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Paolo MonteroGetty

"Per vincere sono disposto a tutto", duro da calciatore e da allenatore: Paolo Montero

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Lo sguardo di Paolo Montero non mente: truce, complesso, serio, anche quando sorride. I lineamenti scavati sul viso confermano il carattere duro mostrato in campo da calciatore: d’altra parte, 16 cartellini rossi in Serie A (record ancora imbattuto) non si “guadagnano” per caso.

Il 9 maggio del 2021 è sulla panchina della Sambenedettese, nonostante tutto: questo basterebbe per descrivere alla perfezione la tenacia di un uomo che anticipa il professionista. La formazione rossoblù è praticamente fallita, ma decide comunque di disputare i Playoff, a spese proprie. Montero è lì, con i giocatori che ha allenato per parte della stessa stagione: perderà contro il Matelica, ma non importa. Avrebbe potuto dimettersi, come fatto da tanti altri: avrebbe potuto far valere le sue ragioni, ma no. Era sulla panchina a guidare la sua squadra, segno di lealtà a oltranza.

“Loro hanno una cosa che va oltre il calcio, che è la dignità: hanno mostrato dignità, e già basta”.

Da giocatore, comunque, non ragionava in maniera differente: sempre a difesa dei compagni, sia dal punto di vista calcistico che da quello umano. La squadra veniva prima del resto: poi, certo, non mancava la “furbizia” propria, a detta sua, dei calciatori latini.

“Ci sono calciatori che sul terreno di gioco ne combinano di tutti i colori e poi, al di fuori, sono corretti. Per me conta la lealtà nella vita. E io sono leale”,ha raccontato al Corriere della Sera.

È arrivato in Italia nel 1992, quando l’Atalanta lo acquista dal Peñarol, spinta anche dalla pesante etichetta che gli è stata attribuita, in Uruguay, da César Luis Menotti, ex commissario tecnico dell’Argentina campione del mondo del 1978, che lo paragona a un certo Daniel Passarella. Mica uno qualunque.

Con “El Caudillo” Montero aveva senz’altro in comune le qualità da leader in campo e fuori, oltre ai piedi buoni: che per un difensore, in quegli anni, era una qualità rara. Anche suo padre, Julio Montero Castillo, giocava in difesa: aveva vestito le maglie di Nacional, Independiente e Granada, vincendo due coppe Libertadores e due Intercontinentali. Il gene era quello giusto, insomma.

A Bergamo viene allenato da Marcello Lippi, che rimane stregato dalla sua importanza in campo in termini di equilibrio tattico e tecnico: i due si separano al termine della prima stagione dell’uruguaiano in nerazzurro, ma si ritroveranno pochi anni più tardi. Anche perché dopo aver vissuto una retrocessione e una successiva promozione, Montero viene chiamato dallo stesso Lippi alla Juventus nel 1996, in una delle più classiche sliding doors del calcio.

“Avrei potuto giocare tutti i Derby d’Italia che ho disputato con la maglia dell’Inter, visto che prima di andare alla Juve ero vicino ai nerazzurri”, ha spiegato a TuttoJuve.

Fosse andata così, probabilmente staremmo raccontando un’altra storia, caratterizzata da un altro numero di trofei in bacheca: quelli con la Juventus sono ufficialmente 10 (11 con il campionato 2004/05), compresi 4 Scudetti e una Coppa Intercontinentale. Sì, come Julio Montero Castillo: di padre in figlio.

Paolo Montero Juventus RomaGetty

La sua esperienza in bianconero è stata caratterizzata anche dalla definizione di “giocatore duro”, che si è trascinato fino alla fine della carriera, e oltre: nel marzo del 2000 si rende protagonista di un episodio che segna una sorta di spartiacque nella visione europea della sua figura da calciatore.

È una delle notti più difficili della storia della “Vecchia Signora” in una competizione UEFA: il Celta Vigo è chiamato a ribaltare l’1-0 del “Delle Alpi”, ma non trova poi così tante difficoltà nel farlo. All’intervallo gli spagnoli stanno già 2-0 con un goal di Makélélé e un’autorete di Birindelli, con i bianconeri in dieci uomini per un’espulsione per doppia ammonizione di Antonio Conte. Prima dell’intervallo Montero rifila una gomitata a Valerij Karpin: cartellino rosso.

