Quando Neymar, dopo essersi infortunato in una poco significativa amichevole contro il Qatar nel giugno del 2019, annunciava la propria assenza dalla Copa America che si sarebbe disputata proprio in Brasile di lì a pochi giorni, qualcuno correva a controllare il calendario: ma non sarà mica il compleanno della sorella? No, non lo era. L'assenza del campione del Paris Saint-Germain, questa volta, non lasciava adito a perplessità e dietrologie. Neymar dolorosamente fuori dalla Copa. Come era già accaduto cinque anni prima ai Mondiali, giocati sempre in casa e miseramente naufragati, senza di lui, nel mare infernale del 7-1 tedesco.
Due anni dopo, Neymar c'è. E ora ha un sogno neppure troppo nascosto: trionfare per la prima volta con la Seleção. Esattamente come Lionel Messi, di fronte nella sfida da mille e una notte. I trofei in serie con Santos, Barcellona e PSG, la Copa Libertadores e la Champions League, la Liga e la Ligue 1, sono già il passato. E non bastano più. La nuova sfida, la più affascinante, è questa: rendere di nuovo felice un paese calcistico che felice lo è già stato due anni fa, stessa spiaggia e stesso mare, Rio de Janeiro e il suo Maracanã. Contro il Perú di Paolo Guerrero, allora; contro l'Argentina di Messi oggi (calcio d'inizio alle ore 2 italiane, un bel mate e passa l'abbiocco). Tutta un'altra storia, rispetto ai pur valorosi peruviani. Perché questa volta, nello scontro tra i titani del calcio sudamericano, nella partita migliore e più appassionante che ogni appassionato potesse immaginare, servirà davvero l'apporto del più bravo.
Oddio: Brasile e Argentina, in verità, si sono sfidate anche nella semifinale della scorsa edizione. Senza Neymar. Era seduto in tribuna al Mineirão di Belo Horizonte, lo stesso stadio della tragedia nel 2014, quando la Germania sconquassava sotto i suoi occhi quel che restava della Seleção. Eppure la squadra di Tite si è imposta per 2-0, accedendo alla finalissima. Ed è forse anche per questo che, dopo aver faticosamente superato il Perú grazie a una rete di Lucas Paquetá (la seconda decisiva in due partite a eliminazione diretta), l'astro del PSG ha sparato: “Ora voglio l'Argentina. Contro la Colombia tiferò per loro. E in finale vinceremo noi”.
Un successo rappresenterebbe il coronamento di una Copa America di altissimo livello per Neymar. Che in realtà ha segnato appena due reti, raccontano i numeri. Solo che a volte i numeri nascondono parzialmente la realtà delle cose. Perché è il quadro complessivo ad abbagliare. Prestazioni sopra la media, giocate di alta classe, assist smarcanti per i compagni: per Paquetá sia contro il Cile che contro il Perú, ad esempio, o per Gabigol contro il Venezuela. Non sono mancati nemmeno i soliti giochetti, ovviamente. Controlli di suola, colpi di tacco buoni per allietare la platea (televisiva), addirittura una sponda con la schiena. Piacciono a lui, piacciono ai suoi sostenitori. Agli avversari, insomma.
“Quando sta vincendo per 3-0 o 4-0, non dimostra di essere un campione – ha detto all'edizione argentina della 'ESPN' Oscar Ruggeri, l'ex difensore campione del Mondo nel 1986 assieme a Diego Armando Maradona – Non è come Messi. Non ha un codice di condotta nei confronti di un avversario già al tappeto. L'altro giorno il Brasile stava vincendo per 4-0 contro il Perú, un avversario dominato, la partita praticamente già finita, e lui continuava a fare i suoi numeri da circo”.
Ma Neymar è così. Lo è sempre stato. Prendere o lasciare. E i brasiliani, almeno la stragrande maggioranza, hanno deciso di prendere. Qualcuno, però, resiste stoicamente. Sarà per quel suo particolare atteggiamento, sarà per quei tuffi che non piacciono nemmeno ai suoi tifosi, sarà per un'immagine extracampo sempre destinata a far discutere. “Perché a molti Neymar non piace?”, si è chiesto qualche anno fa il giornalista locale Mauricio Barros, ex direttore della rivista 'Placar'. Che ha definito il 10 del Brasile “unico supercraque mondiale del paese, erede diretto di Garrincha, Pelé, Rivelino, Zico, Romario, Rivaldo, Ronaldo e Ronaldinho”. Ponendolo un gradino più su rispetto a Kaká, che in Nazionale “è stato quasi sempre opaco”.
AFPGià, ma Kaká il Pallone d'Oro lo ha vinto e Neymar no. Eccola, una delle grandi discriminanti. L'ex rossonero ha fatto appena in tempo, prima di un decennio di dominio della coppia Messi-Cristiano Ronaldo. Il suo connazionale, invece, ha collezionato al massimo un paio di terzi posti, stritolato da una concorrenza impossibile da controllare: il primo nel 2015, al culmine della stagione del secondo Triplete col Barcellona, e il secondo nel 2017, l'anno dello scioccante trasferimento dal Barça al PSG per la cifra record di 222 milioni di euro. Un terzo incomodo, lo abbiamo definito qualche tempo fa. E neppure troppo chiassoso, se è per quello, anche se pesantissimo per quello che è e rappresenta il suo ingombrante personaggio.
“È chiaro che conquistare il Pallone d'Oro è una motivazione, ma non è qualcosa per cui morire – diceva Neymar nel 2016 – Io voglio essere felice. Se non vinco il Pallone d'Oro non è un problema. Io gioco per essere felice, non per vincere premi individuali”.
Pian piano, però, la situazione ha cominciato a cambiare. E quell'incapacità di inserirsi nel duopolio Messi-Ronaldo ha iniziato silenziosamente a tormentare Neymar. Anche perché tutto pare giocare a suo sfavore: ora che i due alieni hanno abbondantemente passato la trentina si è affacciata alla ribalta un'altra super generazione, quella dei Mbappé e degli Haaland. Attenzione, però: il francese è reduce da un Europeo da dimenticare e il norvegese neppure vi ha partecipato. La conquista della Copa America, la seconda di fila del Brasile e la sua prima personale, potrebbe insomma consentire a Neymar di guadagnare qualche punto a dicembre, quando sarà stilata la classifica del Pallone d'Oro 2021.
Considerazioni superflue, in questo momento. Perché Neymar ha in mente solo la grande notte del Maracanã. Col Brasile intero sulle sue spalle e nei suoi piedi. Se Diego Maradona coniò la celebre frase “Mascherano y 10 más”, innalzando l'importanza del Jefecito addirittura al di sopra di quella di Messi, Tite ama andare dritto al punto. Si coccola il proprio punto di riferimento, ampiamente ricambiato in campo. E gli consegna responsabilità mai rifiutate, già dai tempi adolescenziali del Santos, ma sempre più pesanti. Anzi, la più pesante: trionfare per la prima volta con la Seleção, in casa e contro l'Argentina. Da far tremare i polsi a chiunque, ma non a chi gioca “per essere felice”.
