Per capire chi sia davvero e cosa rappresenti José Roberto da Silva Júnior, per tutti Zé Roberto, 48 anni oggi, basta sbirciare uno dei suoi innumerevoli post Instagram: immagini in cui puntualmente mette in mostra un fisico da paura, muscoli perennemente tesi e addominali scolpiti nella roccia a far da contrasto con le note treccine. Eppure l'ex calciatore di Bayer Leverkusen, Bayern e tante altre sta per varcare la soglia della cinquantina. Eppure dalla fine del 2017 non gioca più. Oggi fa l'influencer del fitness sui social. Ma fisicamente non è cambiato di una virgola rispetto a quando correva dietro a un pallone da calcio, in Brasile e pure in Europa.
Dalla Portuguesa al Palmeiras, dalla metà degli anni novanta ai nostri tempi, passando per un pizzico di Real Madrid, Q.B. (anzi no), e tanta Germania. Una carriera infinita, la leggenda dell'highlander del pallone. Con un record ancora oggi imbattuto: nel maggio del 2017, con la maglia del Palmeiras, è andato a segno in una gara di Copa Libertadores contro gli argentini dell'Atletico Tucuman all'età di 42 anni e 322 giorni, il più anziano di sempre a riuscirci, stracciando il precedente primato stabilito quasi un ventennio prima dall'uruguaiano Oscar Aguirregaray (41 anni e 189 giorni). Per la cronaca: pochi mesi prima Zé Roberto aveva conquistato anche il Brasileirão. “Non avrei mai immaginato che la mia carriera potesse raggiungere simili livelli”, diceva, senza nascondere un guizzo emotivo, dopo il 90'.
Zé Roberto è diventato l'uomo che non deve smettere mai, anche se alla fine si è davvero convinto a farlo. Ma in passato è stato tanto altro. Agli albori della carriera, quando ha appena 21 anni, Zé si mette in mostra da terzino sinistro, ruolo che progressivamente abbandonerà nel corso degli anni, con la Portuguesa, club che oggi naviga tristemente nei bassifondi del futebol brasiliano. Nel 1996 la porta alla finale del campionato nazionale, poi persa contro il Gremio solo per il miglior piazzamento degli avversari nella stagione regolare. La conduce per mano nonostante la giovane età. E alla fine di quella stagione viene premiato miglior terzino del torneo. Contro il Vasco da Gama realizza il suo goal più bello: partenza dalla propria metà campo, un paio di avversari saltati, un sinistro sparato dritto sotto l'incrocio. Da favola.
Giusto per farsi un'idea di cos'abbia lasciato al vecchio Canindé: una ventina d'anni più tardi, quando Zé Roberto annuncia il suo addio al Palmeiras e al calcio, i tifosi della Portuguesa si mobilitano per fargli cambiare idea e indurlo a chiudere il suo ciclo là dove tutto è iniziato. Scaldati anche dalle parole del grande ex, che ha sempre considerato la Lusa “il mio club del cuore”. Lui ci pensa, piange pubblicamente in conferenza stampa al pensiero di cotanto affetto, ma declina cortesemente per entrare nello staff tecnico del Verdão assieme al mentore Vanderlei Luxemburgo, ruolo che abbandonerà dopo appena 12 mesi.
In quel momento, Zé Roberto sente di non aver più nulla da dimostrare. Anche perché è già entrato da tempo, e abbondantemente, nella storia del calcio. Eppure, quando nel 1997 lo porta in Spagna anticipando una folta concorrenza che comprende anche Bayer Leverkusen, Lazio e Parma, il Real Madrid smette ben presto di credere in lui. Il nuovo arrivato è la riserva del connazionale Roberto Carlos, proprio come nella Seleção, e gioca pochissimo. Formalmente c'è anche la sua firma sulla Champions League di Amsterdam. Formalmente, però. Perché Zé scende in campo solo nella fase a gruppi, segna al Rosenborg, poi a gennaio fa le valigie e torna in Brasile, al Flamengo.
