Sono passati oltre 11 anni da quel colpo di testa di Diego Godin, che mandò in frantumi la Nazionale allenata da Cesare Prandelli e in pochi, forse nessuno, si sarebbero immaginati che sarebbe stata l'ultima istantanea dell'Italia quattro volte Campione del Mondo sul palcoscenico calcistico più importante di tutti. Quello dei Mondiali.
In questi 11 anni è successo praticamente di tutto: gli Azzurri hanno toccato il punto più basso della propria storia, mancando nel 2017 – per la prima volta dopo 59 anni – la qualificazione alla fase finale della Coppa del Mondo perdendo il doppio Play-Off contro la Svezia. E sprofondando ancora più in basso 5 anni più tardi, quando fu la modesta Macedonia del Nord a sbarrare le porte del Qatar.
Un'eventualità, quella attuale, di mancare il Mondiale 2026, che ha agitato sinistri spettri per la terza volta di fila.
Il paradosso è che, in mezzo ai due momenti più difficili di sempre del movimento calcistico italiano, nel 2021 la squadra guidata da Roberto Mancini mise le mani su un titolo europeo che mancava addirittura dal 1968, soffiandolo in un'epica finale conclusa ai calci di rigore ai padroni di casa dell'Inghilterra.
Quello che avrebbe dovuto rappresentare il punto di ripartenza, l'avvio del nuovo "Rinascimento Azzurro", venne poi molto presto derubricato come il più classico degli eventi episodici. L'eccezione che conferma la regola. Perché anche dopo l'improvvisa conclusione del ciclo Mancini, piombata come un fulmine a ciel sereno nell'agosto 2023, nemmeno uno dei migliori tecnici italiani dell'ultimo ventennio come Luciano Spalletti è riuscito a risollevare la Nazionale dal proprio momento di appannamento.
Collezionando prima una prematura eliminazione nell'edizione 2024 degli Europei – agli Ottavi di finale per mano della Svizzera – e dando una pessima immagine di sé sul piano del gioco. Poi, attraverso l'uscita di scena ai Quarti di finale dell'ultima Nations League, creando i presupposti per il disastroso avvio della campagna di qualificazione al Mondiale dell'anno prossimo, con il pesante 3-0 in Norvegia e la vittoria risicata contro la Moldova, che hanno sancito l'esonero di Spalletti e reso pressoché impossibile il compito del successore Rino Gattuso di qualificarsi senza passare dai Play-Off.
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Si può spiegare soltanto così, ovvero illustrando una semplice sequenza di risultati negativi, le ragioni per le quali un Paese che da sempre è stato un punto di riferimento nella geografia calcistica rischia di mancare una volta di più il ritorno sul palcoscenico del Mondiale e rimandare l'appuntamento addirittura all'edizione del 2030, prolungando il periodo di astinenza a 16 anni?
No, i motivi per i quali il calcio italiano ha attraversato uno dei cicli più problematici di sempre – anche peggiore di quello che portò ai flop nelle edizioni del 1954, 1962 e 1966 e alla mancata partecipazione del 1958 – sono diversi e molto profondi. E rimandano a situazioni strutturali che hanno a che vedere con un'incapacità di adeguarsi ai cambiamenti che hanno riguardato questo sport, da un punto di vista tattico e di preparazione atletica. Ma, colpa ancora più grave, pesa aver rinunciato alla propria capacità di individuare e crescere talenti, abbracciando modelli di gestione che non stanno chiaramente producendo risultati.
La straordinaria vittoria a Germania 2006 ha rappresentato il traguardo per una generazione di campioni incredibili – Buffon, Nesta, Cannavaro, Pirlo, Totti e Del Piero, per citare i nomi più iconici e di maggior rilevanza internazionale – che negli anni precedenti erano andati molto vicini all'obiettivo grosso, mancandolo in alcuni casi per questione di dettagli, in altri semplicemente deludendo le aspettative generali. Al tempo stesso, la vittoria di Berlino, ai calci di rigore, contro la Francia è stato pure il crepuscolo di un lunghissimo ciclo contraddistinto da grandi giocatori, dopo il quale oltre ai risultati della Nazionale hanno iniziato a venire meno pure le grandi vittorie internazionali delle più importanti squadre di club. L'Italia, che l'anno dopo l'ultimo Mondiale avrebbe portato a casa Champions League e Mondiale per club col Milan, non conquista questi due trofei dal 2010, anno di gloria per l'Inter.
