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Johann Vogel, la bandiera rossocrociata che fece innamorare Ancelotti

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Non è facile nascere a Ginevra e diventare una bandiera, o comunque un emblema, del Grasshopper, una delle due squadre di Zurigo. Non diciamo “la prima”, né “la seconda” di Turicum, perché quel derby a base di Züritüütsch è talmente ambivalente che rischieremmo di fare un torto all’una o all’altra società. Certo è che ai titoli il Grasshopper svetta, in quanto squadra più vincente di Svizzera: una nobile decaduta, che però negli anni ha saputo fornire al calcio internazionale grandi talenti e grandi nomi. Di lì sono passati Ciriaco Sforza, Roman Burki, Mario Frick, Senad Lulic, i fratelli Yakin, Reto Ziegler, Steven Zuber e Pascal Zuberbuhler. Di lì, dal 1992 al 1999, ci è passato anche Johann Louis François Vogel, uno che poteva ancorarsi alla propria città, Ginevra, continuare la strada intrapresa con il Meyrin e legarsi al Servette, squadra della capitale. Troppo facile, forse, perché Vogel, colonna portante delle Cavallette per sette anni e della Svizzera per molti altri, sognava il palcoscenico più importante, sognava l’Europa e non fermarsi in casa sua, che fosse Ginevra o la Svizzera.

Johann Vogel nasce nel 1977, negli anni in cui in Svizzera il calcio non ha appeal, non ha presa. La nazionale elvetica si era qualificata ai Mondiali del ’66 in Inghilterra, ma era stata una sparuta comparsata: agli Europei la prima qualificazione sarebbe arrivata nel 1996, mentre per tornare ai Mondiali l’attesa sarebbe stata fino al 1994. Giovanissimo, a nemmeno dieci anni, viene tesserato dal Meyrin, società dell’omonima città, nota per essere la base del principale sito del CERN e di certo non per il calcio. Trascorre un totale di otto anni ai confini con la Francia, fino a quando nel 1992 non arriva la chiamata del Grasshopper: ha appena 15 anni e in squadra con lui ci sono Pascal Zuberbhuler, Joel Magnin, Ciriaco Sforza e Murat Yakin. L’allenatore che lo vuole e che gli permette di esordire così giovane è Leo Beenhakker, il “Don Leo” che aveva vinto tre Liga con il Real Madrid in tre anni, ma che a fine anno avrebbe lasciato la Svizzera. Vogel, che è giovane, ma ha già lo sguardo roccioso, gioca appena tre partite, per lo più da centrocampista arretrato, davanti alla difesa. Lo contraddistinguono una grande precisione nei passaggi, nonostante la struttura pensata per essere un mediano di rottura, unita a una grande capacità di tenere la palla tra i piedi.

Vogel risponde a quegli identikit dei centrocampisti contro i quali non vorresti mai trovarti, quelli che ti rubano la palla con quella che oggi potremmo definire grinta e ai quali toglierla è davvero un problema. Non ha nelle sue corde il dribbling, non va mai nell’uno-contro-uno, ma messo dinanzi alla difesa realizza la prima grande diga per difendere il Grasshopper e la porta di Zuberbhuler. Nel 1994 riesce a diventare titolare di quella squadra, ad appena 17 anni. Quella è una stagione storica per la Svizzera tutta: Vogel è giovanissimo, ma conferma tutte le ottime doti che “Don Leo” aveva visto in lui; Christian Gross, il tecnico delle Cavallette, inizia lentamente ad affiancarlo a Dusan Pavlovic e Marcel Koller, crea una struttura che gli permette di vincere il campionato e di portare il Grasshopper a essere la prima squadra svizzera nella storia del calcio a qualificarsi alla Champions League. Quel 1995 per Vogel diventa l’anno della consacrazione personale, perché dopo aver conquistato il campionato svizzero e aver contribuito alla qualificazione alla massima competizione europea, non solo arriva il debutto in Champions League, il 13 settembre contro il Ferencvaros, ma arriva anche la convocazione nella nazionale Svizzera.

