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OchoaGetty Images

Guillermo Ochoa, il portiere che fa il fenomeno a ogni Mondiale

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Il 17 giugno del 2014, Guillermo “Memo” Ochoa, nuovo portiere della Salernitana, tecnicamente è un giocatore sull'orlo della disoccupazione. Il suo contratto con i corsi dell'Ajaccio scadrà un paio di settimane più tardi, il 30 dello stesso mese, e lui ha deciso di non rinnovarlo. Ma al Castelão di Fortaleza, nella seconda partita del girone A dei Mondiali, in campo c'è lui. È il portiere del Messico che tenta di opporsi ai padroni di casa del Brasile. Fortissimi, favoritissimi. Tanto che pare non esserci partita, da quant'è ampia la forbice che separa la nazionale di Luiz Felipe Scolari da quella del Piojo Herrera.

Solo che il Brasile attacca, attacca, ma non sfonda. E il merito è di quel portiere con i capelli ricci e un nastro a impedire che schizzino da tutte le parti. Dopo 25 minuti, ecco il primo prodigio: Neymar salta di testa, incorna verso la porta, ma “Memo” toglie la palla proprio dalla riga bianca. Qualcuno ha addirittura paragonato il suo miracolo alla parata del secolo di Gordon Banks su Pelé. Durante i 90 minuti, Ochoa si ripeterà più volte. Su Paulinho, presentatosi solo davanti a lui. Poi ancora su un sinistro ravvicinato di Neymar. Quindi su un colpo di testa da un metro Thiago Silva. Fanno quattro parate decisive di puro riflesso. Finisce 0-0 e il premio di migliore in campo va a lui.

“La partita più importante della mia vita – ha detto nel 2019 in un'intervista a GQ, ricordando quel pomeriggio – C'è un Memo Ochoa prima di quella gara e uno dopo. Molte persone sapevano già che cosa potevo dare, ma dopo quella serata è arrivata una sorta di riconoscimento mondiale. È finita 0-0, ma 0-0 a favore di Memo. Ci sono momenti in cui sai che se un giocatore gioca una brutta partita e segna lo stesso, poi si parlerà di lui. Ma un portiere puo fare una grande partita, prendere goal e venire crocifisso, quindi sono felice che il risultato di quella partita sia stato in gran parte attribuito a me. Immagina, un Mondiale contro il Brasile e in casa loro… Ero sui giornali di Cina ed Europa, per la prima volta ho visto il mio nome in Medio Oriente. Di quella partita si parlava in ogni angolo del mondo e la foto era la stessa: io che paravo. Lì penso che il mondo del calcio abbia saputo chi era Guillermo Ochoa”.

Tutto vero. Anche perché Ochoa è un personaggio strano, tra i più insoliti che il mondo del pallone odierno conosca: di lui, in sostanza, ci si dimentica per un quadriennio. Per poi tornare a posare i riflettori sui suoi capelli ogni volta che il Messico partecipa a un Mondiale. Ovvero sempre, perché non è che le qualificazioni CONCACAF siano questo labirinto di sorprese. Per tre volte di fila la trama è stata la stessa: Ochoa è arrivato alla competizione e tutti si sono chiesti in quale diavolo di club stesse giocando. Poi ha fatto il fenomeno, senza impedire al Tri di tornare precocemente a casa. E una volta spenti i riflettori sulla competizione, il manto dell'oblio si è posato di nuovo su di lui.

Non è accaduto tanto nel 2006, edizione in cui Ochoa ha fatto il terzo alle spalle di Oswaldo Sánchez e di Jesús Corona. E nemmeno nel 2010, quando si è visto preferire il trentasettenne “Conejo” Pérez “nonostante pensassi di essere io il numero uno”. È accaduto, questo sì, in quello strano 2014 in cui Guillermo è retrocesso con l'Ajaccio, si è presentato ai Mondiali in scadenza di contratto ed è stato uno dei migliori portieri del torneo (non il migliore in assoluto: impossibile scalzare Neuer). È accaduto pure quattro anni dopo, nel 2018, in Russia. Altra eliminazione del Messico agli ottavi, la settima di fila (!), e altre prestazioni da top del mondo del “Memo” nazionale. E non poteva mancare anche una notte da protagonista a Qatar 2022: all'esordio in Messico-Polonia si è concesso il lusso di parare un calcio di rigore a Robert Lewandowski.

Che poi, in realtà mica è vera la storia secondo cui nessun club europeo di medio-alto livello si sarebbe mai interessato a lui. Per carità. Nel 2010, ad esempio, Ochoa è arrivato a tanto così dalla firma col Fulham: ha preso un volo per Londra, è atterrato e tutto è sfumato nel nulla. Pure dall'Italia, prima di Salerno, i corteggiamenti non sono mancati. Quello del Milan, ad esempio: i rossoneri hanno pensato a lui nel 2011, ma non se n'è fatto nulla. Più concreto il tentativo del Napoli nel 2018, dopo la Russia: nada anche qui. “Colpa dello Standard Liegi, che non mi ha lasciato andare”, ha precisato il messicano. Al suo posto è arrivato David Ospina, e non è che la sliding door sia stata così svantaggiosa per i partenopei.

