
Sette anni racchiusi in un fotogramma. Tutto è racchiuso attorno a quel battito, necessariamente. Dita che prima si allungano all'inverosimile e poi si richiudono a pugno, in un gesto che sa tanto di esultanza liberatoria. Quel momento, Julio Cesar non può proprio dimenticarlo. Ha appena sbattuto in faccia a Leo Messi la gelida consapevolezza che la finale di Champions League, per il Barcellona, potrebbe rappresentare un traguardo irraggiungibile. E ancora non può saperlo con assoluta certezza, ma si è appena costruito con le proprie mani l'attimo più importante di una carriera di livello altissimo.
Del resto, quel 28 aprile 2010, l'Inter sembra un condannato in attesa di giudizio. Per andare in finale il Barcellona deve rimontare due reti dopo l'1-3 di San Siro, ma è avanti di un uomo e attacca senza soluzione di continuità. Se quel sinistro di Messi entrasse in rete, apriti cielo. Non è che la mezz'ora del primo tempo, il futuro più immediato riserverebbe un'altra oretta di drammatica sofferenza. Ma Julio Cesar si allunga, si allunga, si allunga. E scaccia fuori dalla porta quel sogno catalano, meritandosi pienamente il soprannome di "acchiappasogni” affibbiatogli dal telecronista Roberto Scarpini. Poi esulta come se la partita fosse già finita, perché ha già capito la portata dell'impresa che ha appena compiuto.
Lo ha ripetuto più volte, Julio Cesar: “Quella è stata la mia parata più bella e più importante della mia carriera”. Ne aveva sfornate altre, prima. Come ne sfornerà altre successivamente. Per esempio su Müller e su Robben nella dolce finale del Bernabeu. Spesso con la maglia numero 12 sulle spalle, un simbolo di umiltà per uno che faceva la riserva al Chievo e ha voluto mantenere intatto il legame con le origini. Lo manterrà fino al 2010, quando passerà all'1. Sette anni pieni, intensi, vincenti. Tra Scudetti in serie, coppe, il Triplete. Julio come Sarti, come Zenga, come Pagliuca. Immortale.
Eppure, quando l'Inter lo porta in Italia nel gennaio del 2005, in pochi possono prevedere la portata enorme di quell'operazione. Julio Cesar è una promessa del calcio brasiliano, ma gioca in un Flamengo povero e rabberciato. E ogni tanto si lascia andare a qualche follia, come quando in un disastroso clássico col Fluminense prende palla e si mette a dribblare tutti gli avversari, portandosi fin quasi all'area avversaria. Il tecnico del Fla, Evaristo de Macedo, ex vecchia gloria del Barcellona, va su tutte le furie: “Ha fatto una stupidata”. E Julio: “Lo stupido è lui, perché non è la prima volta che perdiamo di goleada”.
Però Julio Cesar ha talento. E lo dimostra pure nella Seleção, che in quegli anni inizia a convocarlo con costanza. È a Lima, in Perú, che il calcio europeo si accorge di lui. Nel 2004, un Brasile pieno di seconde linee si inerpica fino alla finale di Copa America contro l'Argentina, trionfa ai rigori e lui si esibisce in due parate decisive. Lo vedono pure in Italia, grazie alle dirette di Sportitalia. E lo vede pure l'Inter, che decide di anticipare la concorrenza portoghese grazie a un messaggero particolare: Adriano.
"Ero a fine contratto col Flamengo nel 2004 – ha raccontato Julio Cesar a DAZN – e mio padre si trovava in Portogallo per chiudere col Porto. Adriano mi chiama e mi dice: 'Guarda che il mio allenatore, Roberto Mancini, mi ha chiesto di entrare in contatto con te per venire qui da noi. Lui ti vuole, ti ha visto giocare in Copa America'. Io subito ho detto sì, ho chiamato mio papà dicendogli di fermarsi perché c'era l'interesse dell'Inter. Per fortuna è andata bene. Il mio approdo all'Inter è merito di Adriano".
Julio Cesar la vedrà solo in un secondo momento, la maglia dell'Inter. Perché nel 2004/05 gli slot per gli extracomunitari nella rosa di Mancini sono già esauriti. La soluzione è quella di un prestito-tampone al Chievo. Dove il brasiliano fa la conoscenza dell'esperto Luca Marchegiani, rispetta ossequiosamente la scelta di Beretta di puntare ancora sull'ex laziale e non alza mai la voce. Guadagnandosi la stima dell'ex collega: “Diciamola tutta: sei stato carino a non volermi rubare il posto – ha scherzato con lui Marchegiani durante un incontro a 'Sky' – Hai avuto rispetto di un vecchietto all'ultima stagione della carriera”.
Quando l'Inter lo riporta a Milano, e Mancini decide di puntare su di lui per la stagione successiva, le perplessità si sprecano. Sono tanti quelli che conoscono più la moglie, la bellissima ex Ronaldinha Susana Werner, rispetto a lui. Sono tanti che sorridono quando scoprono che il primogenito si chiama... Cauet, come Benoit. Soprattutto, sono tanti gli scandalizzati che parlano di sacrilegio. Perché a perdere il posto è Francesco Toldo, un monumento del pallone italiano. E perché Julio Cesar ha zero presenze in Serie A nel curriculum. Ma il Mancio va dritto per la propria strada, un po' come quando, una quindicina d'anni più tardi, convocherà in Nazionale un imberbe e ancora sconosciuto Nicolò Zaniolo.
