Pubblicità
Pubblicità
Savio Real Madrid 26052016Getty Images

Savio Bortolini, al posto giusto nel momento giusto: 3 Champions col Real Madrid

Pubblicità
Archivio StorieGOAL

Trovarsi nel posto giusto al momento giusto non è la cosa più semplice di questo mondo. A volte sei dove dovresti essere, ma il timing semplicemente non è quello corretto. E altre volte può accadere il contrario. Questione di bravura, certo. Ma serve anche una discreta dose di fortuna. Come diceva lo scrittore austriaco Arthur Schnitzler, “essere pronto è molto, saper attendere è meglio, ma sfruttare il momento giusto è tutto”.

Quando Savio Bortolini sbarca al Real Madrid nel dicembre del 1997, non è sicurissimo di dove sia capitato. Il posto è quello giusto, ci mancherebbe. Il momento, mah. Il Real ha appena vinto la Liga sotto la guida di Fabio Capello, ma sta vivendo una stagione di alti e bassi. E soprattutto non conquista la Champions League, che fino a qualche anno prima si chiamava Coppa dei Campioni, da un'eternità: 32 anni. Vi partecipa a stagioni alterne, del resto. In quegli anni a qualificarsi sono solo le prime dei rispettivi campionati, dal '97/98 anche le seconde. Mica come oggi. Oltre alla vincente dell'edizione precedente. E l'ultima volta che i Blancos hanno alzato il trofeo è stata nel 1966.

4 anni e mezzo più tardi, quando Savio lascia il Real Madrid – inizialmente in prestito, poi a titolo definitivo – si rende conto di aver sfruttato in maniera perfetta l'occasione che la vita gli ha offerto su un piatto d'argento. La Champions League l'ha conquistata, eccome. Non una volta, ma tre. Oltre a una Liga, a una Supercoppa di Spagna, a una Coppa Intercontinentale. Magari non da protagonista indiscusso, ma poco importa: nella storia del Real è impresso, marchiato a fuoco, anche il suo nome.

E dire che Savio nemmeno dovrebbe arrivarci, al Real Madrid. Nelle settimane del suo trasferimento in Spagna, la sua destinazione pare essere un'altra. Magari il Valencia, che vorrebbe inserirlo nella trattativa per la cessione a titolo definitivo di Romario al Flamengo. Ma soprattutto il Deportivo La Coruña, in quegli anni potenza del calcio iberico, che rivendica un'opzione preferenziale con i brasiliani e minaccia di adire le vie legali. Il Real taglia per primo il traguardo inserendo nell'operazione Zé Roberto, il futuro highlander di Bayer Leverkusen e Bayern, e si aggiudica uno dei gioielli più luminosi del futebol brasiliano.

La corsa a Savio è del resto giustificata da quel che il mancino di origini italiane nato a Vila Velha, nello Stato dell'Espirito Santo, ha mostrato nei suoi anni in patria. Sin da giovanissimo, al Flamengo lo chiamavano “il nuovo Zico”. Nel 1992 ha conquistato il campionato brasiliano a 18 anni, anche se da giovane del vivaio aggregato alla prima squadra. Nel 1995, anno del centenario rubronegro, ha fatto parte di un tridente da sogno con Romario e Edmundo, naufragato nel nulla “perché il resto della squadra era scarso, e poi tutti pensavano prima a se stessi che al bene comune”. Nel 1996 ha partecipato alle Olimpiadi di Atlanta, nelle quali la Seleção è stata estromessa in semifinale dalla sorprendente Nigeria di Kanu, Okocha e Taribo West.

Quando arriva a Madrid, il primo pensiero di Savio è quello di giocare più avanti possibile. “Al Flamengo ho giocato come esterno sinistro qualche volta, ma sono un attaccante”, dichiara durante la presentazione ufficiale, il 9 dicembre del 1997. Il problema è che Jupp Heynckes, l'allenatore di quell'anno del Real, ha un reparto ampio e qualitativo. Ha il totem Raul, la promessa Morientes, il serbo Mijatovic e il croato Davor Suker. Trovare spazi è complicato. E così Heynckes, così come gli allenatori che si succederanno sulla panchina madridista, lo utilizza come ala, sfruttandone la rapidità, l'eleganza e un piede sinistro delicatissimo.

Savio esordisce col Real Madrid il 4 gennaio 1998, in casa del Betis. Gioca 17 minuti nel finale e il Real Madrid perde per 3-2. “Primo pallone toccato e Otero mi fa volare per aria con un'entrataccia – ha ricordato – Roberto Carlos è venuto da me e mi ha detto: 'Benvenuto in Spagna'. Mi è stato d'aiuto”. Trova il suo primo gol già alla terza presenza, in un 1-1 nel derby con l'Atletico Madrid, salvato dal futuro rossonero José Mari nel finale. Chiuderà a quota 3 centri in una Liga che il Real abbandona tutto sommato presto. Lo vince il Barcellona, quel campionato. Secondo l'Athletic. Terza, distanziata di 10 punti e in compagnia della Real Sociedad, la squadra di Heynckes.

