“Io non sono Tito. Io ti stacco la testa!”.
L'urlo di rabbia, che in seguito diventerà un manifesto, non è altro che disprezzo puro. Il simbolo dei proletari contro quello dei signori. Ma in quel momento Germán Burgos è appena un allenatore in seconda piuttosto arrabbiato. Non ce l'ha col mondo, perché fa il vice di Diego Simeone all'Atletico Madrid e in quel momento non potrebbe chiedere di meglio. Ce l'ha col Real Madrid. E ha trovato il proprio nemico giurato in José Mourinho, che in quel derby di fuoco si sta lasciando andare alle sue solite provocazioni.
“Yo no soy Tito. Yo te arranco la cabeza!”. Tito è Vilanova, l'allenatore del Barcellona che l'anno prima, da vice di Guardiola, si è beccato un dito in un occhio da Mou. Burgos ha il tono minaccioso, l'indice alzato, il profilo corpulento che si staglia come un'ombra sulla panchina del Real. Le sue promesse non si tramutano in realtà, per fortuna. Dopo pochi secondi, il secondo dell'Atletico si riporta in panchina. Ma la storia è scritta. L'ipse dixit è tracciato nella memoria del pallone. Dirà Mourinho dopo la partita ai giornalisti: “Chi è questo?”. Ma in realtà lo sa benissimo chi sia. Lo sanno tutti. Anche e soprattutto in Liga.
Germán Burgos, che oggi ha 52 anni, è un personaggio pittoresco e bizzarro. Dal 2011 si è messo professionalmente assieme a Simeone e lo ha mollato solo dopo un decennio. Prima al Catania, poi al Racing, quindi all'Atletico Madrid. Entrambi argentini, sempre insieme, sempre in simbiosi. “Come Robert De Niro e Joe Pesci, o come Bud Spencer e Terence Hill – ha detto in un'intervista a 'El Mundo' di qualche anno fa – Se uno va, l'altro si frena. Entrambi abbiamo un carattere forte. Però la mia funzione è quello di dargli equilibrio. Liberarlo da dubbi e ansie. Perché io non ho dubbi. Mai”. Nel 2021 ha provato a fare il primo allenatore al Newell's Old Boys, come nel 2010 col piccolo Real Carabanchel, ma gli è andata male: via dopo tre mesi. Pare che oggi i suoi rapporti col Cholo si siano incrinati: “Gli ho telefonato dopo un derby col Real, ma non mi ha risposto”, ha detto alla fine del 2020. Un argomento di gossip che in Spagna ha tenuto parecchio banco.
Ma Burgos è anche tanto altro. È un ex portiere, ad esempio. Del River Plate e dell'Atletico Madrid soprattutto, ma anche della nazionale argentina, pure a due Mondiali (ma senza giocare nemmeno un minuto). È stato uno dei primi a usare il cappellino in campo. Lo hanno soprannominato “Mono”, ovvero “scimmia", perché uno dei suoi primi allenatori, Carlos Griguol, gli disse: “Sei alto come un gorilla”. Ma è anche “Cabezón”, testone, “perché in questa testa ci starebbe un intero computer della NASA”.
In quella testa così grande, ogni tanto, accade qualche cortocircuito. Sin dai tempi degli esordi in Argentina. Una delle prime apparizioni col Ferro Carril Oeste, subito il Boca Juniors di fronte. Blas Giunta viene lanciato in profondità e Burgos, appena maggiorenne, non si fa problemi a stenderlo. Nonostante l'azione venga fermata per fuorigioco, l'idolo del Boca si rialza e grugnisce: “Cosa fai ragazzino, vuoi morire in questo istante?”. Un'altra volta, da portiere del Maiorca, ha la bella pensata di dare un pugno a Serrano, dell'Espanyol, a gioco fermo. Ha insultato mia madre, si giustificherà dopo quella partita. Ma contro di lui si scatena l'inferno. Risultato: 11 giornate di squalifica e una multa di mezzo milione di pesetas, più o meno 3000 euro.
Getty ImagesDa allenatore in seconda c'è la lite con Mourinho, ma non solo. Maxi Lopez ricorda che “una volta, quand'ero a Catania, in una gara contro il Napoli in cui sono partito dalla panchina, Simeone mi ha ordinato di scaldarmi e io non volevo: il Mono Burgos voleva mangiarmi. Era come sfidare la morte”. Un anno e mezzo dopo l'episodio del Bernabeu, stavolta al vecchio Calderon, Burgos perde di nuovo la testa. Sempre contro il Real Madrid. L'arbitro di quel derby, Carlos Delgado Ferreiro, non concede un rigore a Diego Costa e il cielo si squarcia per l'ennesima volta. Sono in cinque a impedire che la furia del Mono, che nel frattempo ne sta dicendo di ogni colore al direttore di gara, si tramuti in una vera e propria aggressione fisica. Burgos viene squalificato, ancora una volta. Ma solo per tre giornate.
