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Victor LegrotaglieGOAL

Víctor Antonio Legrotaglie, "el Maestro" delle punizioni che rifiutò il Real Madrid

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Víctor Antonio Legrotaglie sta mangiando un asado con gli amici. Uno dei rari momenti, per uno che di mestiere fa il calciatore, in cui il pallone rimane confinato in un ristretto angolo della mente. Ma proprio in quel momento squilla il telefono. Víctor non lo sa, ma è una chiamata che può cambiargli la vita. Lo vogliono nella sede del Gimnasia y Esgrima Jujuy, il suo club, uno dei più importanti della provincia di Mendoza, in Argentina. Ad attenderlo, gli emissari del Real Madrid. L'istituzione calcistica più importante del mondo.

Il Real ha deciso: lo ha notato, lo vuole e lo porterà in Spagna. Il contratto è già pronto. Sono un sacco di soldi, più di quanti ne abbia mai guadagnati Legrotaglie in anni di Gimnasia. E come omaggio, giusto per non farsi mancare nulla, un orologio d'oro. “Tutto a posto, sei già un giocatore del Real”, gli dicono, come Víctor racconterà più volte nel corso degli anni. Da Madrid hanno scomodato perfino il console spagnolo in Argentina, ma in realtà mettere nero su bianco all'accordo non è che una formalità. O almeno, così pensano tutti. E invece, colpo di scena: Legrotaglie sorride, ringrazia, ma scuote la testa. Al Real Madrid e in Europa non ci vuole andare. Il suo posto è lì, al Lobo mendocino, in Argentina.

“El Maestro”, che oggi ha quasi 85 anni, del resto è sempre stato così. Non è mai diventato un personaggio mainstream, semplicemente perché lui stesso ha deciso di non esserlo. Ha dedicato tutta la vita alla propria terra d'origine. Eppure era un campione vero. Tra gli anni 50 e i 70 è diventato una leggenda del Gimnasia, giocandoci per quasi tutta la carriera (450 presenze totali) e allenandolo pure in varie occasioni. Da anni lo stadio della squadra è intitolato a lui, simbolo di lealtà e fedeltà alle origini. Nelle rare occasioni in cui se n'è andato, lo ha fatto per rimanere in zona. Al Chacarita Juniors, all'Atletico Argentino, alla Juventud Alianza, all'Independiente Rivadavia. Scelte di vita.

Non volevo andarmene – ha raccontato nel 2019 al giornalista Roberto Suárez – Qui mi avevano dato tutto. Di quanti milioni di dollari si trattava? Non importa, quello che mi dava la mia provincia valeva di più. Per questo non me ne sono andato”.

Legrotaglie, origini italiane (il padre era barese e conobbe la madre, spagnola, durante la Seconda Guerra Mondiale), è uno dei grandi personaggi più iconici del fútbol argentino. Nonostante non esistano documenti ufficiali in tal senso, si narra che nel corso della propria carriera abbia segnato 12 goal olimpici, ovvero direttamente dalla bandierina del calcio d'angolo. Un record che nessuno è mai riuscito a battere. Era uno specialista assoluto del calcio di punizione: ne ha realizzati 66, è terzo nella classifica all time dietro a Juninho Pernambucano e Pelé, in compagnia di Ronaldinho e davanti a David Beckham. E a Leo Messi, e a Cristiano Ronaldo. Una volta ha segnato pure col colpo dello scorpione, alla Higuita. “E i tunnel – dice lui orgogliosamente – quelli nemmeno si contano”.

Centrocampista mancino, eleganza da frac e cilindro, tecnica di livello sublime, ideale bacchetta tra le dita, numero 8 sulle spalle con una qualità da 10, Legrotaglie è il simbolo del Gimnasia che, nel corso degli anni 60, rimane imbattuto per due anni e mezzo in casa tra campionati regionali e Primera División. È arrivato giovanissimo dal 5 de Octubre, lo hanno catapultato in prima squadra senza fargli fare le giovanili e lui ha segnato al debutto in Primera a nemmeno 19 anni. Lo chiamano Patón, che nel gergo sudamericano indica una persona con piedi molto grandi, “perché avevo il 44, ed essendo basso si notava”. Ma è uno di quelli che fanno fluire il gioco con classe e visione, senza mai disdegnare lo spettacolo. Anzi, privilegiandolo. Perché quello del Gimnasia è una sorta di tiki taka ante litteram. “Toque, Lobo, toque”, gridano dalle tribune. Diventerà un soprannome, una una sorta di marchio di fabbrica eterno.