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E, contestualmente, il primo grande ed inascoltato campanello d'allarme, col flop di Sudafrica 2010 dei campioni in carica che nel frattempo si erano riaffidati a Marcello Lippi come commissario tecnico. Da allora, nelle competizioni europee le società che rappresentano la Serie A hanno conquistato quattro finali di Champions League (due con la Juventus e altrettante con l'Inter), due finali di Europa League – di cui una persa dalla Roma di José Mourinho, nel 2023 e ai rigori contro il Siviglia, l'altra vinta in modo esaltante dall'Atalanta di Gasperini nel 2024 – e tre finali consecutive di Conference League. La vittoria della Roma nella prima edizione del 2022, a cui hanno fatto seguito le due sconfitte della Fiorentina nel 2023 e nel 2024.
Nel mezzo, pochissimi piazzamenti di prestigio e la sensazione che il gap con le principali formazioni straniere non solo si fosse profondamente accorciato rispetto all'epoca d'oro degli anni Novanta e ai primi anni Duemila, ma che i valori in campo si siano addirittura ribaltati. Assolutamente improponibile poi ogni confronto con la Premier League, che negli ultimi anni ha creato un solco incolmabile con chiunque, essendo la prima lega che colse la rivoluzione copernicana che l'irruzione sul mercato dei grandi network televisivi e di tante centinaia di milioni di euro avrebbe generato. Costringendo le società calcistiche a ripensarsi e a non vedersi più soltanto come associazioni sportive ma aziende vere e proprie, creatrici di entertainment e in grado di attrarre investitori da ogni angolo del globo. Investendo prima sulla creazione di strutture moderne – gli stadi – che divenissero a loro volta generatore di introiti alternativi (merchandising, ristoranti, negozi, ma anche in grado di ospitare eventi diversi dalla partita di calcio) e poi sull'acquisto dei migliori calciatori e dei migliori allenatori sulla piazza.
L'impatto generato invece in Italia e sulla Serie A dall'arrivo di una pioggia di miliardi di lire prima e di milioni di euro poi dai diritti televisivi ha sostanzialmente creato i presupposti del meccanismo vizioso attraverso il quale si è guardato all'immediato – ossia all'illusione di mantenere inalterata la distanza dagli altri campionati più importanti spendendo tantissimi soldi per i calciatori – più che alla prospettiva di creare un futuro solido. Non affrontando, per esempio, il discorso relativo ad impianti sportivi sempre più vecchi, sempre meno funzionali e fruibili per il pubblico, anche quello proveniente dall'estero, che in diverse città italiane rappresentano oggi una componente sempre più rilevante. Ma smettendo anche di dirottare risorse su quelle strutture, i settori giovanili, che da un punto di vista meramente calcistico avrebbero rappresentato la garanzia di un futuro radioso. Anche per la nostra Nazionale.
L'arrivo improvviso, all'inizio degli anni Novanta, di tantissimi soldi freschi per le società italiane ha coinciso anche con uno dei cambiamenti più epocali della storia del calcio e del mercato dei giocatori come la sentenza Bosman del 1996. Generando una ricerca incontrollata di campioni stranieri, o presunti tali, nella speranza che questo potesse accrescere ulteriormente il livello di competitività del nostro calcio, ma finendo per permeare sempre più nel tessuto calcistico di base e generando, per esempio, alcune evidenti storture come intere formazioni dei vivai delle società tradizionalmente riconosciute ed apprezzate per la formazione dei talenti nostrani imbottite di ragazzi provenienti da ogni angolo del mondo. Scelti più per ragioni di opportunità economica che seguendo fattori e criteri meritocratici, spazzati via dalla necessità di troppi allenatori e troppi dirigenti dei settori giovanili di vincere a tutti i costi nella speranza di fare carriera. Invece che assolvere al loro compito di formare bravi giocatori e, se possibile, anche brave persone attraverso lo sport.
E qui si torna ad una delle ragioni principali della crisi vissuta nell'ultimo ventennio dal movimento calcistico italiano e che negli ultimi 11 anni, quelli intercorsi tra le ultime due partecipazioni al Mondiale, si è particolarmente acuita. Com'è possibile che un Paese che in ogni epoca storica, dal secondo dopoguerra in poi, ha saputo costruire al suo interno calciatori di alto livello, oggi trovi grandissime difficoltà ad allestire una Nazionale altamente competitiva ma, soprattutto, rispetto a molte altre realtà abbia pochissimi atleti di caratura internazionale ambiti anche all'estero ed eventualmente esportabili nei campionati oggi economicamente e tecnicamente più appetibili?
