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Caio, il "dottorino" pupillo di Moratti che fece cilecca all'Inter e al Napoli

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Il nome che si portava sulle spalle era già di per sé un piccolo fardello. Caio, simbolo dell'anonimato. Come Tizio e come Sempronio. Solo che lui, Caio, quell'anonimato ha disperatamente tentato di toglierselo di dosso: ha giocato in Serie A, si è costruito una reputazione, poi quella reputazione gli è lentamente scivolata dalle dita. L'Inter il miraggio, il Napoli – quello di metà anni 90, post Maradona e pre rinascita dalle ceneri – un passo indietro, fino alla mesta fine, fino al nulla.

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Caio Ribeiro Decoussau – Caio, appunto – da un certo punto di vista non è mai stato un giocatore come tanti altri. Quando si pensa agli acquisti sgangherati di un certo tipo di Inter, quella avvolta nelle spire passionali di papà Massimo Moratti, si finisce spesso per inserire anche lui nell'argomento. Ma te lo ricordi Caio? Che poi ricordarselo davvero è difficile, in realtà. Perché a Milano ha ballato solo una stagione, collezionando meno presenze in Serie A (sei) rispetto ai miliardi spesi per farlo uscire dal Brasile e da San Paolo (sette e mezzo). Tu chiamali, se vuoi, flop colossali. Lo è stato davvero.

Eppure Caio, quando l'Inter lo prende nel mercato di riparazione del novembre 1995, ha davvero il potenziale del campione. Del fuoriclasse magari no, ma del campione sì. Di lui, pure nell'epoca pre social, si sa già parecchio. Si sa soprattutto che quel gioiellino del San Paolo arriva da un Mondiale Under 20 strepitoso: non è stato il capocannoniere del torneo (l'onore è toccato allo spagnolo Joseba Etxeberria, poi bandiera dell'Athletic Bilbao), ma il miglior giocatore sì. Ha segnato cinque reti, ha trascinato quasi da solo il Brasile in finale, decisivo sia nel quarto contro il Giappone che nella semifinale contro la Spagna. Alla fine si è dovuto dolorosamente inchinare all'Argentina, campione di quell'edizione: dettagli.

Di lui si sa anche altro. Ad esempio che è amico di Roberto Carlos, come candidamente confessato nella conferenza di presentazione. E che per lui stravede Massimo Moratti in persona, tanto da dichiarare: “L'ho voluto io”. Lo chiamano “doutorinho”, dottorino, perché arriva vestito in giacca e cravatta ma anche perché ha tutta l'intenzione, in barba a tutti i pregiudizi possibili sui calciatori strapagati, di conciliare pallone e studio: appena sistematosi a Milano si iscrive alla Bocconi, Facoltà di Economia e Commercio.

“Posso giocare come prima o seconda punta. Sono un giocatore di movimento”, si presenta Caio. Il problema è che Roy Hodgson non pare scaldarsi molto per il suo acquisto: “Non lo conosco, l'ho visto giocare solo in televisione”. Qualche mese prima, l'inglese ha fatto lo stesso discorso anche per i sudamericani presi dall'Inter durante il mercato estivo: Javier Zanetti, Roberto Carlos e Sebastian Rambert. “Io la domenica lavoro in panchina, mica ho tempo di girare per visionare i giocatori”, è la giustificazione. Ci sta.

Caio veste per la prima volta la maglia dell'Inter in partite ufficiali il 29 novembre 1995. A San Siro si giocano i quarti di finale d'andata di Coppa Italia contro la Lazio di Zdenek Zeman. Ne esce un 1-1 poco soddisfacente, perché i biancocelesti riescono ad agguantare il pareggio nel finale pur ridotti in 10 uomini. Il brasiliano rimane in campo un'ottantina di minuti, tra discrete giocate e un comprensibile bisogno d'adattamento. Né promosso, né bocciato: rimandato. Al campionato, intanto, e all'esordio di qualche giorno più tardi contro la Cremonese. E poi al ritorno dell'Olimpico, in programma il 13 dicembre.

È lì che Caio vive la serata più elettrizzante della propria avventura milanese. Collettivamente, s'intende. Perché l'Inter espugna Roma con una rete segnata nel finale da Nicola Berti ed approda alle semifinali. Individualmente, invece, non ci siamo ancora: il pupillo di Moratti vaga per l'attacco assieme a Ganz, costringe al giallo Chamot, ma confeziona una prestazione insufficiente.

Si rifarà, pensano in tanti. Il tempo c'è. Ed è vero. Il problema è che Hodgson non è troppo d'accordo. Nell'undici di partenza dell'Inter, lo spazio per Caio proprio non esiste. L'ex San Paolo, da lì in poi, scenderà in campo altre cinque volte fino a fine campionato. Una sola dall'inizio: il 21 aprile 1995, 1-2 interno contro la Juventus. È un mezzo disastro che conferma le perplessità di chi proprio non ha capito la scelta del tecnico di lanciarlo dal primo minuto in una partita così importante. 'La Stampa' parla di possibili pressioni di Moratti, “che avendo speso 7 miliardi e mezzo per Caio su indicazione di uno dei suoi numerosi consiglieri vorrebbe anche capire se gli hanno rifilato un bidone. Ora ha qualche elemento in più per valutare il «pacco»”.