Quel Gimnasia degli anni 60 e 70, del resto, è una squadra particolare in tutto e per tutto. Li chiamano “los Compadres”, che in italiano può significare compagni ma anche fratelli. In campo sono uno spettacolo per gli occhi. “Una máquina de caños”, una macchina da tunnel, li ha definiti Legrotaglie. Ma anche fuori dal campo la normalità non è di casa. Per dire: prima delle partite arriva un gruppo musicale, l'orchestra dei fratelli Rosales, a volte entra pure negli spogliatoi e si mette a suonare. Poi, in campo, toccherà al “Maestro” prendere in mano la bacchetta. “Hoy Mendoza está de fiesta – cantano in tribuna – vino el Víctor con su orquesta”. Oggi Mendoza è in festa, è arrivato Victor con la sua orchestra.

Legrotaglie è l'anima, l'uomo guida di quella squadra. Di lui, un giorno, si innamora anche Pelé. Il Santos dei globetrotters, che qualche anno più tardi verrà a prendersi applausi anche ad Alessandria, gioca un'amichevole contro il Godoy Cruz, altra formazione mendocina. Per l'occasione, Legrotaglie viene prestato dal Gimnasia ai rivali. E si fa valere. Tanto che il Re, che pure in campo si è imposto per 3-2, al termine della partita si reca dall'avversario per fargli i complimenti.“È venuto a salutarmi”, ha ricordato Víctor con una punta di orgoglio. Diego Maradona, invece, ha detto di lui che “era un gran giocatore”: una volta hanno provato a farli incontrare in hotel quando il Pibe era in ritiro da allenatore dell'altro Gimnasia, quello di La Plata, ma senza successo.

Gli aneddoti sulla carriera di Legrotaglie si sprecano. Come quando lascia il Chacarita Juniors dopo aver conquistato la promozione in Primera, facendo ritorno al Gimnasia “perché devo sposare l'amore della mia vita e voglio rimanere nella mia terra”. O come quella volta in cui le punizioni, invece di calciarle verso la porta, Víctor si impegna a sbagliarle di proposito. Lo fa una volta, due volte. Imitato dai compagni di squadra. Una decina di punizioni senza mai centrare la porta. Si scopre in seguito che i giocatori del Lobo hanno organizzato una scommessa insolita e intrisa di follia: vince chi centra più volte i fotografi accucciati accanto al palo. E a trionfare è proprio Legrotaglie, lo specialista.

Certo, è una pagina che fa tanto colore. Ma è pur sempre un'eccezione a una regola spietata. Perché “el Maestro”, quando si ritrova una punizione dal limite, difficilmente si lascia scappare l'occasione. Lo ha fatto per 66 volte, come già ricordato. Anche quando gli avversari avrebbero preferito di gran lunga vederlo calciare dagli 11 metri.

Accadde in una gara contro il Talleres – ha raccontato al portale '442' il giornalista Oscar Zavala – Era arrivato un santafesino a giocare nel Matador (il soprannome della squadra di Cordoba, ndr). Víctor subì un fallo al limite dell'area. E un difensore del Talleres andò all'arbitro: “Señor, è dentro l'area, è rigore”. Il santafesino rimase lì senza capire e gli gridò: “Sei scemo, perché chiedi il rigore? È meglio che tiri una punizione”. E il suo compagno gli rispose: “No, idiota, da questa distanza segnerà certamente”. Cosa successe? Che ovviamente Victor segnò”.

Un'altra volta il Gimnasia gioca in casa dell'Atlético Tucuman, a San Martin. Agli avversari viene annullata una rete perché il centravanti, dopo aver calciato un rigore contro la traversa, ha ribadito lui stesso in rete la palla. Da regolamento non si può. Ma i sostenitori di casa non la prendono per nulla bene, tanto da scatenare dei disordini sulle tribune.