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Soltanto negli ultimissimi anni, i nostri campionati sono stati le vetrine che hanno permesso, per esempio, a Marco Verratti, Gianluigi Donnarumma, Riccardo Calafiori, Guglielmo Vicario, Sandro Tonali, Destiny Udogie e, più recentemente, a Federico Chiesa, Giacomo Raspadori, Matteo Ruggeri e Giovanni Leoni di cercare fortuna e la definitiva consacrazione lontano dai confini italiani. Prima, in parte per una questione legata alla possibilità di percepire ancora ingaggi molto alti e non troppo distanti da quelli oggi irraggiungibili del campionato inglese e in parte per una certa “pigrizia” dei giocatori italiani a mettersi in discussione lontani da casa, il fenomeno del trasferimento dei nostri migliori calciatori all'estero è stato decisamente più contenuto. E riassumibile in alcune storie che hanno decisamente funzionato, come quelle di Gianluca Vialli, Paolo Di Canio e Gianfranco Zola in Premier, o di Christian Vieri nel calcio spagnolo.
Non è un caso che l'ultima grande vittoria della Nazionale italiana sia stata costruita attorno a quei 2-3 giocatori di livello superiore – Donnarumma, Jorginho, Verratti – che fuori da una Serie A non più così all'avanguardia da un punto di vista tecnico-tattico hanno potuto elevare il loro rendimento e che anche quella di oggi, che vuole ripresentarsi nella competizione più importante al mondo dopo diversi anni di assenza, affiderà le proprie speranze a quegli elementi dallo status superiore: lo stesso Donnarumma, che nel frattempo si è trasferito al Manchester City di Pep Guardiola da campione d'Europa col Paris Saint-Germain, il centrale dell'Arsenal Riccardo Calafiori, il faro del centrocampo del Newcastle Sandro Tonali e un attaccante come Moise Kean che, prima di esplodere con la maglia della Fiorentina, è passato attraverso alcune significative tappe di consolidamento – non tutte semplici e riuscite – all'estero, prima col PSG e poi con l'Everton nel calcio inglese.
Buoni o buonissimi giocatori ma, ad eccezione forse di Donnarumma, è complicato utilizzare il termine “campioni”. Quelli che una volta abbondavano in Serie A - e di riflesso in maglia azzurra – e che oggi al contrario sono una sorta di specie protetta, una razza in via di estinzione. Facciamo un salto all'indietro nel tempo e torniamo alla formazione che, il 24 giugno 2014, giocò la sua ultima partita in una fase finale del Mondiale. Questo era l'undici scelto dal ct Cesare Prandelli: Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Darmian, Verratti, Pirlo, Marchisio, De Sciglio; Balotelli, Immobile. A cui vanno aggiunti i subentri di Parolo, Cassano e Thiago Motta e i giocatori rimasti in panchina, Sirigu, Perin, Paletta, Abate, Aquilani, De Rossi, Candreva, Cerci ed Insigne. Un gruppo di qualità medio-alta, se rapportata con la cifra tecnica dell'ultima Italia schierata da Gennaro Gattuso contro Israele: Donnarumma; Di Lorenzo, Mancini, Calafiori; Cambiaso (40' st Spinazzola), Barella, Locatelli (40' st Cristante), Tonali (45'+3 st Piccoli), Dimarco; Retegui (45'+3' st Cambiaghi), Raspadori (1' st Esposito).
Si fatica tremendamente in quest'ultimo schieramento a rilevare, all'infuori del solito Donnarumma, un calciatore in grado di affermarsi stabilmente come un titolare in una delle tradizionali o delle nuove big del calcio europeo. Una tale penuria di qualità è certamente dovuta alle scelte di un movimento incapace di restare al passo coi tempi ma anche di saper mettere il talento puro al centro di ogni ragionamento e di trovare il coraggio al suo interno di scommettere su quei giovani che, anche dopo una trafila di tutto rispetto sia nei vivai delle squadre di club che nelle nazionali giovanili dell'Italia, poi non riescono a trovare un naturale sbocco in prima squadra.
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Rifugiandosi in molti casi nei campionati di Serie B o Serie C per trovare minutaggio e, nella migliore delle ipotesi, in qualche trasferimento all'estero per acquisire esperienza.
Un po' il percorso che ha consentito al nuovo centravanti dell'Inter Francesco Pio Esposito – protagonista nella passata stagione di una grande parentesi allo Spezia – di ritagliarsi il suo spazio nella formazione nerazzurra e di scalare rapidamente le gerarchie pure in Nazionale. Trovando pure il suo primo goal “coi grandi” in occasione della recente sfida contro l'Estonia. Un ragazzo del 2005 per il quale hanno iniziato già a sprecarsi importanti ed ingombranti paragoni con grandi bomber azzurri del passato, da Christian Vieri a Luca Toni, ma che nel contesto generale del calcio italiano rappresenta ancora l'elemento di novità e non una costante. Dove l'età, soprattutto se bassa, continua ad essere vista come un limite in termini di esperienza.
