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Elias Figueroa ChileGetty

La leggenda di Elías Figueroa, il più grande calciatore cileno di tutti i tempi

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Il cielo non è azzurro sopra Porto Alegre. Per nulla. È nuvoloso, di quel grigio un po' opprimente e malinconico di certe giornate autunnali. Però importa a pochi. Anzi, che una finale del campionato brasiliano si giochi senza il calore opprimente dell'inverno sudamericano, in fondo, è un sollievo per tutti. Poi, a un tratto, dalle nubi spunta un raggio di sole ribelle. Guarda verso il terreno di gioco, prende la mira. E decide di posizionare la propria grazia giusto sulla testa, e sul corpo, di un prescelto.

Elías Figueroa è un personaggio che con la leggenda ha, e avrà, un rapporto confidenziale. Ma quel pomeriggio del 14 dicembre 1975, il pomeriggio della finale, rappresenta uno dei momenti più iconici della propria carriera. Cileno di 29 anni, è un centrale difensivo dell'Internacional. Di fronte c'è il Cruzeiro. La rete decisiva per il titolo colorado la segna proprio lui, di testa, deviando in rete una punizione calciata da Valdomiro. È l'11' della ripresa. Ed è l'istante esatto in cui quel raggio ribelle illumina la scena e avvolge Figueroa nel proprio manto brillante, come un riflettore diretto verso l'attore principale. Per tutti, giusto per donare un tocco d'epicità all'intera storia, diventerà “el gol iluminado”. Quello decisivo per il primo dei due campionati nazionali vinti consecutivamente dall'Inter.

Non è che uno degli innumerevoli facts che appartengono alla storia di vita di un mostro sacro. Del calcio cileno. Di quello sudamericano. Di quello mondiale. Ammirato da tutti, invidiato da tanti. Per dire: Pelé lo ha inserito nella FIFA 100, tra i 125 migliori calciatori di sempre. Nel 1974, dopo aver conquistato i Mondiali con la Germania, Kaiser Franz Beckenbauer si è autodefinito “l'Elías Figueroa europeo”. In patria è considerato il più grande di tutti i tempi. E uno dei più grandi difensori della storia del pallone mondiale. Qualcuno ha provato a creare una competizione con altri personaggi storici del fútbol locale: Arturo Vidal, ad esempio. Elías ha sorriso, si è rimboccato le maniche e ha risposto a dovere:

Se tu corri i 100 metri in 8 secondi, e io in 10, vinci tu. Io sono stato nominato tre volte miglior giocatore del Sudamerica e due volte miglior difensore del mondo. Se qualcuno riuscirà a diventare per quattro volte il miglior giocatore del Sudamerica e tre volte il miglior difensore del mondo, avrà la meglio lui. Sono dati”.

Solo Diego Armando Maradona, una volta, ha fatto il superiore. Accade che i due si ritrovano faccia a faccia, uno con la maglia del Cile e l'altro dell'Argentina. Prima della partita un fotografo chiede a Diego una foto assieme al cileno e questi risponde: “Che venga lui da me”. E Elías se la lega al dito: “O viene qui lui oppure io non ci vado”.Morale della favola: la foto ricordo non si fa. Screzi rapidamente superati: “Diego è una persona umile. Una volta in Europa mi ha detto: 'Maestro, che felicità conoscerti'. E io ho pensato che non era come veniva dipinto. Ho cambiato totalmente l'immagine che avevo di lui”.

Maestro, sì. Eppure, un millennial guarda il curriculum di Figueroa e strabuzza gli occhi. Sarà stato anche un campione, ma non ha mai giocato in Europa, pensa un po' stranito. Non ha presenze in Champions League. Niente Palloni d'Oro da alzare orgoglioso al cielo, niente trionfi mondiali in bacheca. Tutto vero. Tra la metà degli anni sessanta e l'inizio degli anni ottanta, il mondo di Elías si divide e si racchiude tra Cile, Uruguay e Brasile. Con una spruzzata di NASL, il paradiso delle vecchie glorie. Niente Europa, no. Però quello è tutto un altro calcio.

Che poi, mica è vero che i dirigenti del vecchio continente non lo prendano mai in considerazione. Per due volte il Real Madrid tenta di sedurlo, un po' con una discreta manciata di pesetas e molto col proprio blasone. E per due volte viene respinto. La prima “perché sognavo di giocare nel paese di Pelé, dove c'erano già i più grandi giocatori del mondo”, ovvero il Brasile, con l'Internacional. E la seconda “perché volevo tornare in Cile”, dove trionferà anche con il piccolo Palestino. Per chi guarda e analizza il calcio con gli occhi del terzo millennio, è quasi un affronto al buonsenso. Ma tant'è.