Poco male: tanto l'obiettivo numero uno è un altro. “La prima cosa che ho sentito quando sono arrivato era il sogno Champions League. Nello spogliatoio non si parlava d'altro”. E in Europa, in effetti, il percorso procede spedito. Il Real passa il girone con due punti di vantaggio sul Rosenborg, elimina nei quarti di finale il Bayer Leverkusen e in semifinale il Borussia Dortmund. 32 anni dopo Bruxelles, Gento, il 2-1 al Partizan, le Merengues sono nuovamente in finale. A por la Séptima. Ad Amsterdam se la vedranno con la Juventus di Lippi, di Zidane, della coppia dei sogni Del Piero-Inzaghi.

“Dopo la gara di ritorno di Dortmund – ha ricordato Savio – gli organizzatori della UEFA hanno portato delle casse di champagne nel nostro spogliatoio per i festeggiamenti. Bene: Fernando Hierro ha aperto la porta e le ha riportate fuori. Dicendo al gruppo, in maniera animata, che non avevamo ancora conquistato nulla. Che c'era ancora un'ultima partita da vincere. Dovevamo alzare la coppa dopo 32 anni, il resto non contava nulla. Lì ho imparato molto”.

In quelle settimane, Savio non è l'uomo copertina. Gioca da titolare l'andata dei quarti a Leverkusen, subentra dalla panchina nel ritorno, quindi salta le due semifinali a causa di un serio infortunio muscolare. Uno degli innumerevoli che costellano la sua carriera. Rimane ai box per un mese e mezzo, fa in tempo a tornare per la grande sfida con la Juve, ma va in panchina e vi rimane per tutti i 90 minuti. Guarda i compagni battere da sfavoriti l'armata di Lippi grazie a un guizzo ante VAR di Predrag Mijatovic, partito in sospetto fuorigioco. 1-0 e Séptima al Real. Dopo più di tre decenni. Un'impresa che Savio deciderà di imprimersi su una coscia sotto forma di tatuaggio.

“Se non avessimo vinto, sarebbero stati 33 anni di fila senza quella coppa. Arrivare in finale e perdere non sarebbe servito a nulla. Ma abbiamo vinto per 1-0, spezzando quel tabù. Madrid è esplosa di gioia, non avevo mai visto una cosa del genere. L'attesa per quel trionfo, dopo così tanto tempo, era enorme”.

1998 Champions League final Real Madrid JuventusGetty Images

Il 1998/99 del Real Madrid è invece complicato, tra una Liga nuovamente finita al Barcellona e una Champions League mediocre chiusa ai quarti contro la Dinamo Kiev. In panchina inizia Guus Hiddink e finisce John Toshack. Tra Savio e il gallese, che in seguito allenerà pure il Catania in Serie B, non è amore: “Il peggiore che mi abbia allenato. Non mi piaceva lui e non mi piaceva la sua gestione del gruppo”. Qualcosa da salvare, in ogni caso, c'è: Savio alza da titolare la Coppa Intercontinentale contro il Vasco da Gama, una sorta di derby personale, e ha una continuità fisica che, statistiche alla mano, raramente ha trovato in carriera, giocando 34 volte su 38 in campionato e 7 su 8 in Champions.

L'anno seguente Savio viene nuovamente tormentato dagli infortuni, perdendosi parte della stagione tra gennaio e marzo 2000. Ma quando torna in campo non si ferma più. Vicente del Bosque, l'eterno allenatore a interim che ha preso il posto di Toshack avviandosi finalmente a una carriera di lusso, gli dà fiducia e una maglia da titolare. E il mancino lo ripaga, servendo – di destro! – un cross al bacio per Anelka nella semifinale di ritorno di Champions League contro il Bayern. Il Real perde per 2-1, ma poco importa: è nuovamente in finale, due anni dopo Amsterdam. Contro il Valencia, in un derby tutto spagnolo mai visto prima.

Allo Stade de France Parigi, Savio non c'è. O meglio: c'è, ma parte dalla panchina. Spazio a un 3-4-1-2 piuttosto inedito nella storia madridista, con Raul dietro alla coppia Morientes-Anelka e i terzini Salgado e Roberto Carlos autorizzati a spingere sulle fasce. La chance arriva a una ventina di minuti dalla fine, quando il Real è già avanti di due reti: fuori Morientes, dentro Savio. Che poco dopo raccoglie palla nella propria area sugli sviluppi di un corner avversario e lancia perfettamente Raul, che si proietta verso Cañizares, lo supera in dribbling e deposita in porta il pallone del 3-0. L'Octava è del Real Madrid.

