Alla fine del terzo minuto dell’ultimo concerto delle Quattro Stagioni, il quartetto d’archi incalza in Allegro, dettando il ritmo, e il tempo, della serena accettazione del clima invernale, rigido come pochi. Chiosa della rassegnazione definita dall’Inverno di Antonio Vivaldi, e cornice allegorica di tutto ciò che l’animo umano ha la possibilità, concessa in breve e in sintesi, di esprimere alle soglie della propria fine. Cos’è stato delle sofferenze? Cos’è stato delle lotte? Cos’è stato, infine, del percorso?
Non sono state molte, in effetti, le occasioni di conoscere il viso di Cristiano Ronaldo “spostato”, nell’immaginario, dall’iconica e statuaria figura priva di barba: in verità, due, forse tre. Consegnate al mondo comune, e filtrato, più come spunto di dibattito intriso di sollazzo che altro. Non deve essere uno a cui piace mostrarsi con qualche pelo in più qua e là, il portoghese: escludendo l’irriverente pizzetto mostrato ai Mondiali del 2018, in Russia, e una barbetta trasandata dopo una sessione di home workout nel periodo in cui il mondo si è visto, più per aderire a un trend che per reale necessità (senza sottovalutare l’aspetto egoriferito), “costretto” a riempire le giornate a casa, per la diffusione della pandemia, sollevando pesi in maniera scriteriata. Per il resto no: a Ronaldo piace apparire così.
Posata la lametta, rifiniti gli angoli: giacca e cravatta, brillantina. Cristiano attraversa a grandi falcate il corridoio, in attesa di giudizio. “Tive razão”, dirà dinanzi alla Corte che processerà la sua carriera, mentre il quartetto d’archi incalza. “Avevo ragione”. L’Inverno è arrivato anche per lui: un villain sprofondato negli abissi, per un errore del sistema. Il suo.
“Posso falar”: di Cristiano Ronaldo conosciamo anche i dettagli metodici di una vita condotta, appunto, “sistematicamente”, sin dall’inizio. Progettato per non fallire, tra le strade in forte pendenza di Funchal: in costante equilibrio per non cadere, sotto i colpi della “fragilità da distanza” che ha caratterizzato il suo primo rifiuto a una vita comune, vicino casa. È cresciuto “ovattato” dalla figura rassicurante, pur severa, di Sir Alex Ferguson, si è mischiato all’oro dei trofei che abbelliscono le sale del Real Madrid. Sappiamo, e lo abbiamo saputo innumerevoli volte, che al termine di ogni partita adora immergersi in una vasca ghiacciata per accelerare il processo di rigenerazione, alimentando la retorica del “cyborg programmato per” che ha caratterizzato parte della sua vita. Ma quel bug nel sistema predefinito, quello spunto di libero arbitrio che lo ha distinto dalle macchine e dalle intelligenze artificiali, “scriptate”, non avrebbe potuto pensarlo nessuno al di fuori del caso.
Tanto è stato goffo e “glitchato” il suo tentativo di uscir fuori dai binari di un’esistenza completa e definita, chiusa (con un inizio, uno svolgimento e una fine trionfale, ampiamente programmata), che a un certo punto anche il sistema di trascrizione dei suoi pensieri ha mostrato una falla, traducendosi in quel “Grazzie a tutti”, con due Z, che ha segnato la fine della sua esperienza alla Juventus. Persino l’ultimo atto della sua carriera internazionale, i Mondiali in Qatar, stesi come la più abusata delle sceneggiature per farlo incontrare, in finale, con Lionel Messi e porre fine una volta per tutte, e sul campo, alla loro rivalità, appare oggi viziato da un errore di programmazione: lui, a Lusail, non c’era.
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Deve essere stato bizzarro, comunque, scoprirsi umano e volontariamente orientato alla vita, tutto d’un tratto: investito della possibilità di decidere le sue sorti, nonostante i sistemi di difesa del suo software avessero già messo in piedi il “Plan B” che lo avrebbe, comunque, portato all’ennesima vittoria “di qualcosa”: se di “bug” si è trattato, e pazienza se lo è stato, alla Corte della sua carriera più interessare relativamente. Lui, dirà l’accusa, un percorso alternativo a disposizione lo ha avuto. Anzi: da qualche parte, nel multiverso, lo ha anche intrapreso, fatto suo.
Da qualche parte, sì, siamo soliti discutere di una frattura iconica con il suo passato come parte di un vissuto canonico e non alternativo, dopo aver interiorizzato l’immagine, intrisa di abitudine, di uno dei suoi tanti goal siglati con la maglia del Manchester City. Con buona pace del boss, Sir Alex.
Suo è il tap-in che all’81’ consegna il titolo ai Citizens, all’ultima giornata di Premier League, nel confronto a distanza con il Liverpool: ha superato Ilkay Gundogan a un passo dalla storia, bruciandolo sul tempo e insaccando. Poco male: gloria per uno, gloria per tutti. L’Etihad ha scordato, d’un tratto, il suo passato al Manchester United: Pep Guardiola, si nota dai filmati proiettati in aula al riesame della carriera, corre ad abbracciarlo al triplice fischio. L’invasione di campo che segue la conquista dell’ennesimo campionato del City, “alla Aguero-maniera”, restituisce a Ronaldo il senso del suo ritorno in Inghilterra. La parata per il titolo, comunque, viene rimandata a data da destinarsi.