Fuori dal campo, invece, in Argentina ricordano ancor oggi l'episodio della rissa con una squadra di rugby, roba di più di vent'anni fa. Il River Plate di Burgos ha appena vinto il campionato e si concede una serata di bevute in discoteca. Nello stesso locale sono presenti anche dei rugbisti. Leo Astrada, il capitano di quel River, sta sorseggiando qualcosa. A un certo punto si gira e capisce che qualcosa non sta andando per il verso giusto, perché vede il Mono che sta litigando con loro. Apriti cielo.
“La sicurezza ha cacciato i rugbisti dal locale e noi siamo rimasti dentro. Quando siamo usciti, però, erano lì che ci aspettavano. C'erano tutti. Sono partiti pugni da ogni parte, gente che correva. Non si vedeva nulla, perché era buio. Noi cercavamo di evitare i pugni, ma il Mono e Cedrés erano in prima linea. Il giorno dopo siamo tornati ad allenarci e ci siamo resi conto di com'erano le nostre facce. Burgos aveva un orecchio piuttosto gonfio”.
È sempre stato un tipo rock, Burgos. Nel vero senso del termine. Capelli lunghi, look da vecchio chitarrista anni 70, quando giocava era il leader di una band in cui si è alternata una dozzina di musicisti. Suonavano canzoni scritte da loro e versioni di altri band famose, i Rolling Stones in primis. A cavallo del nuovo millennio hanno inciso quattro cd. La Paria, si chiamavano all'inizio. Poi sono diventati Burgos Simpatia, chiaro omaggio a “Simpathy for the Devil”, il capolavoro degli Stones. Infine The Garb, acronimo di Germán Adrian Ramón Burgos, il nome completo del leader, che se l'è pure tatuato lettera per lettera sulle nocche della mano destra.
“Ma in questo caso niente sesso, droga e rock n' roll – ha detto ridendo – Mi limito al rock. Droghe, mai. E sesso, solo quando vuole la mia signora, che però mi tiene a dieta”.
Burgos ha svelato una volta che “mi sarebbe piaciuto studiare per diventare attore, però non si può fare tutto”. Parlando a 'El Mundo' nel marzo del 2017, invece, ha detto che “se non avessi fatto il calciatore, mi sarebbe piaciuto essere la moglie di un calciatore”. Del resto, il pallone ha sempre rappresentato più di un mestiere per lui.Fútbol y rock, uno stile di vita. Da giocatore come da allenatore. Entrato in casa assieme a lui, il giornalista incaricato dell'intervista ha trovato accesi tre televisori sintonizzati contemporaneamente su tre partite diverse. Non ci poteva credere.
“Non mi piace niente oltre al calcio. Prendi il tennis: te la stai facendo addosso e non puoi uscire, passa un aereo e non si gioca, non si può parlare né fumare. O il basket: stai chiuso lì quattro ore e quando esci non sai nemmeno se si è allagata la metro o se è scoppiata una Guerra Mondiale. Quando un giocatore cade per terra, entra uno con uno strofinaccio a pulire. Ma basta. O l'hockey, ad esempio. Il portiere dice alla mamma: “Vieni a vedermi”. E la mamma va. Alla fine il figlio le dice: “Come sono andato?”. E lei: “Non ti ho visto... La maschera, il casco...”. Nooooo”.
Goal/Getty ImagesDel calcio, quello giocato, Burgos dice che la cosa che più gli manca non sono gli anni che non torneranno più. Non è l'emozione di correre dietro a un pallone. E nemmeno la gloria che ne deriva. No: sono gli insulti dei tifosi avversari. Quel gioco di sguardi quando si recava sotto la curva nemica, la fronte alta, lo sguardo fisso. Senza paura. E senza ipocrisie.
“Chiaro. Smettiamola con gli abbracci, smettiamola con i baci. Non voglio farmi una foto con te. A me hanno detto di tutto. Andavo in porta e dicevo delle cosette al pubblico. Fino a quando una volta mi hanno lanciato una bottiglia piena di urina”.