Il Figueroa adulto, quello che si prende il lusso di dire di no al Real, ricorda com'è arrivato lassù, sulla vetta della gloria. Ricorda tutto. O quasi. Quel che non ricorda completamente sono i primissimi passi del proprio percorso. Non ricorda ad esempio quando soffriva di difterite, un problema al cuore che quasi lo ha portato alla morte, ma allora non aveva che un paio d'anni. Ricorda soltanto parzialmente quando, a causa dell'asma, da piccolo con gli amici poteva fare solo il portiere. E anche quando la famiglia è stata costretta a traslocare dall'umida Valparaíso a cittadine dal clima più secco. La sentenza dei medici gliel'hanno raccontata in seguito: quel bambino non potrà mai essere normale, dicevano alla madre. E invece.

Elías ricorda, quello sì, quando si è ristabilito dalla malattia. E anche quando, alla velocità della luce, la salita si è fatta nuovamente discesa. A 11 anni ha contratto la poliomielite. È rimasto quasi un anno a letto, ha convissuto faccia a faccia e naso a naso con l'incubo. Non era nemmeno più capace di camminare, figurarsi correre con una palla tra i piedi. Ma uno squarcio di sole – non lo stesso di Porto Alegre, ma perché non pensare a un legame? – si è posato una prima volta sulla sua vita e sul suo destino. Elías è guarito di nuovo, ha camminato di nuovo, di nuovo ha cominciato a giocare a calcio.

La storia, in sostanza, prende forma in quelle settimane. Perché è bravo, il giovane Elías. Molto più bravo dei suoi compagni. Ha fisico, ha testa, ha qualità. L'Unión La Calera lo nota, lo chiama, lo prende sotto la propria ala protettiva. Poi arriva il turno del Santiago Wanderers. A 15 anni gioca già in prima squadra come centrocampista. Nel 1962 il club gli regala il sogno: il Brasile di Pelé, campione del mondo in carica, si sta preparando per i Mondiali che si terranno proprio in Cile e sceglie le giovanili del club come sparring partner per un'amichevole. A Figueroa tocca il compito di marcare Didi. Quello di “Didi, Vavá e Pelé”, per capirci. Un mostro sacro del futebol brasiliano. Roba da far venire la tremarella. Ma lui no, non trema. Anzi, se la cava benone, prendendosi i complimenti degli avversari.

La notte scavalcavo le mura dell'hotel dove erano alloggiati i giocatori brasiliani per chiedere loro un autografo. Immagina la sensazione di giocare contro di loro. Nemmeno mi ricordo il risultato di quella partita”.

Figueroa, che ben presto esordisce in Nazionale e partecipa alla spedizione ai Mondiali inglesi del '66, è troppo bravo per rimanere a giocare in Cile. Ma l'Europa è lontana. Troppo lontana per un personaggio che non ha mai amato spostarsi troppo da casa. E così, dopo la Coppa del Mondo il passo successivo si chiama Uruguay. Ovvero il Peñarol, una delle due grandi del paese assieme al Nacional. La rosa aurinegra è un elenco di figurine di campioni. Ci sono Alberto Spencer e Pedro Rocha, rispettivamente primo e secondo miglior marcatore della storia della Libertadores. E c'è Ladislao Mazurkiewicz, il più grande portiere della storia della Celeste, il coprotagonista del miglior goal non segnato da Pelé nel celebre Brasile-Uruguay di Messico '70.

Nato centrocampista, Figueroa è già diventato difensore centrale. Raffinato, tecnico, uno di quelli che gettano via il pallone solo in caso di necessità. E al contempo è già un leader in giovane età. Tanto che un radiocronista cileno, qualche anno prima, quando lo ha visto è rimasto estasiato: “Questo ragazzino ha appena 17 anni, ma gioca come un campione maturo. Da oggi lo chiameremo Don Elías Figueroa. Ma non è che uno dei mille e mille soprannomi appiccicatigli durante gli anni da stampa e tifosi. “Mister Lusso”, ad esempio. Oppure “El Gran General”. Perché per lui comandare l'area di rigore è una missione, non uno svago. Ha detto una volta: “Questa è la mia casa, e in casa mia entro solo chi dico io”.Però in carriera è stato espulso solo una volta, contro il Perú, già a fine carriera.

