Nel 2003 sarà infatti Nedved, il grande assente della finale di Manchester a trionfare, ma nel 2004 non ci sarà storia.
Se l’annata precedente, paradossalmente la più complicata e allo stesso la più importante, il fuoriclasse ucraino si era visto frenato dall’infortunio, in quella successiva è devastante fin dalla prima partita. Segna contro il Porto il goal che vale il trionfo in Supercoppa Europea, poi fino a dicembre, quando viene incoronato, per dodici volte trova la via della rete in un campionato che chiuderà da capocannoniere e da campione d’Italia.
Quella decisa dai voti dei 52 giurati sarà una classifica che vede Shevchenko imporsi nettamente davanti a Deco, Ronaldinho, Henry e Zagorakis, l’uomo simbolo della Grecia capace di stupire il mondo vincendo Euro 2004.
“Per me fu l’anno perfetto. Con l’Ucraina difficilmente avevo la possibilità di giocare Europei e Mondiali. La squadra era forte, ma tante volte siamo stati sfortunati negli spareggi. Quell’anno invece giocammo grandissime partite ed eravamo primi nel nostro girone di qualificazione ai Mondiali. Il Milan già mi aiutava tantissimo, perché era una vetrina mondiale. Era il club più importante di tutti, mi permetteva di competere per la Champions, per il campionato ed avevamo una squadra che giocava un calcio pazzesco e che aveva moltissimi campioni. Mi mancava il supporto della Nazionale, ma quell’anno arrivò”.
Ad Andryi Shevchenko, il quinto campione della storia del Milan a vincere un Pallone d’Oro dopo Rivera, Gullit, Van Basten (tre le sue vittorie) e Weah, e primo ucraino di sempre a meritarsi il più grande riconoscimento al quale un giocatore può ambire, il popolo rossonero riservò il giusto tributo con una standing ovation prima di un Milan-Lecce ed uno striscione.
“Il tuo trionfo è il nostro orgoglio... Sheva re d'Europa”.
Sheva, che nello stesso anno venne premiato con il titolo di Eroe di Ucraina, la più alta onorificenza conferita nel suo paese, entrerà solo un’altra volta nella classifica del Pallone d’Oro: nel 2005 quando si piazzerà al quinto posto.
Giocherà un’ultima grande stagione al Milan, ma superata la soglia dei trent’anni qualcosa si romperà. Lascerà il club rossonero per tentare un’esperienza in Inghilterra al Chelsea che volerà via tra pochi acuti e pochissimi goal.
Nell’estate del 2008 tornerà a Milano per ritrovarsi, ma la seconda avventura nel club che aveva contribuito a fare di lui uno dei più grandi attaccanti della sua generazione, si trasformerà nel peggior modo possibile per salutarsi: nessun goal in diciotto presenze in campionato, uno in Coppa Italia ed un altro in Coppa UEFA. Troppo poco perché solo pochi anni prima faceva tremare le difese di tutte il mondo.
Shevchenko chiuderà poi la sua carriera lì dove tutto era iniziato e lì dove era giusto che tutto finisse: a Kiev nella sua Dinamo e all’ombra della statua di Lobanovskyi. Quella stessa statua sulla quale anni prima aveva appoggiato, per rendere omaggio al suo maestro, il trofeo della Champions League prima ed il Pallone d’Oro poi. Le due gemme più preziose raccolte nel corso del suo lungo cammino nel mondo del calcio.