Burgos nasce calcisticamente nel Ferro Carril Oeste. Poi si trasferisce al River Plate. Lui giura di essere sempre stato del Millo, sin da piccolo, tanto che “chiedevo di giocare con i ragazzi più grandi e loro accettavano, ma solo a patto che mi togliessi la maglia biancorossa”. In realtà circola la storia secondo la quale da ragazzino sarebbe stato un bostero, uno del Boca Juniors. Tutto nasce da una comparsata in tv di metà anni Novanta nella quale Burgos porta con sé la figlioletta Florencia. La piccola non si trattiene e inizia a parlare: “Papà era prima del Boca, poi del Ferro e poi del River”. E lui, ridendo: “Ma tua madre sarà del Boca”.
In campo vince (tanto, anche la Libertadores), scopre il mondo (è in panchina nell'Intercontinentale contro la Juventus, fine '96), gioca (non sempre). E para. Un po' in tutti i modi. Nel '99, in un River-Gimnasia La Plata, il futuro romanista Cufré spara una punizione da lontano e lui la ribatte con... un gomito. Così, come se avesse scacciato una mosca. Qualche anno più tardi, già all'Atletico Madrid, si renderà protagonista di un altro intervento entrato nella leggenda, respingendo di faccia un rigore di Figo.
A proposito di Atletico: il rapporto ultradecennale nasce quando i Colchoneros sono in Segunda División. Sono retrocessi nel 2000, annata disgraziata nella quale si è seduto in panchina pure Claudio Ranieri. E al primo colpo hanno mancato il ritorno immediato in Liga. Ma la fede della gente non è mai venuta a mancare. Racconta Burgos che una volta, prima di una partita contro il Leganés, ha visto in tv i tifosi dell'Atleti recarsi verso lo stadio “come un'alluvione”. Una scena che lo ha commosso. Si è detto: “Voglio giocare lì”. E ci è riuscito.
Burgos conquista la promozione già al primo anno. E si scava un pezzettino d'affetto nel cuore degli aficionados. Tanto che l'Atletico sceglie proprio lui per pubblicizzare la campagna abbonamenti della stagione successiva, intitolata “Ya estamos aqui”. Una scena esilarante, nella quale lo si vede riemergere lentamente dalle fogne della città, senza proferire una sola parola. Proprio come la squadra è riemersa da quelle della Segunda.
Nel frattempo, Burgos è pure nel giro dell'Argentina. Nel 1998 è già stato convocato da Passarella ai Mondiali francesi, ma il titolare l'ha fatto Roa. Nel 2002, in Giappone e Corea del Sud, pare debba toccare a lui. Ha giocato gran parte delle qualificazioni ed è convinto di avere le carte in regola per stare tra i pali. Ma il Loco Bielsa gli preferisce Cavallero. Germán non se la prende, tifa per i compagni e piange con loro dopo l'eliminazione al primo turno. Piange anche Bielsa, che dopo il pareggio fatale con la Svezia non riesce a completare il discorso alla squadra negli spogliatoi. E il Mono, istintivamente, si alza e lo abbraccia. Dirà: “È un creatore di allenatori”. A maggio ha rivelato di aver accettato la panchina del Newell's anche per lui.
Certo, le panchine ai Mondiali sono nulla rispetto al momento più difficile di tutti. Fuori dal campo, non dentro. Nel 2003, mentre è al tramonto della carriera, gli viene diagnosticato un cancro a un rene.“Qualcosa di inaspettato – ha detto a 'Cadena Ser' – Un giorno arriva uno e ti dice: devi operarti, hai un cancro. Quel fine settimana dovevo giocare contro il Maiorca, così dissi al dottore: mi opero il lunedì. Ma Aragonés e i medici mi risposero che andava fatto il prima possibile”. Burgos ha sempre dato la colpa del tumore alle sigarette:“Fumo da quando avevo 17 anni. Scusate: fumavo”. L'intervento riesce. E l'Atletico gli rinnova per un'altra stagione il contratto in scadenza.
Quando torna a Madrid sotto un'altra veste, poco meno di un decennio più tardi, ha questo e altro in mente. Ritrova Simeone, con cui ha già condiviso lo spogliatoio proprio all'Atletico e pure in nazionale. Ma probabilmente non immagina di poter dare vita, assieme al socio, a una nuova era. Nasce il Cholismo, tra trionfi in Liga, in Europa League e un paio di Champions League sfiorate. E buona parte del merito è anche del Mono. Stratega, confidente, mente pensante. Anche se il carattere, a volte, passa dal gioviale al rissoso. Se la sua autobiografia si intitola “Insoportablemente yo”, insopportabilmente io, un motivo ci sarà.


