Jorge Bernardo Griffa ha dedicato la sua intera vita al calcio. Nato nel 1935 non lontano da Santa Fe, si è formato nel Newell's Old Boys, prima di diventare, negli anni ’60, uno dei primi difensori argentini ad avere fortuna in Europa, oltre che una leggenda dell’Atletico Madrid.
E’ stato proprio nel corso della sua lunga carriera, che l’ha portato tra l’altro a vincere una Copa America con la Nazionale ‘Albiceleste’, che ha avuto la possibilità di allenare e sviluppare una dote speciale: quella del saper riconoscere il talento.
Che si tratti di un vero campo da calcio, di un pezzo di terra polveroso o di una striscia di asfalto, la cosa per Griffa non ha mai fatto differenza. E’ sempre stato convinto del fatto che sia possibile individuare ovunque un ragazzo con delle caratteristiche speciali e questo l’ha portato ad iniziare un lungo viaggio su e giù per il suo Paese: un viaggio che di fatto ha cambiato il volto del calcio argentino stesso.
“Ho sacrificato la mia vita, quella dei miei figli, di mia moglie e tutto il resto - ha ammesso a ‘ESPN’ - Il lavoro svolto è stato immenso”.
Jorge Valdano, Mauricio Pochettino, Maxi Rodriguez, Gerardo Martino, Carlos Tevez, Fernando Gago, Nicolas Burdisso, Walter Samuel, Ever Banega e Gabriel Heinze sono stati tutti giocatori che in epoche e modi diversi hanno vestito la maglia dell’Argentina ed in comune hanno anche un’altra cosa: sono tutti stati scoperti da Griffa.
Tuttavia, tra le tante intuizioni di colui che può essere definito uno dei più grandi talent scout dell’intera storia del calcio mondiale, ce ne è una in particolare che resta la più importante in assoluto: Gabriel Omar Batistuta.
A renderla diversa da tutte le altre, sono almeno un paio di fattori: il primo è che Batistuta è diventato uno dei più forti centravanti di sempre e il secondo è che lo stesso Batistuta non aveva la minima intenzione di diventare un calciatore.
Se non fosse stato per Jorge Griffa ‘Batigol’ non sarebbe mai esistito. Centinaia di goal sarebbero stati spazzati via da un diverso corso delle cose, Firenze non si sarebbe mai innamorata del ‘Re Leone’ e magari la Roma sarebbe ancora a caccia del suo terzo Scudetto.
“Vedo questo ragazzone che ha una potenza assurda -ha svelato Griffa a ‘Maestros del Fútbol’ - E’ fortissimo anche di testa, è uno che spacca il pallone, ma che nemmeno sa dove andare. Non ha nulla del calciatore, ma sento che in lui c’è un qualcosa di speciale. Ne parlo con Bielsa e gli dico che quel ragazzo ha da qualche parte tutto ciò che serve per giocare”.
Quando Griffa vede per la prima volta Batistuta in azione, non può sapere che per quel ragazzo il calcio non è nemmeno lontanamente una priorità. Ci si è avvicinato frequentando il ‘Platense’, un centro sportivo della sua Reconquista, e lo ha fatto semplicemente per non allontanarsi dal suo gruppo di amici. Si allena solo quando gli va e d’altronde non potrebbe essere altrimenti, visto che il suo sport preferito è la pallavolo.
Il giovane Gabriel Omar ha un piano già ben definito: terminare gli studi, lavorare e trascorrere il suo tempo con Irina, ovvero colei che già sente che sarà la donna della sua vita.
Quando un emissario di Griffa bussa alla porta di casa Batistuta per chiedere la disponibilità di portare il ragazzo a Rosario per farlo allenare con il Newell's Old Boys, la risposta è fredda.
“Non ero felice di andare al Newell’s - ha raccontato Batistuta a ‘Ligas Mayores’ - Volevo studiare e inoltre qualcuno mi aveva messo in testa che la carriera da calciatore era pericolosa. Ricordo che una volta il club ci diede venti giorni di ferie, ma io rimasi a Reconquista un mese. Fu Griffa a venirmi a prendere, mi disse che sarei arrivato in Prima Divisione. Io ero innamorato della ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie, andarmene fu più che altro una costrizione”.
A Batistuta la vita da calciatore non piace e sarà suo padre Osmar, che pure avrebbe preferito qualcosa di diverso per il figlio, che gli spiegherà che ha un accordo per un anno con il suo club e che i patti, di qualsiasi tipo essi siano, vanno rispettati. Gabriel, che era ad un passo dall’arrendersi, decide di continuare a provarci, ma sarà qualcos’altro che lo convincerà del fatto che forse il calcio può diventare una parte importante della sua vita.
“Quando ho firmato il primo contratto ho pensato che si poteva realmente vivere di calcio. Lì la mia mentalità è cambiata totalmente ed ho iniziato ad amare profondamente questo sport”.