A Montevideo, Figueroa vince per due volte il campionato uruguaiano. In tre occasioni viene nominato miglior giocatore del torneo. Gli manca l'acuto in Libertadores, questo sì. Ci va vicino nel '70, ma gli argentini dell'Estudiantes hanno la meglio in finale. Elías ha ricordato una volta che “mi sono dovuto adattare al loro stile di gioco. Non ero uno che metteva molto la gamba, ma lì gli attaccanti arrivavano come delle furie, così sono entrato nella loro lunghezza d'onda”. Però sempre mantenendo i propri principi, basati su una costruzione dal basso ante litteram: “Ho sempre pensato che una buona giocata offensiva nasca da un pallone ben trattato in difesa”.

Nel 1971, ecco l'Internacional. Figueroa lo preferisce al Real Madrid e corona il sogno di sfidare il Re Pelé, di cui diventerà buon amico. Vince a livello statale prima e nazionale poi. Con lui in difesa, l'Inter trionfa per due volte di fila nella Copa Brasil, l'antesignana del Brasileirão. La prima conquista, quella del '75, è marcata dal “gol iluminado”. Per tre anni di fila, dal '74 al '76, è il Rey de América, ovvero il migliore di tutto il continente sudamericano. Anche se fa il difensore e non il centravanti. Il Brasile lo adora, lui ricambia. Porto Alegre gli sono entrati talmente nel cuore che qualche tempo fa, durante una chiacchierata online con il giornalista João Bosco Vaz, Elías ha faticato a trattenere le lacrime.

Sono anni in cui Figueroa è a tutti gli effetti un idolo pop. Le donne di Porto Alegre lo chiamano nelle proprie case per guarire i figli malati, in una sorta di taumaturgico delirio collettivo nato soprattutto da quella rete al Cruzeiro. I paparazzi arrivano a fotografarlo nudo nello spogliatoio e a pubblicare le foto sui settimanali di gossip: “I miei figli non volevano più andare a scuola. Temevano che qualcuno dicesse loro: guardate qui il popò di vostro padre”. Elías arriva perfino a incidere un disco con il compositore Regis Antonio. Lo scrittore e drammaturgo Nelson Rodrigues, fratello di quel Mario Filho a cui è dedicato il Maracanã, arriva a definirlo il difensore perfetto: “Elegante come un conte in smoking, pericoloso come una tigre del Bengala”.

Nemmeno i dirigenti della Seleção rimangono insensibili al suo fascino. Sono tempi in cui cambiare Nazionale è ancora possibile, anche dopo una presenza ufficiale. E così, negli uffici della CBF spunta l'idea: perché non lo facciamo naturalizzare? Ma Figueroa, fedele al Cile, si volta dall'altra parte con un'aria sdegnata. Racconterà in seguito: “Mi hanno offerto un assegno in bianco, ma l'ho rifiutato. Io rappresento i miei genitori, i miei amici, la mia patria. Il denaro non può comprare una nazionalità”.

Il Cile, già. Dopo l'Internacional, è la sua nuova tappa a sorpresa. Non nella Capitale Santiago, dove giocano le grandi del paese. Nemmeno al Santiago Wanderers, il cui stadio porta il suo nome. La nuova sfida si chiama Palestino, il club fondato da immigrati palestinesi. Ha vinto solo una volta il campionato cileno. Ma Figueroa mette subito le cose in chiaro: “Io sono venuto qui per vincere, non per lottare negli ultimi posti”.Promette e poi realizza. Il primo anno, il Palestino si mette in bacheca la Copa Chile. Il secondo, il campionato. Il terzo sogna addirittura la Libertadores, ma si ferma fino alle semifinali.

La chiusura di Figueroa è prima in NASL, coi Fort Lauderdale Strikers, e poi al Colo Colo. Fino al ritiro a 37 anni. La partita d'addio è uno show: il Cile contro il Resto del Mondo. Da lì, la storia scompare per lasciar correre la leggenda. E anche i record. Come le edizioni dei Mondiali a cui ha partecipato: tre, più di qualsiasi altro cileno. Ma il primato vero è un altro: nel 1982, in Spagna, era già... nonno a nemmeno 36 anni. “Non conosco nessun altro calciatore nella storia dei Mondiali che l'abbia fatto”. Non esiste.

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