
“La prima volta che l'ho visto toccare la palla davanti ai miei occhi, mi è venuta la pelle d'oca. Ho quasi pianto. Il suo dribbling è devastante, così come la semplicità con cui tratta il pallone. Mi ricorda me stesso quando avevo la sua età”.
È il 1999. E la leggenda narra che Pelé, l'uomo che contende a Diego Armando Maradona lo scettro di più grande della storia del calcio, stia quasi per avere un coccolone. Sta assistendo a un allenamento di una formazione giovanile del Santos, il club che ha rappresentato quasi tutta la sua vita calcistica e di cui sta ricoprendo il ruolo di responsabile delle giovanili. E ha notato un ragazzino. Magrissimo, leggero come una piuma, sfrontato. “Così malnutrito che chiesi ai genitori se soffrisse di anemia”, ma dannatamente bravo. O Rei non ha dubbi: quello sarà il mio erede.
La storia di Robson de Souza Santos, che per tutti è semplicemente Robinho, inizia così. Con una folgorazione. In realtà è la tipica esagerazione di chi si è fatto trasportare dall'entusiasmo del momento, ma Pelé non può ancora saperlo. Non può ancora sapere che le primavere del suo potenziale erede si snoderanno tra momenti di gloria assoluta e periodi di buio totale. Altro che erede del Re: se uno ha collezionato più di 1000 reti e tre titoli mondiali, l'altro è stato il classico studente bravo, sì, ma con poca voglia di applicarsi con costanza.
Ascese e cadute, una dopo l'altra. Il Santos, l'Europa, il successo che dà alla testa, le pedaladas, gli errori sotto porta, le discoteche, fino alla recente (doppia) condanna per presunto stupro. Come in un cocktail dagli ingredienti vari e variopinti. La vita e la carriera calcistica di Robinho, l'ex bambino prodigio che a 39 anni è ormai troppo lontano dal calcio per via della condanna ricevuta, sono uno schiaffo alla banalità.
Eppure, all'inizio del nuovo millennio pare davvero che una nuova stella abbia le potenzialità per aggiungersi al firmamento dei più grandi di sempre. Quando Robinho entra nella prima squadra del Santos, il club sta vivendo una grave crisi economica e decide di affidarsi quasi completamente ai ragazzi delle giovanili. Ci sono lui, ma anche Diego e Alex, che in seguito transiteranno anche per l'Italia con le maglie di Juventus e Milan. Nel 2002 il Peixe acciuffa i playoff per il titolo – aboliti proprio dall'anno seguente – per un soffio, poi macina avversari su avversari: il favorito San Paolo di Kaká, poi il Gremio, poi il Corinthians. E impensabilmente torna a conquistare il campionato dopo un digiuno di 34 anni.
“Presidente, che me ne faccio di questo magrolino e questo testone?”, si lamentava inizialmente Emerson Leão, l'allenatore di quel Santos ed ex portiere della Nazionale brasiliana. Ma dai quarti alla finale il "magrolino", ovvero Robinho, segna a tutti. E assieme all'amico "testone", ovvero Diego, comincia a cambiare la storia recente del Peixe. Che l'anno dopo si inerpica fino alla finale di Copa Libertadores, perdendola contro gli argentini del Boca Juniors, e l'anno dopo ancora rivince il Brasileirão. È l'epoca dei meninos da Vila, i ragazzini della Vila Belmiro, nati e cresciuti nel club prima di conquistare l'Europa.
L'immagine simbolo di quegli anni è una: al 37' della finale di ritorno contro il Corinthians, che il Santos vincerà per 3-2 dopo essersi già imposto per 2-0 all'andata, Robinho prende palla e punta l'avversario diretto, ovvero Rogerio. Il terzino del Corinthians si sta già costruendo una storia nel calcio: qualche anno dopo, con lo Sporting, segnerà persino nella finale di Coppa UEFA contro il CSKA Mosca. Ma a Robinho tutto questo non importa. Lui vuole puntarlo, ma non solo. Inizia a danzare sul pallone con una serie di sconcertanti doppi passi. Le pedaladas, come le chiamano in Brasile. Una, due, tre. Alla fine saranno addirittura otto di fila in pochi secondi. Rogerio perde la testa e lo sgambetta in area. Calcio di rigore, trasformato dallo stesso Robinho. La cui ascesa repentina, in pratica, inizia in quel momento.
“Robinho è diventato famoso con quelle pedaladas – ha ricordato l'ex lateral – Io lo ero già, ed è questo che mi dà più fastidio. Anche se in fondo cerco di prenderla sul ridere. La cosa che non mi piace è che ogni volta che Corinthians e Santos si sfidano, mi chiamano solo per parlare di quell'episodio. Anche mio figlio Rafael racconta agli amichetti che suo padre è quello delle pedaladas di Robinho. E non era neppure nato!”.