Vincevamo 3-0, la partita fu sospesa. La gente iniziò a tirare arance in campo. In pochi minuti il terreno di gioco passò da verde a arancio. A un certo punto vidi che un'arancia stava piovendo nella mia direzione, la stoppai con il petto e iniziai a farci dei palleggi. La tribuna cominciò ad applaudirmi. Ne arrivò un'altra, la stoppai e la calciai in tribuna. La gente era in delirio. Una volta ripresa la partita, segnammo altre due volte. I tifosi di San Martin esultavano quando segnavamo noi. Alla fine ci hanno rivolto un'ovazione, non ci lasciavano uscire dagli spogliatoi senza un ricordo. Consegnammo loro quello che avevamo”.

E poi c'è un altro pomeriggio entrato nella leggenda. Quello in cui il Gimnasia gioca in casa del San Lorenzo de Almagro, al Viejo Gasometro. E domina dall'inizio alla fine. Va in vantaggio, dilaga, si porta sul 2-5. I giocatori di casa iniziano a mollare qualche calcione. E sulle tribune, ancora una volta, i tifosi iniziano a ribollire.

“Loro erano “los Matadores”. Ma io prima della partita dissi ai miei compagni: “los Matadores” siamo noi. Andiamo a divertirci. Gliene abbiamo fatti 5, il nostro gioco era infernale. A un certo punto, nel secondo tempo, l'arbitro Goicoechea mi chiama e mi dice: “Muchachos, qui può finire male. State stravincendo e continuate con questi tocchetti di palla. Per favore, non continuate in questo modo”. E io gli risposi: “Perdón, capo, ma non sappiamo giocare in un altro modo””.

Legrotaglie è fedele al Gimnasia come lo è della propria donna. Si chiama Olga Angélica Martínez, ma tutti la conoscono come “Lucha”. Si incontrano per la prima volta da ragazzini, a 10 anni. Quando Víctor la sposa, il testimone di nozze è il presidente del Lobo. Al quale Victor ha posto una delle pochissime condizioni della propria carriera: “Io resto, ma voi mi dovete organizzare il matrimonio”. Insieme, Víctor e Olga hanno tre figli. E insieme si ritrovano costretti a sopportare il dolore più grande.

Il 19 maggio del 1969 il primogenito della coppia, Víctor Omar, soprannominato Cocó, sta giocando nell'officina delle zie. A un certo punto perde l'equilibrio, cade e sbatte la testa. L'incidente è gravissimo, i medici non riescono a salvarlo. A 5 anni, la sua vita è già conclusa. Victor vede l'abisso. Si mette alla guida della propria automobile fino a un monte locale, con l'intenzione di lanciarsi nel vuoto. Poi, improvvisamente, torna in sé e sceglie di non farla finita. “Devo restare con lui, ma qui, in questo mondo”. Era la mascotte della squadra, Cocó. Prima di ogni partita Víctor estraeva dal proprio borsone dei pantaloncini del figlio, li poneva a centrocampo e ogni compagno, a uno a uno, li toccava. Erano convinti che il rito portasse fortuna.

Tutto il resto, dopo la morte di Cocó, sembra così passare in secondo piano. Anche la Nazionale argentina. Non ci ha mai messo piede, Víctor, neppure una volta. O meglio: non l'hanno mai convocato, tutti ciechi e sordi di fronte a prodezze e giocate sopraffine e record. “Ma nessun rimpianto – dice – Mi sarebbe piaciuto giocare nella Selección, però non mi hanno mai cercato”.

In compenso lo hanno cercato tutti gli altri. Il Real Madrid, certo. Ma anche il resto del mondo: l'Inter, il Santos del suo ammiratore Pelé, il River Plate, i Cosmos. Chiunque. Tutti innamorati del suo calcio, del suo sinistro, del suo modo di calciare le punizioni. Tutti immancabilmente e orgogliosamente respinti.

Mi hanno cercato da ogni parte del mondo. Ma io non volevo andarmene da Mendoza. Le poche volte in cui me ne sono andato, sono tornato dopo poco tempo. Qui la gente mi vuole bene. Certo, potevo essere milionario, eh. Se mi pento della mia scelta? Ma di che cosa mi devo pentire: ho vissuto alla grande”.
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