“Nomen omen – scrive poi il quotidiano nella pagella di Caio, a cui rifila un sonoro 4 – sembra un Tizio qualunque sbattuto nell'attacco dell'Inter senza che sappia cosa fare”.

All'inizio di giugno, a mercato appena aperto, è già addio. L'Inter prende Massimo Tarantino dal Napoli e infila Caio nell'operazione. Dirà il brasiliano che è stato lui a chiedere di lasciare Milano. In ogni caso è solo un prestito, ma al contempo rappresenta una stroncatura potente e inappellabile. Anche perché, nel frattempo, il fenomenino del Brasile è stato dolorosamente escluso dai convocati per le Olimpiadi di Atlanta, in programma quella stessa estate.

“Giocai il torneo preolimpico, che vincemmo battendo l'Argentina, ma l'Inter non voleva liberarmi per le amichevoli che precedevano le Olimpiadi – ha detto qualche anno fa al canale YouTube 'Que Jogada!' – Non l'ho mai raccontato pubblicamente, ma è questo il motivo per cui chiesi di andare via. Quell'edizione era la prima con tre fuori quota: noi avevamo Rivaldo, Bebeto e Aldair. Rivaldo e Bebeto giocavano nel mio ruolo. Pregai l'Inter, dissi loro che per me era importante, ma non mi lasciarono andare. A quel punto pretesi di andarmene ed è lì che apparve il Napoli”.

Già, il Napoli. Durante quella chiacchierata su YouTube, Caio indossa una maglietta d'allenamento con il logo del club azzurro. E a un certo punto si lascia andare a un convinto “forza Napoli” in italiano. Però nemmeno la sua avventura in Campania gli ha lasciato troppi ricordi positivi dentro il campo. Un'altra stagione, altri spezzoni di partita, un posto da titolare che non arriva praticamente mai nemmeno con Gigi Simoni. Quando si presenta, confessa di voler ripercorrere le orme di Careca, “il mio idolo”. Ma dopo poche settimane pare che l'Inter debba riprenderselo in corsa e girarlo in Francia, sempre in prestito. A un certo punto Caio sbotta: “I miei connazionali mi chiedono perché stia giocando così poco: non so cosa rispondergli”.

La serata che tutti ricordano, la più importante del biennio italiano di Caio, arriva il 27 novembre 1996. Di fronte c'è la Lazio, di nuovo. Sempre in Coppa Italia, sempre nei quarti di finale. Il Napoli ha vinto 1-0 al San Paolo e deve difendere il vantaggio minimo all'Olimpico. Con Caio in attacco, finalmente titolare al posto dell'influenzato Caccia. Pare l'ennesima serata stregata: dopo il vantaggio di Gigi Casiraghi, il brasiliano si divora il pareggio con la porta spalancata. Ma poco prima della mezz'ora è lui, di testa, a timbrare la rete che vale l'1-1 e il conseguente passaggio del turno.

In semifinale c'è l'Inter, ed è un'altra doppia sfida tesissima. Per il Napoli e pure per lui, il cui cartellino è ancora di proprietà dei nerazzurri. Finisce 1-1 sia a San Siro che al San Paolo. In entrambi i casi, Caio parte dalla panchina ed entra a partita in corso. Ormai c'è abituato, ma non si perde d'animo. Nella gara di ritorno non segna, anche se l'immenso Bruno Pizzul si confonde urlando più volte "Caio" dopo l'1-1 dell'altro brasiliano Beto. Ma quando la sfida finisce ai calci di rigore, non si fa problemi a mettersi a disposizione di Simoni per batterne uno.

“Una delle più grandi emozioni della mia vita – ha raccontato nel 2011 a 'Globoesporte' – All'Inter ero abituato a tirare i rigori con Pagliuca in allenamento, per cui Gianluca venne a provocarmi nel momento in cui sistemai il pallone sul dischetto: “Lo so dove calcerai, te lo paro”. C'erano ottantamila persone, lo stadio era pieno. La responsabilità era tutta sulle mie spalle. Così chiusi gli occhi e sparai una botta sotto la traversa. La palla entrò, vincemmo quella partita e andammo in finale”.

Quei due lampi isolati non bastano per la riconferma. Né da parte del Napoli, né tantomeno dell'Inter. Caio non gioca le due finali di Coppa Italia contro il Vicenza, alla fine della stagione torna a Milano, ma immediatamente si ritrova faccia a faccia con la realtà: la sua avventura in Italia è già finita. Nemmeno Moratti crede più in lui. E quando il Santos si fa avanti lo cede in cambio di quattro miliardi, tre e mezzo in meno rispetto a quanti ne ha spesi un paio d'anni prima.

Caio non tornerà più nella grande Europa. Si dividerà tra il Santos, il Flamengo, il Fluminense, il Grêmio, il Botafogo. Con una breve parentesi in Germania, ma per giocare con il piccolo Oberhausen. Diventerà un opinionista per la televisione brasiliana, a volte apprezzato e a volte meno. A ottobre 2021 ha annunciato di avere vinto la battaglia contro un cancro. Ogni volta che gli chiedono di Napoli, risponde in un italiano pressoché perfetto e gli si illuminano gli occhi. L'Inter? No, con l'Inter il discorso non regge. Ed è un sentimento che a Milano ricambiano.

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