Ascese e cadute. Robinho tocca il cielo con un dito, ammette di sognare il Barcellona, ma a bussare alla sua porta è il Real Madrid. Eccolo, il primo strappo col Santos. Doloroso. Perché nel 2005 il campioncino si rifiuta di allenarsi e di giocare, pur di convincere il proprio club a lasciarlo partire per la Spagna. L'accordo viene concluso a fine agosto, agli sgoccioli del mercato europeo, per una trentina di milioni di euro circa. A Madrid Robinho viene presentato in pompa magna. Gli danno addirittura la maglia numero 10. E il giorno dopo dà spettacolo all'esordio in casa del Cadice: primo pallone toccato, subito un lob di altissima classe su un avversario. E poi un dribbling, una pedalada, lo scatto che origina la rete vincente di Raul.“Mamma mia Robinho!”, urlano i telecronisti spagnoli, estasiati da quel che stanno vedendo.
Getty ImagesIl problema è che quel Real Madrid, l'ingordo Real Madrid che colleziona Galácticos come figurine, dentro lo spogliatoio è una polveriera. Nel corso delle stagioni si alternano in panchina Vanderlei Luxemburgo, con cui Robinho aveva vinto il Brasileirão nel 2004, Juan Ramon Lopez Caro e Fabio Capello. I trionfi in Liga del 2007 – grazie agli scontri diretti favorevoli sul Barcellona – e del 2008 contribuiscono solo in parte a rasserenare l'ambiente. Da Antonio Cassano in giù è una squadra di primedonne, che persino il rigido Don Fabio fatica a imbrigliare.
L'avventura spagnola di Robinho va nella direzione contraria rispetto a quanto immaginato dal Real. Quando i giocatori decidono di dare un calcio al professionismo, in prima fila c'è sempre il brasiliano. Che ama uscire fino a tarda notte con Ronaldo, almeno prima che il Fenomeno faccia le valigie in direzione Milano e poi San Paolo. E che “aveva trasformato il suo seminterrato in una specie di piccolo night”, come ha raccontato qualche tempo fa il suo ex compagno Royston Drenthe.
In campo, qualche lampo si vede. Robinho segna 6 volte la prima stagione, 8 la seconda, va in doppia cifra al terzo anno (11). Ma le promesse di quell'esordio contro il Cadice non si trasformano mai completamente in realtà. In allenamento fa a pugni con Gravesen, in partita è uno dei tanti.“Quando sono arrivato in Spagna avevo appiccicata addosso l'etichetta di 'nuovo Pelé'. Si aspettavano che vincessi il Pallone d'Oro”, si è lamentato. Giusto per comprendere lo scenario. A completare l'opera è il lavoro di rafforzamento dei muscoli imposto dal Real, scelta che secondo il suo ex tecnico Emerson Leão ne ha snaturato le caratteristiche.
“Con lui hanno sbagliato. Il Robinho europeo non era il Robinho che vedevamo in Brasile. Gli hanno fatto acquisire muscolatura, ma lui doveva restare com'era, magro, veloce. E poi è diventato uno qualunque, ma lui è nato per essere una stella. Lo hanno costretto a tornare a marcare e lui non si è opposto”.
Morale della favola: nel 2008 Robinho dice addio al Real Madrid. Prima caduta. “Capello mi lasciava in panchina e io non ero felice di entrare solo a partita in corso”, ha ricordato. Il Chelsea di Luiz Felipe Scolari fa di tutto per portarlo in Premier League, arriva a un passo dall'accordo, ma commette l'errore di stampare la sua nuova maglia prima che l'operazione diventi ufficiale. E gli spagnoli lo dirottano al Manchester City, che all'ultimo giorno della finestra estiva di mercato lo acquista per 42 milioni di euro, record – ai tempi – di spesa del club. “Lo ha fatto solo per i soldi”, lo accusa il compagno mancato Deco. “Il Chelsea non si è comportato bene, ha aspettato fino all'ultimo minuto per chiudere e gli è andata male”, si difende Robinho.
Che l'avventura al City sia destinata a risolversi in un flop, nonostante l'entusiasmo che lo circonda al momento del suo arrivo, appare chiaro sin dal giorno della presentazione. Robinho prende la parola e sussurra al microfono: “Il Chelsea mi ha fatto una grande proposta e io ho accettato”. Ehm. Tra prestazioni scadenti e uscite serali, anche se “gli inglesi della rosa si facevano vedere in discoteca più di me”, anche in seguito non funziona nulla. Robinho fa gruppo con Elano e la meteora Glauber, gli altri brasiliani di quel City, che si attirano le antipatie della testa calda Craig Bellamy. All'intervallo di una partita di Premier League contro l'Arsenal, Robinho arriva addirittura alle mani con lui nello spogliatoio.
“Una volta abbiamo litigato, sì, ma chi non lo faceva in quel City? Anche altri giocatori hanno avuto problemi con Bellamy, che era un tipo esplosivo. Con l'Arsenal non avevo giocato un gran primo tempo e lui iniziò a urlarmi contro in inglese quando rientrammo nello spogliatoio. Da quel poco che riuscivo a capire, non mi stava dicendo cose carine. Glauber venne in mio soccorso spingendolo via. Il giorno dopo Bellamy venne da me e mi chiese scusa”.