Potremmo citare tranquillamente anche Giovanni Leoni, la nuova speranza del calcio italiano in un ruolo che ha tradizionalmente espresso delle eccellenze come quello del difensore centrale che, prima di infortunarsi gravemente alla prima da titolare col Liverpool in Carabao Cup, aveva scatenato una vera asta di mercato che ha coinvolto pure Inter e Milan dopo la prima ottima stagione in Serie A disputata col Parma (dopo l'apprendistato tra Serie C e Serie B con Padova e Sampdoria). Un talento cristallino e certo, ma pur sempre in via di consolidamento – è nato nel classe 2006 – e di una personalità tale da valere da parte dei Reds un investimento da 35 milioni di euro. Una cifra considerata “normale” per gli standard di spesa della maggior parte delle squadre partecipanti alla Premier League, una scommessa giudicata ai limiti dell'azzardo anche da una formazione di vertice del campionato italiano.
Insieme a loro due, dovendo immaginare oggi un prospetto in grado nei prossimi anni di affermarsi e diventare un altro simbolo della Nazionale italiana che sta provando a ritornare a certi livelli, le attenzioni di stampa, addetti ai lavori e opinione pubblica sono rivolte a Francesco Camarda. Il più giovane debuttante nella storia del campionato italiano, lanciato prestissimo in prima squadra dal Milan in uno dei periodi più complicati della storia del club rossonero e sul quale un certo Zlatan Ibrahimovic ha deciso di esercitare il ruolo di “vecchio saggio” e di principale sponsor, oggi prova ad emergere in un contesto tecnico ben diverso come quello di una formazione che lotta per rimanere in Serie A come il Lecce. Dopo le tante luci della ribalta arrivate per il suo prematuro esordio nel campionato italiano e in Champions League e per le imprese con la Nazionale Under 17 campione d'Europa nel 2024, la strada per consacrarsi definitivamente ha preso una direzione diversa.
Con l'obiettivo di fare ritorno al Milan e candidarsi ad essere un'opzione per l'Italia nel futuro prossimo, più verosimilmente che per l'Europeo del 2028 o la Coppa del Mondo del 2030 piuttosto che il più imminente appuntamento dell'estate prossima in Canada, Messico e Stati Uniti.
Esposito, Leoni e Camarda. Tre volti per il calcio italiano del futuro, che ha bisogno di personaggi da spendere anche a livello mediatico anche per fronteggiare un fenomeno tutto nuovo che ha avuto certamente il suo peso specifico nelle recenti difficoltà del movimento a tenere il passo delle principali realtà internazionali. Ossia il fatto che in Italia la percentuale di giovani che scelgono di praticare il calcio come sport sin da bambini non sia più così dominante. Complice l'irruzione sulla scena di atleti di altissimo livello capaci di dirottare le attenzioni generali anche su altre discipline: ovviamente nel tennis, con l'avvento di un certo Jannik Sinner, ma anche di altri giocatori e giocatrici come Matteo Berrettini, Lorenzo Musetti, Jasmine Paolini e Sara Errani, capaci di interrompere la lunga assenza di vittoria sia a livello di titoli dello Slam che di Coppa Davis e Federation Cup, ma anche di sciatrici divenute popolarissime come Sofia Goggia e Federica Brignone nello sci alpino. E poi il ritorno in grande stile delle nazionali di pallavolo, uno sport di squadra che nel panorama italiano monopolizzato dal calcio è sempre riuscito a ritagliarsi un certo spazio ed una certa considerazione.
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In questo contesto, di grandi contraddizioni e di numerose difficoltà, il ct della Nazionale Gennaro Gattuso ha dovuto convivere con una pressione enorme. Un eventuale nuovo fallimento rappresenterebbe la parola fine su un sistema dirigenziale e politico che negli ultimi anni ha prodotto risultati decisamente deludenti, pochissime riforme strutturali e che si gioca una fetta consistente della propria reputazione anche nel varare una legge sugli stadi promessa da molti anni per ammodernare i propri impianti per non mancare l'appuntamento dell'Europeo del 2032 con la Turchia. La lunga ed estenuante partita per la costruzione di un nuovo San Siro a Milano, i progetti in essere a Bologna, Firenze, Roma e Napoli assumono un'importanza che è quasi pari a quella di non mancare, per la terza volta di fila, la partecipazione al Mondiale.
Il momento della verità per il calcio italiano è adesso.
