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“Servono magliette”: il Messina-Catania giocato con le maglie dei tifosi

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Il 1998 non è solo l’anno dei Mondiali francesi: è anche e soprattutto una strana convergenza di influenze culturali e artistiche che di lì a poco avrebbero chiuso degnamente il millennio, portando con sé parte dell’epicità che l’ultima parte del secolo, specialmente nel calcio, aveva consegnato all’uomo. Chissà se alla radio, nei 93 chilometri che separano Catania e Messina, suonava Fatboy Slim: la certezza, comunque, è che in auto, stretti, ma contenti, i tifosi avevano con sé due fondamentali. La sciarpa e la maglia.

Il Celeste di Messina è un luogo di culto, più che uno stadio ‘sudato’, ormai. Nonostante sia attualmente la casa dell’FC Messina, che oltre ad utilizzarlo come campo d’allenamento sta provando in tutti i modi a renderlo impianto principale per le gare ufficiali, l’ultima partita disputata nel rione Gazzi risale al 2014 (con protagonista il Città di Messina, divenuto proprio FC Messina, nel 2019). Per i tifosi giallorossi, in generale, rimarrà per sempre il teatro dell’ultima promozione in Serie A dei peloritani, conquistata nel 2004 e giocata, poi, al San Filippo. Per quelli del Catania, invece, il luogo unico di una domenica e di una storia indimenticabili.

In effetti, l’ultimo decennio dello scorso secolo non è stato un periodo semplicissimo per il club rossazzurro. Nel ’93 il Calcio Catania 1946 ha rischiato seriamente di scomparire, sfiorando la perdita della storica matricola 11700 e iniziando una vera e propria traversata nel deserto conclusa solo nel 2006 (con la promozione in A), ma che alla fine degli anni Novanta ha trovato comunque un punto di svolta. La storia, in un certo senso, ha deciso come spesso accade di farsi bizzarra: saranno stati i 93, numero non casuale, chilometri di distanza, sarà che quella parte di Sicilia non ce la faceva proprio più ad aspettare, ma il 13 dicembre del ’98 non ci ha messo troppo tempo per dire la sua, calcisticamente e spiritualmente.

Il Messina Peloro e il Calcio Catania, nella stagione 1998/99, erano senza alcun dubbio due tra le migliori formazioni del Girone C di Serie C2, oltre ad essere rivali come poche altre squadre in Italia. Background perfetto per l’epica. Alla vigilia della quattordicesima giornata i rossazzurri guidano il campionato con 23 punti: la classifica dei giallorossi ne conta 21. Una buona fetta di promozione, anche se a dicembre, passa dal Celeste: guarda in faccia Messina e Catania. Un derby è sempre un derby: se vale la vetta, poi…

Oltre a essere quel luogo di culto di cui si parlava prima (a ragion veduta, visti i risultati del Messina in B nel 2003/04, e non solo), il Celeste è anche uno stadio molto particolare: senza pista d’atletica, con le tribune molto vicine e, soprattutto, fitte, nonostante i quasi 12mila posti a sedere (alla fine degli anni Novanta, qualcosina in meno). Un tempio a cielo aperto che, pieno, diventa una bolgia. Spenta la radio e scesi dalla macchina, i tifosi del Catania riempirono presto il settore a loro dedicato: circa 5mila anime con bandiere e maglie rossazzurre, spezzate da voci incontrollate. “Forse non si gioca”.

“Servono magliette”. Sì, magliette. Il Catania, giunto al Celeste, aveva con sé solo maglie bianche con rifiniture rossazzurre. Il Messina, in quella stagione, ne aveva a disposizione due: una biancoscudata, l’altra giallorossa. E… sì, la gara era davvero a rischio. I peloritani decidono di scendere in campo con quella biancoscudata: il tempo si ferma, prima di scorrere alla velocità della luce. I membri dello staff del Catania avrebbero dovuto, e voluto, teletrasportarsi magicamente a 93 chilometri di distanza, preferendo la smaterializzazione dei corpi alla sconfitta a tavolino: nel ’98, come oggi, non era minimamente pensabile. Gli sguardi confusi dei tifosi catanesi presenti al Celeste lasciarono presto spazio e margine di manovra all’azione: d’istinto, in moltissimi non persero molto tempo a sfilarsi la maglia di dosso e a lanciarla in campo. L’atto d’amore della gioia per un goal: la consegna di una parte di sé, ai propri beniamini.

“Fu una cosa epica: era la partita dell’anno e il clima derby si respirava già da inizio settimana. Quando il dottor Giuseppe Inzalaco (dirigente, ndr.) inviò due membri dello staff sotto il settore ospiti a dire ‘ragazzi, servono le vostre maglie per giocare’, fu un plebiscito”, racconta a Goal Italia Gennaro Monaco, ex rossazzurro e titolare in quella gara.

“Appena si seppe, i tifosi fecero a gara a lanciare maglie: la gente impazzì, rimase persino nuda. Indimenticabile. I tifosi ci stavano consegnando il loro cuore e noi non potevamo che prendere queste maglie e onorarle, giocando una partita strepitosa”, spiega.

La foto di rito, unica nel suo genere, racconta un calcio che non c’è più: quattro giocatori vestono la maglia stagionale (compreso Monaco), ma priva di sponsor. Uno, Di Dio, indossa quella della stagione 1995/96, altri due, Lugnan e Marziano, invece, quella del 1994/95; Manca e Ripaldi quella dell’anno prima. L’unico a sfilare con la casacca completa, corretta e con sponsor, è Alessandro Cicchetti.

La gara del Celeste termina 0-0: combattuta come poche, con occasioni da goal da entrambe le parti (con due pali per il Catania). Un classico derby, insomma. E, a tutti gli effetti, una partita decisiva: “Il Messina era convinto che non c’era tempo per tornare a Catania e prendere una serie di maglie rossazzurre: quindi, avrebbero vinto la partita. Pensate: quella vittoria per loro poteva sancire la vittoria del campionato”, racconta Monaco, che lasciò il campo anzitempo insieme al messinese Vittorio Torino, entrambi espulsi.

La storia di quel campionato racconta, infatti, che il Catania vincerà proprio per un punto sulMessina Peloro (59 contro 58), festeggiando dopo sei stagioni il ritorno alla terza serie calcistica italiana, la C1 (il Messina ci riuscirà un anno dopo, a riprova dell’ottimo progetto sportivo del patron Emanuele Aliotta). Sliding doors, tra l’Etna e i Peloritani.

L’immagine chiave di quella domenica la consegna il tradizionale cerchio prepartita del Catania: undici casacche rossazzurre, molte diverse tra loro, strette in un abbraccio di fronte alla tribuna dei tifosi catanesi. Ne spicca una: la veste Pietro Tarantino, è la ’46’. Anno di fondazione del Calcio Catania e simbolo di rottura in un calcio epico lontano dai numeri personalizzati e soprattutto ‘romantico’, che viveva di questi momenti e di maglie, sì, è proprio il caso di dirlo, ‘cucite addosso’.

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