Cristiano è l’attaccante che serviva a Guardiola per completare un pacchetto offensivo orfano del Kun, andato a Barcellona e, nella stessa parte del multiverso, tutt’ora in campo. “È un nuovo capitolo: sono felice, voglio andare avanti, fare la storia e cercare di aiutare il Manchester City a ottenere grandi risultati e a vincere trofei”. Si era già capito al momento del suo esordio contro il Leicester, alla quarta di Premier, che sarebbe andata bene: al 6’, Bernardo Silva crossa sul secondo palo. Da noi, Gabriel Jesus schianta un pallone, con la testa, tra le braccia di Peter Schmeichel: “da loro”, altrove, Cristiano Ronaldo ha appena segnato il primo goal con i Citizens.
Per quanto goffo, anche l’addio alla Juventus è finito tra le scartoffie e pratiche che, di solito, occupano questo o l’altro angolo della casa, in attesa di essere smaltite. Il gioco del Manchester City, sorprendentemente, gli calza: viene “rieducato” a un possesso palla che inizialmente lo strema. Lui sbuffa, ma impara: ha scelto lui, dopo aver compreso appieno le potenzialità dell’animo umano, di ritornare in Premier League. E, d’altra parte, ha scelto lui di essere allenato da una delle poche persone che lo superano, e di molto, in termini di metodo.
Chiede spiegazioni, Cristiano, quando viene tirato fuori dal campo dopo essere stato annullato dalla difesa del Tottenham di Antonio Conte, a fine febbraio. I tabloid ci montano un caso: c’è chi parla di un ritorno in Spagna, al Real Madrid, a fine stagione. Sul viso di Pep Guardiola, rassicurato dalle tante vittorie conquistate in carriera, spunta improvvisamente una crepa nervosa: di campioni, lo spagnolo, ne ha allenati tanti. Ma Cristiano è diverso.
Oggi (qui e ora) grazie a "The Athletic" sappiamo che tra i pensieri di Pep, a ridosso della firma di Cristiano Ronaldo con il Manchester City (da noi mai avvenuta), si è palesata la possibilità di rassegnare le dimissioni in caso di arrivo del portoghese: nel multiverso, ampio, è successo. Firma di Cristiano, dimissioni di Pep. L’Aston Villa vince all’Etihad e Steven Gerrard consegna il titolo al Liverpool. Amen.
Altrove, però, Pep e Cristiano hanno trovato un modo conveniente di andare d’accordo. Karim Benzema corre a stringergli la mano, al termine della partita del Santiago Bernabeu, mentre lo stadio gli tributa un applauso, in ricordo dei vecchi tempi. Il City ha vinto 0-2 con una rete di Riyad Mahrez e il sigillo di Ronaldo, all’87’. Bravo a fare il suo: a insaccare, da due passi, il pallone respinto dal palo dopo la serpentina di Jack Grealish.
La seconda finale di Champions League consecutiva per i Citizens coincide con la definitiva consacrazione del sistema predefinito del portoghese, che ha rimesso a posto, forzatamente, i processi scriptati di un software che, nonostante tutto, gli ha permesso di performare in un hardware diverso. Il Pallone d’Oro, a fine anno, e comunque, va a Kevin De Bruyne.
Neanche la conquista della Champions con il City riesce ad annullare la necessità di porre fine alla rivalità con Leo, però. A Parigi si sta bene e a confermarlo è Georgina Rodriguez: rispetto alla famiglia Messi, discreta, i Ronaldo occupano le pagine dei siti non strettamente sportivo-calcistici francesi. Altrove, il PSG è riuscito a formalizzare un’offerta congrua per portare Cristiano in Francia, in Ligue 1. Con la “Pulga”. E non va neanche male: il sole splende, lontano dalla pioggia di Manchester.
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Scivolato sul campo del Parc des Princes, Ronaldo maledice i fili d’erba, innervosito dal pensiero di dover compiere l’ultima grande impresa della sua carriera: i Mondiali in Qatar. Che non vincerà: sia chiaro. Non li vincerà, se non in pochi altri universi. In serie, per intenderci: dove il Marocco non ha mai eliminato la Spagna; dove il Marocco si è presentato sì ai quarti, ma senza compiere il miracolo. In uno tra questi l’Italia è riuscita a qualificarsi ai Mondiali senza, ovviamente, passare dai Playoff, perdendo ugualmente contro il Portogallo agli ottavi di finale.
In un solo caso, Cristiano è riuscito a battere Messi in finale, conquistando la Coppa del Mondo: epica nel profondo. I giornali lo incoronano a "GOAT", ringraziando entrambi. Finiranno per giocare in Arabia, ricoperti dai miliardi. Negli altri, l’Argentina non è mai arrivata all’atto conclusivo della competizione. In parecchi, Cristiano non ha ugualmente vinto. Incalza, il quartetto d’archi. L’espressione di Ronaldo si fa cupa, quando in aula mostrano l’immagine delle sue lacrime in Qatar, in semifinale contro la Francia, proprie della parte di sé che ha firmato e vinto con il City. Certe cose non puoi cambiarle, neanche in un altro universo.
Il resto, il seguito, ritorno allo Sporting Lisbona compreso, non viene mostrato. Ma Cristiano può sempre dire di aver avuto ragione, anche del trasferimento in Arabia Saudita, della suite a diciassette camere a Riyad e di un’esperienza che ha alterato per sempre la visione collettiva di un campione esemplare e privo di difetti, che ha peccato dell’ingenuità che accomuna gli esseri umani e di cui non si è mai dovuto preoccupare più di tanto, protetto dalle sue convinzioni. Il libero arbitrio.