“Contro il Celta non sono stato furbo, è vero. So di avere sbagliato, ma non mi vergogno e nemmeno mi pento di nulla”, ha spiegato nella nota intervista al Corriere della Sera, pochi giorni dopo.

Non è il primo e non sarà l’ultimo degli episodi controversi che lo hanno riguardato, da calciatore: nel 1996 colpisce un fotografo al termine della partita tra Vicenza e Juventus, termina 2-1, intervenendo nel corso di un diverbio tra lo stesso operatore e Angelo Di Livio.

“Ho visto un compagno in difficoltà e sono intervenuto: mi è sembrato normale farlo. Adesso mi daranno del cattivo con vigore ancora maggiore rispetto al passato, ma non ho paura di passare per tale”, ha affermato difendendosi, dopo l’accaduto.

La Juventus prende le sue difese, spiegando che quel fotografo non doveva trovarsi lì, in mezzo al campo, per regolamento. Qualcuno scomoda persino Eric Cantona e il suo celebre calcio a Matthew Simmons, tifoso del Crystal Palace: “The King” prende subito le distanze. “Non so se possa essere paragonato al mio episodio”. Non esageriamo.

Quel che ha lasciato dal punto di vista calcistico Montero, comunque, in Italia è un complessivo di 114 partite con l’Atalanta e 277 con la Juventus, con 6 reti totali con i bianconeri: molte, tra l’altro, di testa. Bizzarro, se pensiamo alla sua statura (1,79 m): riusciva comunque a trovare il tempo giusto per inserirsi, palesando un’intelligenza importante che gli ha consentito di ricoprire più ruoli nel corso della sua carriera.

Nel 2005 lascia la Juventus per tornare in Sudamerica: veste prima la maglia del San Lorenzo, poi di nuovo quella del Peñarol, con cui disputa l’ultima partita il 17 maggio 2007 contro il Danubio, prima di appendere gli scarpini al chiodo.

Avrebbe voluto farlo giocando i Mondiali del 2006 con l’Uruguay, ma la sconfitta ai Playoff contro l’Australia glielo ha impedito: della Celeste, comunque, sarà anche capitano ai Mondiali del 2002 e nella Copa America del 2004, conclusa con la sconfitta ai rigori in semifinale contro il Brasile.

Paolo Montero coachGetty

Dopo essersi ritirato studia e si forma, prima come procuratore, poi come allenatore: inizia al Peñarol, come tecnico ad interim tra Jorge Fossati e Pablo Bengoechea (3 partite tra novembre e dicembre del 2014), poi siede sulle panchine di Boca Unidos e Colon, in Argentina. Quest’ultima opportunità, dall’estate del 2016, lo lancia spianandogli la strada verso il Rosario Central, che a gennaio del 2017 lo nomina nuovo tecnico della prima squadra.

Ma l’Italia lo chiama: è praticamente la sua seconda casa, visti gli anni che ha trascorso nel Paese da calciatore: ed è qui che il suo destino e quello della Sambenedettese si incontrano. L’epilogo lo abbiamo citato: dopo una prima stagione conclusa con l’eliminazione ai Playoff, nella seconda sulla panchina rossoblù Montero vive, come tutta la squadra, una situazione ai limiti dell’assurdo, con una società praticamente fallita a pochi mesi dalla fine del campionato, nel 2021. Non si arrenderà: non lo ha mai fatto.

Neanche dopo l’esperienza da allenatore del San Lorenzo, conclusa con l’esonero del 21 ottobre dello scorso anno: testa bassa e ripartire. In estate arriva la chiamata della Juventus per l’Under 19: la sua esperienza in Youth League è partita con una sconfitta contro il PSG e un pareggio contro il Benfica, ma ciò che ha aperto il dibattito, in Italia, è la possibilità di vederlo sulla panchina della prima squadra in sostituzione di Massimiliano Allegri. Due caratteri differenti, nel profondo: il “corto muso” di Allegri contro la filosofia cruda e diretta di Montero. “Per vincere sono disposto a tutto”, ha spiegato al Corriere della Sera. Che poi questo sia in linea con “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, frase celebre della storia della Juventus, è un caso. Forse.

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