I problemi con Bellamy, che in seguito definirà Robinho “il calciatore e la persona più problematica con cui abbia mai giocato”, fanno il paio con quelli del Manchester City. Che non è più la squadra che precipitava in terza serie alla fine degli anni 90 e non è ancora un “vicino rumoroso”, come lo ha mirabilmente definito una volta Sir Alex Ferguson, ma una sorta di via di mezzo. Nel 2009 chiude decimo, 40 punti sotto il Manchester United. Va un pochino meglio l'anno dopo: quinto posto a -18. Ma per il deludente e poco disciplinato Robinho le porte del City si chiudono. Caduta.
E poi l'ascesa, ancora una volta. In prestito al Santos, intanto, dove dimenticano quanto accaduto 5 anni prima e lo accolgono come un re. Per un intero semestre il quadrato magico Robinho-Neymar-Ganso-André – un campione, un fuoriclasse, un campione mancato, una promessa trasformatasi in giocatore normale – è un concentrato assoluto di splendido gioco e splendide vittorie. E infine, nel 2010, al Milan. Binho non è più il nuovo Pelé. Non è più nemmeno la stella principale, a dirla tutta. Tanto più se il colpo rossonero a sensazione è Zlatan Ibrahimovic, con cui il brasiliano si trova a meraviglia.
“Diceva sempre che aveva convinto lui il Milan a prendermi: 'Sei qui grazie a me'. È arrogante? Sì, però in senso buono. Ha soltanto fiducia nel proprio talento”.
GettyScudetto al primo anno, ormai un decennio fa, e secondo posto dietro alla neonata Juventus di Conte. Ascesa, ancora una volta. Poi però il Milan va in crisi, si sfalda, cede i migliori. Ibrahimovic va al PSG, Thiago Silva pure. Robinho resta un altro paio d'anni, trovando poca continuità. Quindi lascia nel 2014, di nuovo per il Santos. Ma a 30 anni non perde il vizio di girovagare. E così, a sorpresa, un anno dopo preferisce non rinnovare il contratto in scadenza con i bianconeri per accettare la ricca offerta del Guangzhou Evergrande.
Quando riappare in Brasile, nel 2016, non è per difendere nuovamente il Santos. Il suo destino si chiama Atletico Mineiro, dove forma un tridente da sogno con Fred e l'ex genoano Pratto. Quando ritrova il Peixe da avversario, promette: “Se esulterò in caso di goal? L'ho sempre fatto, è il modo migliore di portare rispetto alla tifoseria del Galo”. Il proposito non si trasforma concretamente in realtà, però i suoi ex tifosi gli danno del mercenario, creando dei bigliettoni da 100 reais con stampato il suo volto.
Il sodalizio si ricompone per l'ennesima volta nell'ottobre del 2020, dopo che Robinho ha conosciuto pure il calcio turco, prima col Sivasspor e poi con l'Istanbul Basaksehir, dove ha vinto – non da protagonista – uno storico campionato e dov'è tornato a disputare la Champions League. Nonostante il declino tecnico e fisico e l'età avanzata, il club paulista gli apre nuovamente le proprie porte. Ma sono i mesi del processo per il presunto stupro perpetrato anni prima in una discoteca milanese nei confronti di una ragazza albanese, con tanto di scioccanti intercettazioni: "Sto ridendo perché non mi interessa. La donna era completamente ubriaca, non sa nemmeno cosa sia successo”.
Quando il Santos annuncia di aver fatto firmare un contratto di 5 mesi a un calciatore condannato in primo grado e in appello, scoppia la rivolta. Gli sponsor fuggono, alcuni dirigenti non approvano, i sostenitori si ribellano. La tifoseria femminile 'Bancada das Sereias' emette un lungo e addolorato comunicato per condannare il ritorno del figliol prodigo:
“La giornata di ieri non è stata segnata soltanto dal ritorno di un giocatore che una volta era il campione della squadra. È stata segnata dal ritorno di un giocatore che è stato condannato in primo grado dalla Giustizia milanese per stupro. Sappiamo e siamo coscienti che il processo non si è ancora concluso e c'è spazio per un ricorso. Fa male, fa male all'anima. Ieri il Santos è regredito in una lotta durata anni e solo noi sappiamo quanto abbiamo perso”.
Pochi giorni dopo, Robinho annuncia “con molta tristezza nel cuore” la decisione “di sospendere il mio contratto in questo momento difficile della mia vita. Il mio obiettivo è sempre stato quello di aiutare il Santos. Per i tifosi a cui piaccio, proverò la mia innocenza". Nel gennaio del 2022, però, la sentenza di condanna diviene definitiva, negandogli anche la possibilità di un ritorno in campo, da lui caldeggiata negli ultimi mesi. Qualcosa è rotto per sempre, è l'ennesima caduta. Con ogni probabilità, quella finale.
