Come si racconta il più grande centravanti della storia del calcio? Sono rimasto ore a pensare a questa cosa, a farmi ronzare in mente questa domanda come una zanzara fastidiosa, di quelle che quando vuoi dormire e sei stremato, la testa sul cuscino e i muscoli sfatti, prende a gironzolarti accanto all’orecchio e non c’è verso di farla smettere. Allora ti alzi, accendi la luce e, di colpo, ti risvegli, trovi le forze e hai un obiettivo: trovare quella maledetta.
Ecco, questo è pensare a Marco Van Basten. Un’illuminazione folgorante che ringalluzzisce i sensi e ti costringe a ridare tono ai pensieri sopiti. Il numero 9 olandese che l’Italia ha avuto la fortuna, sfacciata, di conoscere da vicino, ma solo per qualche anno. Sei, per l’esattezza, prima che le caviglie cominciassero a sussurrare al Cigno di Utrecht che l’ultimo canto era già arrivato, impietoso, per spezzare una delle carriere più belle e incompiute della storia di questo sport.
Per raccontare Van Basten, mi sono detto, devo partire per forza da un ricordo. La tenda della camera da letto di mia nonna, io bambino di cinque anni, mio zio che gioca con me a nascondino. Sembra che tutto questo non c’entri nulla con il calcio, eppure. Eppure mio zio, dopo poco – io, fanciullo ingenuo, penso che una tenda trasparente possa proteggermi dalla vista altrui – mi scova nel mio nascondiglio a prova di bomba e io salto in aria dalla paura. Allora lui mi calma, smettiamo di giocare, ci sediamo e cominciamo a parlare. E di cosa si parla con un bambino che quasi singhiozza dal terrore per uno spavento improvviso? Semplice, di calcio.
Mi chiede, allora, chi fosse il mio giocatore preferito della Serie A. E' l'inizio anni Novanta, le Notti Magiche di Schillaci intraviste da una tivù a tubo catodico in dormiveglia accanto a mia mamma – troppo piccolo per capire a pieno la magia di un Mondiale – e l’Italia che vive un periodo di splendore economico, con Berlusconi che sfida la Rai alla tivù, prepara la discesa in politica e ha vestito di rossonero una squadra di fenomeni. Tra cui lui: Marco. Che si chiama pure come me, motivo che all’epoca mi sembrava un segno del destino, una scommessa alla quale credere sulla parola. Allora rispondo, entusiasta: Van Basten. Mio zio, incuriosito, afferma che mi toccherà tifare per lui da quel momento in poi. La conseguenza è scontata: il battesimo che segna l’anniversario della mia fede calcistica. Cinque anni, una partita di nascondino andata male con un nascondiglio scelto con troppa superficialità e un fuoriclasse olandese dai numeri – in campo e sugli almanacchi statistici – folli.
GettyVan Basten è stato fenomeno e noumeno insieme, domanda e risposta di Gigi Marzullo allo stesso momento, il panettone artigianale, di quelli buonissimi, che dentro non ci trovi i canditi. La perfezione. Quasi trecento reti in carriera in meno di quattrocento partite. Un delitto, come accennato prima, che il destino ha voluto compiere sacrificando sull’altare della sfortuna uno dei suoi più splendidi prescelti. Gesù ha girato l’intero Israele, più di duemila anni fa, spiegando alle persone che incrociava, in riva al Giordano o tra le vie di Gerusalemme, che suo Padre agiva in dei modi a loro sconosciuti, talvolta anche incomprensibili, tutto il contrario di tutto; spingendo l’uomo a dubitare, e perché no, anche ad arrabbiarsi, per ciò che gli capitava. Nessuno ha mai saputo dare un senso all’equilibrio sconclusionato di questa teoria, eppure ancora oggi le chiese la domenica sono piene.
Come gli stadi – specie oggi, che dal silenzio degli impianti chiusi per il Covid si sta tornando alla normalità dei cori – che la domenica (diciamo per dire “la domenica”, ormai si gioca tutti i giorni) continuano a celebrare la festa rituale del pallone. E anche se Marco Van Basten ne è uscito zoppo, con il viso triste e tirato, stretto nel suo giubbotto di renna a salutare la Curva Sud a San Siro in un pomeriggio di ormai troppi anni fa, il calcio è andato avanti lo stesso.
Di lui resta l’iconografia di alcuni momenti, dalle quaterne in Coppa dei Campioni, fino al goal gioiello contro l’Unione Sovietica nella finale degli Europei del 1988, quando il 25 giugno le leggi della fisica si fermarono nel preciso istante durante il quale il collo piede del centravanti olandese impattò il pallone spiovente che arrivava dalla fascia sinistra, per infilarlo con una parabola di potenza e precisione alle spalle di Dasaev, il portiere sovietico, che più di incassare uno dei goal più belli di sempre non poté fare.
Getty ImagesQuesto era Marco Van Basten, l’istinto del goleador mischiato alla grazia della ballerina di danza classica. Uno dei regali più fragili mai donati agli amanti di questo sport. Ancora oggi quando arriva un centravanti poderoso, magari qualche ragazzone nordico dal goal facile e la falcata dirompente – un Haaland, per capirci – la gente scomoda il paragone; quello che accadeva con Maradona fino all’avvento del figlio suo prediletto, Leo Messi.
Perché questo è il miracolo del calcio: che anche se ti ritiri a trent’anni, quando la tua carriera era ancora una catapulta pronta a sprigionare la forza elastica dei tuoi tendini, il calcio non ti dimentica. Ti fa rivivere nei volti, ma soprattutto nei piedi, nei gol, nelle gesta, di chi è giunto dopo. Come se fosse una reincarnazione ciclica del sublime. Uno spettacolo eterno di ricordi e speranza. Quella che se lui, Marco, non può tornare, almeno arrivi qualcuno che ci ricordi come cantava quel fragile, bellissimo, malinconico, Cigno di Utrecht. L'uomo che dallo spavento di un bambino di cinque anni tirò fuori una fede immortale.