Getty ImagesSi rifarà qualche anno più tardi al Bayern, tra un trofeo e l'altro (non la Champions, però). Un'esperienza lunga, proficua, vincente, che gli permette di lasciarsi alle spalle l'amarezza più grande di tutte: c'è anche lui tra i protagonisti in negativo del leggendario Neverkusen, il Bayer Leverkusen del 2002 che, in poco più di due settimane, si vede scivolare dalle dita Bundesliga, Coppa di Germania e Champions League. Il brasiliano gioca sulla fascia, qualche metro più avanti rispetto agli esordi. E anche lui, tra aprile e maggio di quell'anno, vive il proprio psicodramma personale. Il 27 aprile piange a Unterhaching assieme ai suoi compagni, lasciando il Meisterschale al Borussia Dortmund. Il 30, appena tre giorni più tardi, esulta per l'approdo alla finale di Glasgow. Alla quale, però, non parteciperà: era diffidato, si è fatto ammonire e si guarderà la prodezza impossibile di Zinedine Zidane dalla tribuna come un tifoso qualunque. La delusione più grande, proprio contro chi non ha creduto in lui.
“Mi sarebbe piaciuto moltissimo essere in campo, anche e soprattutto perché l'avversario è il Real Madrid – diceva nei giorni precedenti la finale – La mia esperienza in Spagna è stata molto breve. Non ho avuto la chance di mostrare le mie qualità”.
Già, il Real. Zé Roberto, anni dopo, dichiarerà che “giocarci era il mio più grande sogno, anche perché all'epoca il campionato spagnolo era l'unico visibile in chiaro in Brasile”. Però, quando ci arriva, è un'avventura troppo complicata da affrontare per chi non ha ancora messo fuori il naso dal proprio paese:
“Quando sono entrato per la prima volta nello spogliatoio ero vestito normalmente, in maglietta e pantaloncini. I miei compagni, tutti in giacca e cravatta. Roberto Carlos mi disse che lì la mentalità era quella. Poi mi diede una carta di credito, dicendomi: 'Vai in quel negozio e comprati da vestire'. Il giorno dopo tornai vestito elegantemente: gli altri cominciarono a guardarmi in maniera diversa”.
E così, il grande sogno chiamato Real Madrid dura pochissimo. Sei mesi, non di più. Anche e soprattutto perché “ci ho messo molto ad ambientarmi, non è stato facile”. Il ritorno in Brasile, al Flamengo, suona come una bocciatura. La chiamata del Bayer Leverkusen, che già avrebbe voluto Zé Roberto un anno prima, è un secondo treno che ferma nello stesso posto e allo stesso orario. E il brasiliano, nell'estate del 1998, poco prima di partecipare alla fase finale dei Mondiali francesi con la Seleção, questa volta decide di salirci. Non se ne pentirà, nonostante il triplo insuccesso rimasto nella leggenda ancor oggi.
E poi, dal Bayer al Bayern. Aggiungete una lettera e vi cambierà il mondo. Qui sì, Zé Roberto fa incetta di trofei: nei suoi primi quattro anni a Monaco manca la Bundesliga solo una volta, per dire. E che al Bayern non sia uno qualunque, lo si nota chiaramente dal fatto che i tedeschi decideranno insolitamente di riportarselo a casa nel 2007, a 33 anni, dopo averlo perso a parametro zero 12 mesi prima, strappandolo dalla cullante idea di trascorrere una pensione dorata in Brasile. Saudade canaglia. Anche perché il nostro è un esempio di disciplina oggi, figuriamoci ai tempi: ha superato la trentina, ma gioca Germania 2006 da titolare, centrocampista centrale con Emerson alle spalle del quadrato magico Ronaldinho-Kaká-Adriano-Ronaldo, e nonostante il naufragio della squadra di Carlos Alberto Parreira viene inserito dalla FIFA nella top 11 del torneo.