E poi c'è la storia del PSG, estate 2011. “Era tutto fatto, il mio agente mi aveva assicurato di aver chiuso l'affare”, ha raccontato Ochoa a 'France Football'. A far saltare tutto è stato un caso nazionale: dopo una partita di Gold Cup cinque calciatori del Messico, Guillermo compreso, sono stati trovati positivi al clenbuterolo. Doping, in pratica. In seguito tutti sono stati riabilitati dalla Federazione locale, capace di dimostrare che la sostanza era presente in un piatto di carne avariata. Ma intanto tutte le pretendenti sono fuggite a gambe levate.

Per cui, alla fine, guardi il suo curriculum e spalanchi gli occhi dalla sorpresa. Ochoa si prepara a giocare in Serie A, e prima lo ha fatto in Ligue 1 e in Liga. Ma nell'Ajaccio del presidente Orsini, “l'unico leale con me fino in fondo dopo il caso doping”, e nel Malaga. La Corsica non sapeva nemmeno cosa fosse e dove si trovasse, però c'è rimasto tre anni e nell'agosto del 2013 ha sfornato l'altra partita della vita, contro il PSG al Parco dei Principi: Ibrahimovic e compagni gli hanno sparato 17 tiri in porta e per 17 volte si sono visti rimbalzare da quella specie di muro di gomma. Solo Cavani, a quattro minuti dalla fine, ha evitato un'incredibile sconfitta (1-1).

Memo Ochoa Ajaccio

A Malaga – che già non era più il Malaga di van Nistelrooy, Demichelis, Cazorla, Joaquin, Isco e Júlio Baptista, quello che per la prima volta giocava i gironi di Champions League pareggiando sul campo del Milan – non ha mai giocato, invece. “Perché ai messicani non si dà il valore che meriterebbero”, si è giustificato. Ma soprattutto perché il titolare era Kameni, altro nazionale (del Camerun). E così, dopo un prestito surreale al Granada nel 2016/17 (è stato il portiere con più parate in Liga, ma anche il recordman storico di reti subite, 80 in 37 partite), l'unico trofeo europeo se l'è messo in bacheca con lo Standard Liegi: la coppa del Belgio del 2018. Ma senza mai scendere in campo, neppure nella finale contro il Genk.

“Penso che la storia si possa riassumere così: avevo riempito tutte le scartoffie per ottenere il passaporto da comunitario in Spagna, dopo averci giocato tre anni, ma c'è stata una complicazione del sistema a livello nazionale che ha fermato e rallentato il processo. E questo ha allungato ulteriormente i tempi. In quel momento il passaporto è diventato elettronico e io sono stato penalizzato. È stata dura non poterlo avere”.

E così, Ochoa si è “accontentato” di diventare qualcuno in patria. All'América di Città del Messico, in particolare. Dove aveva esordito come... attaccante, prima di arretrare (parecchio) il proprio raggio d'azione. Ci ha giocato nelle giovanili, ha esordito in prima squadra, vi è rimasto per otto anni, fino al 2011. Poi, una volta esauritasi la dolce-amara esperienza europea, è tornato nel 2019 e ora si prepara a lasciarla di nuovo a fine dicembre. Per “Memo” è una sorta di seconda pelle. Una volta ha confessato in un'intervista tutto il proprio spaesamento nell'indossare una maglia diversa da quella delle Aquile, ovvero la camiseta della nazionale messicana, “perché ero abituato a vedere i miei compagni vestiti di giallo e azzurro, mentre in quell'occasione erano verdi”.

Difficile che uno così conquisti i favori del grande pubblico. Eppure. Eppure nel 2007, pochi mesi dopo aver perso dolorosamente una finale di Copa Sudamericana contro l'Arsenal del Papu Gómez e di José Luís Calderón, Ochoa viene inserito tra i primi trenta candidati al Pallone d'Oro. È il primo messicano di sempre a riuscirci. Così come, quando l'Ajaccio lo porterà in Francia quattro anni più tardi, diventerà il primo portiere messicano della storia a giocare in Europa.

Il contorno, poi, è tutto un aneddoto. A partire dalla storia delle sei dita. Dopo la super prestazione contro il Brasile del 2014, sui social impazza una foto in cui Ochoa è in posa con la mano destra aperta e in bella vista. Dopo il mignolo c'è un dito in più. Qualcuno ci casca, ma è un fake. Divertente, ma pur sempre un fake. Anche se rende piuttosto bene l'idea della dimensione del personaggio.

E poi ci sono i giochi con la numerologia. Ochoa ha cominciato col classico 1 sulle spalle, poi ha deciso di dare un bel taglio alla banalità. E, in barba a ogni superstizione, si è affidato al 13. Omaggio al proprio esordio in una fase finale dei Mondiali: Messico-Camerun del 2014 si è giocata di venerdì 13, con calcio d'inizio alle 13 brasiliane. All'América, per un anno, ha optato per uno stravagante 6. L'8 della seconda stagione allo Standard Liegi, che in spagnolo si traduce ocho, richiama invece il suo cognome.

Gamer ossessivo, tanto che nel 2021 è diventato socio di un'impresa di eSports americana, ogni tanto Ochoa è anche un provocatore. Qualche tempo fa ha detto della nazionale statunitense: “Il Messico rappresenta lo specchio in cui loro vogliono vedersi”. Idolo dell'América, nonostante l'addio ormai prossimo per venire a giocare in Italia, forse non ha raggiunto le vette inarrivabili di Jorge Campos, il leggendario portiere-pagliaccio dalle divise sgargianti. Ma non siamo neppure troppo lontani.

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