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Kobe BryantGetty

L'Italia di Kobe Bryant: i ricordi dei suoi amici di Reggio Emilia

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"Guarda, avresti mai pensato che uno dei migliori giocatori dell'NBA sia cresciuto qua, non puoi essere più lontano da Los Angeles, vuol dire che ogni sogno è possibile". L'ultima volta che ha messo piede a Reggio Emilia, Kobe Bryant lo ha fatto a modo suo, parlando così alla sua crew che lo accompagnava dagli States. Strana materia quella dei sogni, malleabile solo da chi ha il coraggio di non abbandonarla mai. C'è una parola che ho assorbito, chiacchierando con le persone che lo hanno conosciuto quando, a Reggio, lui era per qualcuno un compagno di classe, per qualcun altro un compagno di scuola, per altri ancora un allievo, per tutti semplicemente Kobe: determinazione.

"Ricordo quando a 10 anni si fece male a un ginocchio, nulla di grave, e rientrando nello spogliatoio provammo a rincuorarlo perché piangeva. Ci disse che quell'infortunio avrebbe potuto precludergli l'arrivo in NBA, noi a quel punto siamo esplosi in una risata". 

Eccolo il primo aneddoto che il suo compagno di squadra Davide Giudici mi racconta. Intorno a noi il campo blu, le voci dei bambini che escono da scuola e il suo sguardo che viene catturato dal canestro.

"Noi eravamo malati di basket, ma lui era l'unico che non faceva una vita da bambino. Sembrava cinque o sei anni più grande, ogni volta che finiva allenamento correva a casa a tirare a canestro nel giardino di casa".

Davide mi ha parlato di costanza e determinazione, di quella ossessione che anche i compagni di classe stigmatizzavano con le più classiche prese in giro adolescenziali. "Kobe, ma dove vuoi arrivare? Tua sorella quando vi affrontate a Basket te le dà", mi racconta Giada Maslovaric prima di parlarmi del momento più emozionante del periodo scolastico; "abbiamo provato per tanti giorni lo spettacolo di fine anno, lui invece è arrivato e in cinque minuti ha lasciato tutti a bocca aperta, ballando in freestyle".

Sorprendente Kobe, non esattamente l’alunno modello, ma sorprendente. La direttrice dell’Istituto San Vincenzo ci accoglie con un sorriso stiracchiato, era la sua insegnante alle medie. Il suo sgardo si perde tra gli scaffali finché non estrae un almanacco del 1991. Eccolo Kobe, in costume sul palco a ballare, immortalato in una foto. Ci racconta di quegli anni, di quanta fosse l’energia che sprigionava Kobe tra i banchi e sotto canestro, prima di mostrarci il corridoio della sua classe. Il ricordo si trascina, quasi stanco, su quelle ore passate in quella classe con lui, tornato a trovarla una decina di anni fa. Non si scordava di nessuno Kobe, neppure delle sue insegnanti, figuriamoci dei suoi compagni di squadra che nel 2016 gli hanno organizzato quella che purtroppo, domenica sera, è diventata l’ultima visita di Kobe in Italia. “Ciao Davide, ti vedo in forma, giochi ancora?” “si Kobe, e tu invece come mai no?” “Amico mio, ero un po’ stanco”. L’ultima conversazione di Davide con Kobe scivola via come il suo sguardo verso il canestro alla sua destra, calamita irresistibile, mentre l’ultimo pensiero di Giada si piega al rimorso di non averlo mai visto dal vivo. 

“Oggi gli direi che mi dispiace, mi dispiace che dieci anni fa mi aveva chiesto di andare a Los Angeles a guardare una sua partita e io non sono andata. Gli ho detto che avremmo potuto prenderci una pizza e una birra assieme, lui mi ha preso in giro perché non poteva mangiare pizza o bere birra con il lavoro che faceva, ma a me sarebbe solo piaciuto tornare a quella normalità, di quando prendavamo il gelato in bici, a Reggio Emilia”.

I suoi occhi ruotano verso l’alto, “ciao Kobe”.

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