In panchina c’è Roy Hodgson, scelto come allenatore della Svizzera nel 1992: con l’inglese in panchina, gli elvetici, come già detto, arrivano a qualificarsi ai Mondiali e di lì a poco, con Vogel in squadra, riescono a ottenere la qualificazione agli Europei, i primi della loro storia. È un periodo incredibilmente florido per i rossocrociati, perché nelle qualificazioni ai Mondiali, la selezione subisce una sola sconfitta, in un gruppo con Italia, Portogallo e Scozia. Con l’obiettivo di farsi trovare pronti ai primi Europei, Hodgson non poteva non affidarsi ai talenti nascenti del calcio dei Cantoni: da qui all’8 marzo del 1995 è un battito di ciglia, perché all’Olympiako Stadio Athinon, in Grecia, Hodgson decide di lasciare negli spogliatoi, all’intervallo, Christophe Ohrel per far entrare, nel secondo tempo, Johann Vogel. La storia non cambia, perché da difendere c’è sempre la porta di Zuberbhuler, suo compagno di squadra al Grasshopper. Da quel momento, mentre la carriera nella Super League andava avanti permettendogli di confermarsi sempre di più, nonostante la ancora giovanissima età, come uno dei centrocampisti di maggior spessore e tenuta atletica del campionato svizzero, Vogel resta nel giro della nazionale di Hodgson, scendendo in campo anche contro la Germania, da titolare, per 77 minuti il 23 giugno del 95. Nel 1996 gioca da titolare le tre partite del campionato europeo: è il più giovane partecipante alla competizione, non perde nemmeno un minuto e da quel momento in poi, salvo una piccola assenza nel 1997 coincisa con un infortunio, non abbandonerà mai più la Svizzera.

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Vogel, però, aveva iniziato la sua carriera con il sogno dei palcoscenici più importanti. Se Ginevra e il Servette non gli potevano dare il successo, a lungo andare anche il Grasshopper sarebbe diventato riduttivo. Nel 1999, con oramai una carriera longeva alle spalle, nonostante avesse solo 22 anni, arriva la chiamata del PSV di Eindovhen. In Olanda gioca sei anni, diventando uno dei giocatori simbolo della squadra: accanto a lui ci sono Mark van Bommel e Philip Cocu, con i quali crea una delle dighe più rocciose del calcio europeo. Vince quattro campionati e quattro coppe nazionali, oltre al premio di giocatore dell’anno in Olanda nel 2001. Nel 2005 la sua ultima partita internazionale con il PSV Eindhoven gli spalanca la finestra sul futuro. Non rinnova il suo contratto e poche settimane dopo si sarebbe ritrovato senza squadra: non un problema per Vogel, oramai pilastro nonché emblema di quella forza elvetica che sta spopolando nel nord Europa. L’impegno, però, è di quelli importanti, perché il PSV con una cavalcata storica ha saputo superare i gironi di Champions League (battendo Arsenal, Panathinaikos e Rosenborg) e arrivare fino in semifinale: sotto i colpi degli olandesi cadono il Monaco agli Ottavi e il Lione ai Quarti. C’è Farfan in attacco, Ji-Sung Park sulla sinistra, van Bommel, Cocu e Vogel a centrocampo.

L’avversario è il Milan di Carlo Ancelotti, da Maldini a Stam, da Pirlo a Gattuso, da Kakà a Shevchenko. Quello che si permetteva di tenere Inzaghi e Tomasson in panchina. All’andata i rossoneri hanno la meglio per 2-0, al ritorno al Philips Stadion tocca al PSV esultare, ma a metà: al 90’ la rete di Massimo Ambrosini, un colpo di testa da cross di Kakà, permette ai rossoneri di avere la meglio. Inutile il gol di Cocu pochi secondi dopo, in pieno recupero. Il Milan va in finale a Istanbul, per una partita amarissima. Vogel quella gara la guarda da casa, dopo aver sfiorato il sogno per pochi minuti: poche settimane dopo, però, Ancelotti si ricorda di quel centrocampista che lo aveva incantato e decide di chiamarlo al Milan. Un avversario di quella caratura, con quella fame, non poteva non essere preso a parametro zero.

“Farò di tutto per dare una mano al Milan a inseguire il prossimo obiettivo: la finale di Champions a Parigi. Essere qui è un sogno, dirà Vogel alla presentazione.