Pancia piena? Niente affatto. Altro giro, altro titolo: la Liga del 2001, con 7 punti di vantaggio sul Deportivo La Coruña campione 12 mesi prima. Savio gioca 27 volte e segna 3 reti. In Champions, invece, la corsa si ferma in semifinale contro il Bayern. Ma il Real si rifà l'anno dopo, conquistandosi un'altra finale e uscendo nuovamente trionfatore. 2-1 al Bayer Leverkusen a Glasgow, la perla “impossibile” di Zidane sul cross di Roberto Carlos, il contributo decisivo del giovane Iker Casillas. Terza coppa in 5 anni. Festeggiano tutti e festeggia anche Savio, che però quella partita non la gioca a causa di uno dei soliti infortuni.

Il brasiliano inizia a comprendere la realtà: il suo tempo al Real Madrid si è esaurito. Durante l'anno ha giocato appena 8 volte in Liga, chiuso anche dall'arrivo di Zidane e dalla galacticizzazione in corso. E così, nel 2002 il divorzio è inevitabile. Prima in prestito al Bordeaux, portato al quarto posto in Ligue 1 a 4 lunghezze dal Lione campione. E poi, questa volta a titolo definitivo, al Real Saragozza 12 mesi dopo. Separazione serena, senza traumi, addolcita dal ricordo di un'esperienza difficilmente dimenticabile. Amsterdam, Parigi, Glasgow. 3 Champions League vinte in 4 anni e mezzo, una media da urlo.

“È difficile dire quale sia stata la più importante. Quella del 1998 è stata speciale, perché era la mia stagione d'esordio e il club veniva da 32 anni senza alzare la Champions. La seconda, nel 2000, rappresenta un ricordo forte per l'apporto decisivo che ho dato nelle partite finali. E nel 2002 ho chiuso la mia esperienza al Real con l'ennesimo titolo europeo”.

Il secondo Savio è quello che si divide tra il Brasile, la solita Spagna e Cipro. Rinasce al Saragozza, dove vive un triennio ad altissimi livelli e aggiunge una Coppa del Re al proprio palmares. Nel 2006 torna al Flamengo accolto come un re, ma vi resta appena pochi mesi, ammaliato dalle sirene europee. Sprazzi di Real Sociedad e Levante, quindi la Ferroviaria, dove tutto era iniziato 20 anni prima. Infine l'ennesimo guizzo all'Anorthosis, dove sfida anche l'Inter nei gironi della Champions League 2008/09, prima di chiudere definitivamente nel 2010 con il piccolo Avaí.

Rimpianti? Uno, forse: il rapporto praticamente mai nato con la Seleção. Savio viene convocato per la Copa America del 1995 e per le Olimpiadi a stelle e strisce dell'anno seguente, in cui inizialmente lascia in panchina addirittura il Fenômeno Ronaldo. Poi, una volta trovata la propria dimensione nel Real Madrid, cade inaspettatamente nell'oblio. Un paio di chiamate e poco altro. Niente Mondiali del 1998, niente Mondiali del 2002.

“Ma non punto il dito contro nessuno. Quando sono stato convocato in Nazionale, ho sempre cercato di dare il massimo per la squadra. Aver conquistato la medaglia di bronzo ad Atlanta è qualcosa di cui vado orgoglioso. Non è semplice giocare un'Olimpiade e non lo è vincere una medaglia. Per cui è qualcosa a cui bisogna dare valore”.

Oggi Savio ha 48 anni e vive a Florianopolis, nel Sud del Brasile, dove ha concluso la propria carriera con l'Avaí. Il suo legame con il calcio è basato sulla Savio Soccer, agenzia che cura gli interessi di giocatori in erba. Gestisce anche la Bortolini Patrimonial, impresa di investimenti immobiliari. Ed è sempre nei cuori dei madridisti. Tanto che a mesi alterni gli arriva una telefonata da qualche giornalista spagnolo desideroso di ricordare i tempi passati. Le risposte di Savio, peraltro, non sono quasi mai banali. Come quando gli hanno chiesto di scegliere due delle reti più importanti della sua vita e lui ha optato per... due assist:“Quelli per Raul in un 2-2 al Camp Nou contro il Barcellona, nel 1999/2000. Li porto nel cuore”.

Nelle leyendas del Real c'è spazio anche per lui: nel 2017 ha sfidato le vecchie glorie della Roma in una gara di beneficienza. Ma se gli chiedete quale sia stata la partita indimenticabile della sua carriera, vi sorprenderà di nuovo: “Saragozza-Real Madrid 3-2, finale di Coppa del Re del 2004. Io giocavo nel Saragozza. Abbiamo battuto uno squadrone”.Con tanto di assist del brasiliano, ex per nulla al veleno ma velenosissimo, per l'1-1 di Dani Garcia. Nulla in confronto all'incredibile 6-1 che Diego Milito e soci rifileranno al Real due anni dopo, sempre in Coppa del Re. In quell'occasione, però, Savio è ancora una volta fuori per infortunio. Forse il più dolce della sua carriera.

Pubblicità

ENJOYED THIS STORY?

Add GOAL.com as a preferred source on Google to see more of our reporting

0