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Milan celebrate Supercoppa Italiana 2016Getty Images

Pasalic, Paletta, Lapadula: com'è cambiato il Milan dalla Supercoppa 2016, ultimo trofeo prima di oggi

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Erano già tempi di incertezze societarie. Più che di incertezze, di vere e proprie turbolenze. Il tramonto di Silvio Berlusconi, il fantasma Bee Taechaubol che in seguito avrebbe fatto spazio all'illusione Yonghong Li. Sullo sfondo, un Milan decaduto costantemente a caccia di un'identità perduta da tempo. Eppure capace, in un modo o nell'altro, di provocare qualche moto d'orgoglio nella propria gente, frustrata dall'impietoso paragone tra il Diavolo vincente e quello dal tridente (a volte anche quello d'attacco) spuntato.

L'ultimo Milan vincente prima della grande gioia firmata Pioli, Tonali, Maignan, Leão e compagnia esultante si colloca lì. Sei anni fa. In un momento tra i più tetri della storia rossonera. La Supercoppa Italiana del 2016 è ricordata ancor oggi con un discreto e inusuale affetto, per tutto quel che ha rappresentato e rappresenta. Perché è l'unico trofeo conquistato in un decennio e passa, dal bis allegriano del 2011 Scudetto/Supercoppa ai giorni nostri. Perché l'avversario di quella partita secca è la Juventus cannibale, destinata a fine annata a raggiungere la seconda finale di Champions League in tre stagioni (e a vincere il campionato, ovvio). E perché quello è un Milan povero, vagabondo sul mercato, depresso, apparentemente senza una via d'uscita.

Quel 23 dicembre del 2016 a Doha, in Qatar, il Milan di Vincenzo Montella mette in campo orgoglio e sudore. E se la gioca fino alla fine. Viene punito nel primo tempo da Giorgio Chiellini sugli sviluppi di un angolo, sembra dover crollare da un momento all'altro, si riporta in partita già prima dell'intervallo grazie a un'inzuccata vincente di Jack Bonaventura. Trascina la partita fino al 90'. Poi fino al 120'. E si impone ai rigori. La sequenza finale la ricordano un po' tutti: la manona aperta di Donnarumma sbarra la strada a Dybala, come sarebbe accaduto un lustro più tardi a Wembley con Saka, poi è Mario Pasalic a infilare sotto l'incrocio l'esecuzione decisiva.

Donnarumma penalty Dybala Juventus Milan Supercoppa Italiana 2016Getty Images

Punti in comune tra quel Milan e il Milan di oggi? Non ce ne sono, sostanzialmente. O meglio: ce n'è solo uno. Alessio Romagnoli era presente a Doha, in quella finale colpì pure una traversa nel secondo tempo, ed è presente nella rosa scudettata. Anche se un infortunio lo ha tolto di mezzo e anche se a Milano rimarrà ancora per poco: in scadenza di contratto, il suo futuro è altrove. Poteva esserci anche Gigio Donnarumma, teorica bandiera che ha scelto, tra polemiche e uno strappo più doloroso di quello provocato da una ceretta, di proseguire a Parigi il proprio percorso di vita calcistica.

Per il resto, negli ultimi cinque anni è stata rivoluzione totale. Il Milan di Doha non ricorda nemmeno lontanamente il Milan odierno. Nei nomi, nella solidità, nel proprio essere futuribile. L'undici schierato in campo quella sera da Montella? Eccolo: Donnarumma; Abate, Paletta, Romagnoli, De Sciglio; Kucka, Locatelli, Bertolacci; Suso, Bacca, Bonaventura. Più il man of the match Pasalic, subentrato a un quarto d'ora dalla fine dei tempi regolamentari. Più Gianluca Lapadula e Luca Antonelli, inseriti da Montella durante i tempi supplementari. E in panchina Gabriel, Luiz Adriano, Honda, Niang, Mati Fernandez, Gustavo Gomez, Poli, Zapata, José Sosa.

C'è un po' di tutto, in quel miscuglio di razze ed esperienze. Ci sono Manuel Locatelli e Mario Pasalic, se vogliamo gli unici due rimpianti di quella rosa assieme a Donnarumma. C'è un uomo Milan come Bonaventura. Ci sono le illusioni, come la coppia Bacca-Luiz Adriano, arrivata a Milano un anno e mezzo prima tra un entusiasmo generale ben presto scemato, nonostante i buoni numeri del colombiano (31 reti in un biennio). Oppure Keisuke Honda, il giapponese dalla classe lampeggiante come quella di Suso. Ci sono sudamericani di secondo o terzo rango, come Gustavo Gomez, Mati Fernandez e il “Principito” Sosa. C'è Gianluca Lapadula, il centravanti sensazione del Pescara, strappato alla concorrenza di mezza Italia tra cui la Juve: oggi, stranezze del calcio, sogna contemporaneamente di andare al Mondiale e di tornare in A col Benevento.

Lapadula Milan fansGetty Images

C'è chi con il calcio di vertice ha chiuso da tempo. Poli, Kucka e Bertolacci giocano in Turchia. Paletta ha ritrovato Berlusconi e Galliani al Monza, in Serie B. Antonelli si è trasferito negli Stati Uniti, al Miami FC. Zapata è in Argentina col San Lorenzo. Mati Fernandez è tornato in patria. Montolivo e Abate con il calcio hanno chiuso in tutti i sensi: si sono ritirati rispettivamente nel 2019 e nel 2020.

Da quel 2016, è stata fatta tabula rasa. Lentamente, faticosamente, non senza errori. In sei anni, tutto è cambiato. Ai piani alti, con l'ingresso di Elliott, di Paolo Maldini, di Ricky Massara. In panchina, dove Stefano Pioli ha saputo rispedire al mittente tutte le perplessità (eufemismo) scatenatesi al momento della sua nomina, nonché la concorrenza di Ralf Rangnick. E soprattutto in campo. Il Milan ha saputo pescare bene sul mercato. È ripartito dal duo Ibrahimovic-Kjaer, una sorta di “arrivano i nostri” versione invernale (gennaio 2020). Attorno a loro ha iniziato a ricostruire. Ha trovato giovani di valore assoluto senza minacciare la propria stabilità finanziaria: i Tomori, i Theo, i Rafael Leão, i Tonali, i Kalulu, i Maignan. Vero, ha perso Donnarumma e Çalhanoglu a zero e a zero si prepara a perdere anche Kessie. Ma il suo cammino non si è inceppato.

2016-2022. In mezzo lacrime, sofferenza, sudore. E non poche umiliazioni. Le cose formali by Mirabelli&Fassone, divenute ben presto cose infernali. La toccata e fuga di Leo Bonucci, da Torino a Milano e da Milano a Torino in un nanosecondo. Quella di Gonzalo Higuain. Nessuno credeva nel progetto Milan. Semplicemente perché un progetto pareva non esserci. Il fondo è stato toccato con il celeberrimo 0-5 del Gewiss Stadium, quando l'Atalanta pareva il Diavolo dei tre olandesi e i rossoneri una squadretta di quartiere. Una batosta “che ci è servita per capire tante cose”, ha spiegato Pioli. Compreso il fatto che no, così proprio non si poteva andare avanti.

Godendosi un presente a tinte tricolori, e in attesa di capire cosa riserverà il futuro a livello societario, il passato non fa più così paura. La Supercoppa del 2016, flebile stella in un cielo più nero che rosso, appare oggi così lontana. Da Gomez a Tomori, da Kucka a Tonali, da Luiz Adriano a Leão. Diavolo, se ne hai fatta di strada.

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