“Ho giocato per sei anni davanti alla difesa, ma anche sulla fascia, sia a destra che a sinistra. Preferisco stare in mediana, ma al Milan si vedrà. Ho trovato un’organizzazione incredibile e sono felice di stare qui”.

Il Milan, però, quell’anno a centrocampo ha Gattuso, Pirlo, Rui Costa e Ambrosini in panchina. Vogel si pesta i piedi con il primo, che nel suo modo di essere, anche se non fisicamente, ricorda un po’ la rocciosità elvetica. Ancelotti se n’era innamorato durante la semifinale di Champions League, ma in quel Milan sembrava non ci fosse posto e spazio per Johann Vogel, infaticabile falciatore della mediana. Scende in campo per la prima volta in campionato contro la Reggina, in quella cavalcata che porterà il Milan a chiudere il campionato a 88 punti, un record per i rossoneri, vanificato poi dalla sentenza Calciopoli. Per Vogel sfuma l’occasione di vincere in una terza nazione, ma le sue presenze in maglia rossonera sono talmente poche che del suo passaggio a Milanello quasi nessuno si ricorda. Ancelotti, però, di lasciarlo andare via non ne voleva sapere: a gennaio arriva una proposta dal Manchester United, che lo avrebbe voluto con sé in Premier League, ma per il Milan lo svizzero è incedibile. A febbraio, quando arriva la proposta dei Red Devils, Vogel ha giocato sei partite in Serie A, per un totale di 246 minuti, 30 in Champions League e 270 in Coppa Italia, disputata sempre da titolare fino all’eliminazione ai Quarti.

Sapevo che giocare a Milano sarebbe stato difficile, ma quando un club così prestigioso ti contatta fa un effetto incredibile. Resto fiducioso: le cose cambieranno. Vorrei giocare di più prima dei Mondiali, ma ripeto: al Milan sto bene”.

La situazione, però, non cambia e Vogel a fine stagione partecipa al campionato del mondo del 2006 con appena 14 presenze in rossonero e zero goal. La disputa da titolare, dal primo all’ultimo minuto, con la Svizzera che viene sconfitta dall’Ucraina agli Ottavi ai rigori e viene eliminata senza aver subito mai un goal: la porta di Pascal Zuberbhuler - sempre lui - con Vogel e Cabanas a centrocampo e Muller e Senderos in difesa è inscalfibile. In Nazionale quel giovane talento di Ginevra continua a dettare legge, ma al Milan proprio non c’è verso di convincere Ancelotti: il tecnico rossonero, però, non è da criticare, d’altronde con quella squadra aveva vinto il campionato ed era arrivato in semifinale di Champions League, perdendo contro il Barcellona. Era il meglio che si poteva avere in Italia in quegli anni e per Vogel non c’era un dodicesimo slot da coprire in campo.

Il Milan nell’estate del 2006 lo cede, quindi, al Betis Siviglia come parziale contropartita per l’acquisto di Ricardo Oliveira, ma la sua esperienza dura appena un anno a causa di una rottura con Hector Cuper: tra problematiche legali e rescissione del contratto che lo spingono a voler cercare una nuova esperienza, Vogel volge il suo sguardo alla Premier League che gli era sfuggita pochi mesi prima. Con un appeal inferiore, adesso, arriva al Blackburn, dove resta per poco più di un anno decidendo, nell’aprile del 2009, a 32 anni, di appendere gli scarpini al chiodo, due anni dopo aver detto addio alla nazionale Svizzera, da capitano di quella corazzata che aveva fatto la storia del Mondiale vinto dall’Italia. Con tutte le maglie sudate, con tutti gli scarpini rovinati, con la serenità di aver issato una bandiera in Svizzera con il suo nome sopra.

Johann Vogel è stato uno dei centrocampisti più importanti della storia del calcio svizzero: se all’attacco, per vincere, si andava con Marco Streller e Alexandre Frei, in porta lo si faceva con Pascal Zuberbhuler, ma a centrocampo, per far sì che a un Mondiale si venisse eliminati senza subire goal, la soluzione era schierare Johann Vogel. Aveva fatto innamorare Ancelotti, ma persino il tecnico dei record rossoneri non riuscì a realizzare quello più complesso: trovargli un dodicesimo posto in campo, un tassello in più accanto a Pirlo, Gattuso e Rui Costa.

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