GettyLa scelta si rivela ben presto essere sensata. Consegnare le chiavi della porta nerazzurra a Julio Cesar non è un azzardo, ma un lucidissimo progetto. Con lui inizia l'epopea dei quattro Scudetti di fila, più quello regalato dallo scandalo Calciopoli, e di tutto quel che fa da contorno: Coppe Italia, Supercoppe italiane. Quell'Inter, complice anche una Juventus monca e un Milan all'alba di un progressivo declino, in patria non ha rivali. E inizia a coltivare sogni di gloria sempre più concreti anche in Europa. Fino alle notti del Camp Nou e del Bernabeu. Storia nota e arcinota.
Di Julio Cesar, in quegli anni José Mourinho dice che “basta che faccia una-due parate a partita, ma quelle giuste”. È un rapporto intenso, quello col portoghese. Un mago nel caricare i propri calciatori. Nel 2010 Mou lo fa anche col proprio portiere, che non sta vivendo un momento particolarmente felice. Lo pungola, tenta di stimolarlo. E dà vita a un episodio che Julio, anni dopo, ricorderà al 'Players' Tribune' col sorriso stampato in volto:
“Nella stagione 2008/09 il mio rapporto con Mourinho era come quello di un padre e un figlio. E poi è diventato più… beh, diciamo che è diventato solo più complesso.
Quando è arrivata la primavera del 2010 eravamo in lotta per lo scudetto, la Coppa Italia e la Champions League, il triplete. Io stavo giocando male. Avevo perso fiducia in me stesso. Un giorno, mentre mi stavo riscaldando prima dell’allenamento, Mourinho si avvicinò e mi disse, con una voce fredda come il ghiaccio:
'Senti, tu sei passato da essere il migliore portiere del mondo a un portiere di Serie C'.
Questo era il suo modo di motivarmi, lo sapete? L’idea era che io mi sentissi provocato per reagire. E con quasi tutti i giocatori, funzionava bene. Quella squadra ha avuto tanto successo perché Mourinho ci trattava in un modo diretto e molto trasparente. Non importava chi eri, lui ti criticava davanti a tutti. Ma la cosa è che non tutti reagiscono bene a questo tipo di atteggiamento. E io ero uno di questi. Ho perso la fiducia. In campo, mi sentivo ancora più insicuro.
Ma un’altra cosa positiva di Mourinho era che se tu ti sentivi trattato ingiustamente, potevi andare a parlargli. E in quel periodo abbiamo avuto una lunga chiacchierata molto positiva.
Prima di quella chiacchierata, mi ero sentito triste e pesante.
Dopo quella chiacchierata, ero tornato alla normalità”.
I singoli episodi dei sette anni di Milano si sprecano. Impossibile racchiuderli tutti in poche righe. Ci sono i rigori, questo sì. Parati e non. Nel 2010, Julio Cesar ha la meglio sul connazionale Ronaldinho in un epico derby vinto sul Milan in 9 contro 11. Un paio d'anni dopo si ritrova di fronte Ibrahimovic, suo ex compagno. “Tiri forte al centro, ti conosco bene”, lo provoca. E gli fa una linguaccia. Ibra calcia invece sulla propria sinistra, segna e ribatte: “Ora vai in porta e raccogli il pallone”. Il risultato è una grassa risata da parte del brasiliano. Anche perché poi quel derby finirà 4-2 per l'Inter.
Non ride troppo, Julio Cesar, ripensando alle amarezze più grandi della propria carriera. Nel 2014 è lui a difendere i pali del Brasile che per la seconda volta nella storia ospita i Mondiali. Dopo quel trionfo in Copa America era tornato nelle retrovie, alle spalle di Dida. E aveva già vissuto un momento complicatissimo nel 2010, sbagliando contro l'Olanda e venendo additato come uno dei principali colpevoli della precoce estromissione dall'edizione sudafricana. Dopo quell'estate si era chiuso in sé stesso, aveva perso la voglia di ridere. Lo aveva aiutato Lucio a risalire dalla china. E Julio era tornato il solito Julio.
I Mondiali in casa sono una storia a sé. Il Brasile deve vincere, le alternative non esistono. La pressione è enorme. Ma in semifinale, senza l'infortunato Neymar, il castello di carte crolla in maniera devastante e impietosa. Julio Cesar è in porta e viene preso a pallate. Subisce una rete, due, tre. Alla fine sono sette. In patria sono tanti coloro che lo identificheranno solo come “o goleiro do 7-1”, il portiere del 7-1. Anche perché “la gente può dimenticarsi chi era il terzino sinistro, il trequartista. Ma il portiere? Impossibile”. Inglorioso, ingiustificato. E doloroso, dolorosissimo.
“Dopo quella partita, ho fatto una pazzia – ha raccontato al canale YouTube 'Desimpedidos' – Nessuno lo sa. Ero talmente frastornato che mi sono riunito con la mia famiglia e con lo staff tecnico del Brasile, annunciando loro che avrei lasciato il calcio”.
“È un episodio che mi ha segnato, anche se ora riesco a conviverci in maniera più serena, senza dubbio. Però ancor oggi, quando appoggio la testa sul cuscino, mi tornano in mente alcuni flash di quella partita. Inizio a pensare a cosa avrei potuto fare per evitare tutto quello, magari al modo di prendere meno reti...”.
Julio Cesar è il portiere brasiliano più bucato nella storia dei Mondiali: 18 goal al passivo. Di cui 10 tra Germania e Olanda, semifinale e finalina del 2014. Ironico per uno che qualche anno prima aveva costruito un muro d'imbattibilità lungo 492 minuti, superando il modello Claudio Taffarel. E ironico per uno che ha impresso a fuoco il proprio marchio sulla storia recente dell'Inter. Acchiappando i sogni e trasformandoli in realtà.