A proposito di Seleção: Zé Roberto gioca due edizioni dei Mondiali, nel 1998 e nel 2006. La prima volta arriva in finale, la seconda viene eliminato ai quarti dalla Francia. Non senza rimpianti, anzi. Non tanto per la disattenzione dell'amico Roberto Carlos, che si allaccia una scarpa proprio mentre Thierry Henry realizza la rete decisiva, quanto perché quella del quadrato magico è unanimemente considerata una delle versioni potenzialmente più devastanti della storia del Brasile. “Cosa ci è mancato? Ancor oggi non ho una risposta”, dice oggi Zé Roberto, sconsolato. In mezzo, poi, c'è Giappone e Corea del Sud 2002. Ma Zé rimane a casa. Non viene convocato da Scolari e guarda i suoi connazionali alzare la coppa sotto il cielo di Yokohama, poche settimane dopo aver perso tutto il perdibile con il Bayer Leverkusen. Un anno maledetto. Che però proseguirà col trasferimento a Monaco di Baviera e l'inizio di una vita nuova e vincente.
Getty ImagesNel frattempo, tra club e Nazionale, Zé Roberto continua a spostarsi in campo come una trottola. Inizia da terzino sinistro, prosegue da esterno di centrocampo, lo si vede in mezzo al campo. Al Santos, esperienza breve, intensa ma conclusa ancora una volta a un passo dalla gloria (semifinale di Copa Libertadores nel 2007), indossa un'inedita maglia numero 10 che gli sarà consegnata anche al Gremio qualche anno più tardi. Viene piazzato da Luxemburgo nella posizione di trequartista nell'ormai demodé 4-2-2-2 alla brasiliana, riceve libertà assoluta di movimento e in seguito confesserà: “Neppure io sapevo di essere in grado di giocare lì”.
Nonostante l'età che avanza inesorabile, nel 2015 nessuno si stupisce quando il Palmeiras, in piena ricostruzione economica grazie al denaro dello sponsor Crefisa dopo anni bui e una retrocessione in seconda serie, decide di puntare su di lui. Il quasi quarantenne Zé si presenta come uomo guida e, prima dell'esordio con la nuova maglia, dà spettacolo negli spogliatoi con un lungo discorso alla squadra rimasto nella storia: “Dobbiamo prepararci per la guerra. Oggi comincia una guerra che noi vinceremo. Il Palmeiras è grande”. E tanti altri messaggi d'incoraggiamento urlati e registrati dalle telecamere del club.
Il finale di carriera è il tempo dei record. Uno lo ha già ottenuto nel 2011, all'Amburgo, diventando il calciatore straniero con più presenze in Bundesliga (poi sarà superato da Claudio Pizarro, suo ex compagno al Bayern). A proposito di Germania: l'ha definita “il miglior paese in cui abbia mai vissuto”, anche se “non capivo nulla di quello che mi dicevano le altre persone”. Vince in Europa, vince in patria. Nel 2016 conquista il Brasileirão col Palmeiras a 42 anni, superando il precedente primato stabilito quattro decenni prima dal portiere Manga, campione con l'Internacional a 39. Un anno dopo segna in Copa Libertadores, come nessuno mai prima e, forse, neppure dopo. Alla fine della sua ultima partita, un anonimo 2-0 al Botafogo nel novembre del 2017, nello spogliatoio piangono praticamente tutti.
La leggenda dell'highlander di Ipiranga, nello Stato del Paraná, prosegue anche dopo il ritiro dalle scene. Instagram è la sua nuova casa, i consigli su alimentazione e stile di vita la sua missione, un fisico da culturista il suo biglietto da visita. Sempre attivo, come in campo. Anche a 48 anni. “Lo sono sempre stato – ha detto a 'ESPN Brasil' durante la quarantena – sono uno che cerca sempre di superarsi, giorno dopo giorno”. Anche perché “non si può restare sempre con un joystick in mano e una tavoletta di cioccolato sulle gambe”. Capito il personaggio?