Gli inizi non sono semplici. Batistuta dorme in una stanza dello stadio, fatica a tenere il peso forma, tanto che si guadagna il soprannome di ‘Gordo’ e soprattutto inizialmente non rientra nei piani di Bielsa. Il Newell’s sta costruendo una squadra con la quale puntare al titolo, ma per lui non c’è posto, tanto che viene prestato al Deportivo Italiano.
“Il sogno di Griffa e di Bielsa era quello di creare una squadra da titolo ed io non ne facevo parte. Ero troppo orgoglioso e decisi di andarmene. Mi sentivo di aver tradito chi mi aveva scoperto e gli stessi compagni con i quali avevamo sognato di vincere insieme il titolo. Le cose sono però poi andate bene per me”.
Batistuta passa al River Plate, dove incrocia Daniel Passarella che dopo pochi mesi lo mette fuori rosa, e nel 1990 si trasferisce agli acerrimi rivali del Boca Juniors, dove trova in Oscar Tabarez il tecnico che rappresenterà un bivio per la sua carriera. Il ‘Bati’ infatti, fino a quel momento era stato utilizzato soprattutto da esterno d’attacco, e questo al fine di consentirgli di sfruttare al meglio la sua straordinaria potenza, ma il ‘Maestro’ intravede in lui il prototipo del centravanti perfetto. I fatti gli daranno ragione.
A soli quattro anni dal suo vero approdo nel mondo del calcio, Batistuta si riscopre centravanti titolare di una delle squadre più importanti del mondo, protagonista assoluto di una Copa America che vincerà con la sua Argentina da capocannoniere e pronto per il trasferimento in Europa.
Un’ascesa inarrestabile figlia di un talento che nemmeno sapeva di avere, ma che Griffa aveva scovato in qualche angolo remoto del suo calcio.
GettyLeggenda vuole che a volerlo a Firenze sia stato Vittorio Cecchi Gori che, seguendo le partite del Boca per vedere Diego Latorre, giocatore al quale la Fiorentina voleva far raccogliere l’eredità di Baggio, si era accorto che in realtà l’argentino da prendere era un altro.
Quando Batistuta arriva in Italia si riscopre quasi spaesato. Firenze gli sembra ‘vecchia’ e molto diversa da Rosario o Buenos Aires. In poche parole non gli piace. Quello che non può immaginare è che in quella città ci resterà per nove anni, che si innamorerà di quei luoghi come mai aveva fatto prima e che per la gente del posto diventerà una sorta di re. Il ‘Re Leone’ appunto.
L’inizio è comunque in salita e anche la fama di bomber prolifico che lo ha preceduto può aiutarlo poco. Agli occhi più esperti non sfugge il fatto che al ragazzo argentino manchi qualcosa dal punto di vista tecnico. Quando corre sembra un locomotiva e quando salta sembra prendere l’ascensore, ma in un certo senso si avverte il fatto che abbia alle spalle una storia calcistica molto breve.
“Quando Batistuta è arrivato a Firenze aveva tanto da migliorare dal punto di vista tecnico - ha ricordato l’ex difensore viola, Alberto Malusci, ai microfoni di ‘Lady Radio’ - Aveva però una voglia incredibile di migliorare e dopo gli allenamenti si fermava sempre al campo per lavorare di più. Aveva davanti Branca e Borgonovo e tra attaccanti non ci si aiuta. Ricordo però che in un Foggia-Fiorentina segnò una tripletta e Borgonovo a fine partita gli strinse la mano. Quel gesto lo consacrò”.
La determinazione e la voglia di migliorare saranno due caratteristiche che accompagneranno Batistuta nel corso della sua carriera, tanto che si può tranquillamente dire che raramente, nella storia della Serie A, si è visto un calciatore crescere esponenzialmente come ha fatto lui.
Firenze lo adotta e lui ricambia l’affetto segnando tanto. Nella sua prima stagione in Italia, quella 1991-1992, va subito in doppia cifra marcando 13 reti in 27 gare di campionato, poi salirà a 16 prima di vivere una delle sue più grandi delusioni di sempre: la retrocessione in B.
Sarà dopo aver riportato la Fiorentina in Serie A che si consacrerà come uno dei migliori al mondo nel suo ruolo, ma c’è un problema: per quanto si dia da fare e per quanto la società provi a rafforzare la squadra, lottare per lo Scudetto è un’utopia.
Questo almeno fino alla stagione 1998-1999, quando a Trapattoni viene realmente consegnata una compagine da titolo. Firenze sogna ed il gruppo gigliato si laurea campione d’inverno ma, proprio quando il discorso sembra farsi in discesa, Batistuta, che fin lì ha segnato 17 goal in 17 partite, si fa male. E’ l’infortunio che pone fine alla cavalcata: è il destino che ha deciso per lui e per i suoi compagni.
GettyE’ al termine di quell’annata che inizia a sentire che la sua avventura in viola si sta avvicinando al capolinea. Vuole andare via, ma resta un altro anno, il tempo di segnare a Wembley uno dei goal più belli della storia della Champions League e di marcare, il 14 maggio del 2000 contro il Venezia, una tripletta che lo porta ad essere, con 152 goal, il giocatore più prolifico di sempre con la Fiorentina in Serie A.
Nel momento stesso in cui spinge l’ultimo pallone in rete con il giglio sul petto, si lascia alle spalle Hamrin e capisce che un capitolo si è chiuso. Non ha nemmeno la forza di esultare, ma si lascia cadere a terra e scoppia in lacrime. Ha già deciso di andare via: deve farlo per coronare il suo sogno di vincere lo Scudetto.
“L’80% della città mi ha rimproverato - ha spiegato a ‘Ligas Mayores’ - l’altro 20% ha capito che avevo dato tutto e che volevo vincere. Decisi di andare alla Roma, una squadra che non vinceva da anni, ma che aveva buoni giocatori. C’erano Totti, Candela, Montella, mancava il 9. Andai lì e diventammo campioni”.
Batistuta approda alla Roma nell’estate del 2000 a fronte di un esborso da 70 miliardi di lire. Mai un giocatore che aveva superato la soglia dei trent’anni era costato così tanto. La società ha deciso di fare uno sforzo enorme, ma in casa giallorossa tutti sanno che nessuno può fare la differenza in Serie A più di lui.
A disposizione di Capello viene messo non solo un bomber straordinario, ma anche un leader vero, uno che porta in dote al gruppo un’enorme dose di personalità.
“Avevamo costruito una squadra da titolo - ha spiegato Fabio Capello a ‘Centro Suono Sport’ - Ci mancava solo un giocatore e lo prendemmo: era Batistuta”.
‘Batigol’ rinuncia al suo numero 9, che resta sulle spalle di Montella, ma la cosa poco importa. Segna sei goal nelle prime cinque partite di campionato e travolge tutto ciò che gli capita a tiro. E’ inarrestabile e non lo ferma nemmeno la sua Fiorentina, che anzi il 26 novembre punisce con un missile dalla lunga distanza. E’ una rete che vale tantissimo, ma evidentemente negli istanti che impiega il pallone ad arrivare fino alla porta avversaria e poi ad insaccarsi alle spalle di Toldo, gli passa in mente qualcosa. Mentre tutto l’Olimpico esulta, lui scoppia in lacrime in mezzo al campo, ma è anche con emozioni di questo tipo che bisogna fare i conti se si vuole raggiungere il proprio obiettivo.
“Non c’era nulla di strano - ha spiegato durante la presentazione di 'El numero nueve’, il film-documentario sulla sua carriera - Ero pagato dalla Roma, ero un impiegato e da impiegato dovevo rispondere al mio datore di lavoro”.
GettyQuella nella quale gioca è una Roma fortissima in tutti i reparti, una macchina da guerra costruita per vincere e, quando il 17 giugno 2001 vengono messi in cascina contro il Parma i punti che vogliono dire Scudetto, non può non esserci anche il suo nome nel tabellino dei marcatori. Con lui, in uno dei giorni più belli dell’intera storia giallorossa, a segnare saranno anche Totti e Montella.
“Ho trascorso tutta la mia carriera a cercare di far vincere la Fiorentina - ha raccontato ai media ufficiali della Serie A - Ho dato tutto, ma non ci sono riuscito e quindi ho deciso di andare alla Roma. In giallorosso ho vinto lo Scudetto e penso di essermelo meritato. Sì, ho fatto tanti sacrifici, meritavo di diventare campione almeno una volta”.
Batistuta resterà alla Roma un altro anno e mezzo prima di trasferirsi all’Inter, ma quello che approderà a Milano sarà solo l’ombra del campione che aveva messo a ferro e fuoco le difese avversarie negli anni precedenti. Il fisico non lo accompagna più come una volta e le sue caviglie sono troppo malandate per consentirgli di scendere in campo con regolarità.
All’ombra del Duomo segnerà solo due reti in dodici partite, troppo poco per uno come lui, ma abbastanza per capire che ormai il meglio è già stato dato.
“A Roma sarei rimasto a lungo, ma accettai la proposta dell’Inter - spiegherà a ‘Sette’ - Fu Massimo Moratti in persona a convincermi: tra di noi c’era molta stima. Mi dispiace di non avergli dato di più”.
Quando Gabriel Omar Batistuta si ritirerà nel 2005 dopo due annate vissute in Qatar, lo farà dopo essersi ampiamente meritato un posto tra i più forti centravanti di sempre e tra le grandi leggende della Serie A e del calcio argentino.
Non male per uno che nemmeno voleva farlo il calciatore.
