Marcelo Vieira da Silva Junior, che tutti conoscono come Marcelo e basta, riceve tra le mani una maglia e la guarda con ammirazione. Non ha il colore candido delle meringhe, non è interamente bianca, sporcata solamente dallo sponsor che campeggia sulla parte anteriore. Ma il terzino brasiliano non si fa problemi a indossarla. Del resto non se ne fa nemmeno il Real Madrid, la sua squadra. Perché tutti sanno quanto Marcelo sia legato al Fluminense, dov'è nato e cresciuto e dov'è diventato qualcuno prima di spiccare il volo verso il grande calcio.
La scena in questione è andata in onda sugli schermi brasiliani in più di un'occasione. Appena ne ha l'opportunità, Marcelo se ne torna a Rio de Janeiro per trascorrere qualche giorno di vacanza. E, tra una capatina e l'altra in spiaggia, trova il tempo per recarsi nel quartier generale del Flu. Prima nel bairro Laranjeiras, dov'è ubicata la sede e dove la prima squadra si allenava fino a qualche anno fa, e poi nel nuovo centro sportivo. Puntualmente riceve una camisa omaggio, puntualmente la espone a favor di fotografi. E poi va a far visita ai suoi vecchi amici, magazzinieri, massaggiatori, una schiera di uomini ombra per i quali nutre un affetto speciale. Perché è anche grazie al loro sostegno se è diventato quel che è oggi.
Lo chiamano muleque de Xerém, ragazzino di Xerém. Lui come i tanti talenti cresciuti nel distretto di Rio che funge da base per le giovanili del Fluminense. L'ultimo è Kayky, già acquistato dal Manchester City. Marcelo vi ha vissuto dai 12 ai 14 anni. Pieni di speranze e di timori, come ogni neofita che si rispetti. Pensava di lasciare il calcio, è stato dissuaso dal nonno. Il terzino sinistro più bravo dell'ultimo decennio, in sostanza, è nato lì. Ha costruito la propria maturazione dopo gli inizi nel calcio a 5, ha iniziato a capire quanto il calcio sia una cosa seria. Un trampolino verso l'esordio in prima squadra nel 2005 e l'esplosione dell'anno seguente, nel quale è uno dei migliori del Brasileirão. A soli 17 anni. Quindi la chiamata del Real Madrid. Quando gli chiedono di quegli anni, la sua risposta è sempre la stessa.
“C'è un affetto speciale per il Fluminense – ha detto qualche anno fa – Mi hanno dato praticamente tutto. Posso solo ringraziare il club e le sue giovanili. Ho vissuto due anni a Xerém, il mio percorso nel vivaio si è svolto interamente lì”.
Per un anno Marcelo gioca assieme a Thiago Silva, un altro mostro sacro del calcio brasiliano. Anche lui è un muleque de Xerém. Uno troneggia in mezzo alla difesa, l'altro a sinistra. Quel Flu si salva affannosamente a poche giornate dal termine, ma i suoi gioielli sono pronti a spiccare il volo. Si ritroveranno più e più volte nella Seleção, condividendo il dramma sportivo dell'1-7 contro la Germania. Dopo un'altra semifinale persa, stavolta dal Real Madrid contro il Chelsea in Champions League, si sono fatti immortalare sorridenti in una foto ricordo. Amicizia prima di tutto, prima della rivalità. Con un tratto tricolor in comune.
Eppure, nonostante il suo passato sia a tinte bianche, rosse e granata, attorno a Marcelo c'è una curiosa disputa cittadina perennemente in corso. Perché anche il Botafogo, a settimane alterne, si sente in dovere di rivendicare la paternità dei suoi primi anni. Non dal punto di vista del calciatore, questa volta, ma del tifoso. Lo stesso Marcelo, ogni volta che gliel'hanno chiesto, non si è mai affannato troppo a negare o a utilizzare giri di parole: è cresciuto con il bianco e il nero nel cuore, quand'era ragazzino andava al Maracanã a vedere le partite del Glorioso, in un certo senso nutre ancora il medesimo affetto riservato al Fluminense.
“Un giorno mi piacerebbe giocare nel Botafogo – ha confessato nell'aprile del 2017 a 'Globoesporte' – sarebbe bello”.
"Marcelo è botafoguense e il nostro presidente ha già chiacchierato con lui - ha detto lo scorso anno Carlos Augusto Montenegro, ex patron del Botafogo, al giornalista brasiiano Jorge Nicola - Arriverà il momento in cui lo contatteremo. È un giocatore che ci interessa. Se venisse da noi, farebbe il trequartista. E indosserebbe la maglia numero 10".
Qualche giorno dopo l'intervista a 'Globoesporte' del 2017, il Botafogo ha postato sul proprio account Twitter una foto con la maglia bianconera, il suo nome sulle spalle e il numero 6. Con tanto di didascalia ammaliatrice:“Qui un botafoguense sarà sempre il benvenuto". Un'immagine che ha riacceso i sogni dei sostenitori, specialmente di chi ha udito parlare dell'immenso Garrincha da padri e nonni senza poterne mai ammirare le gesta. Sogni che, però, cozzano contro la realtà di un club sull'orlo del fallimento e di una squadra che, nonostante gli acquisti boom di Keisuke Honda e Solomon Kalou, è amaramente crollata nella Serie B nazionale.
In attesa di capire cosa riserverà il futuro a Marcelo, il presente è naturalmente conosciuto. Dalla fine del 2006 si chiama Real Madrid. E il passato sembra quanto di più quieto e piatto ci possa essere: nel suo curriculum compare una sola squadra, il Fluminense appunto, prima dell'epopea madridista. Ma i corsi e ricorsi storici non mancano. Sliding doors, come in molte trattative di mercato andate a buon fine oppure no. What if, cosa sarebbe accaduto se, giusto per fare un esempio, Marcelo avesse indossato la maglia del Siviglia? E stava per accadere, eccome.
Lo ha raccontato nel 2020 Monchi, tornato in Andalusia dopo l'esperienza fallimentare alla Roma, a 'ESPN Deportes'. Tra tanti colpi messi a segno, il mago dei direttori sportivi qualcuno se l'è visto sfuggire tra le mani. Robin van Persie, ad esempio. “Ero già a Rotterdam per firmare, stavo per salire nella sua stanza d'albergo, ma lo ha chiamato l'Arsenal”. E poi, appunto, Marcelo. Che in quel 2006, in pratica, è già un giocatore del Siviglia. Monchi lo ha visionato in Brasile, ha deciso di far valere il proprio fiuto per gli affari e ora lo attende in Spagna. Già, ma Spagna significa Siviglia e significa anche Madrid. Città che apparentemente non dovrebbe rappresentare che una tappa intermedia verso il nuovo destino del brasiliano, ma nella realtà si trasforma ben presto nel suo nuovo domicilio.
“Marcelo doveva fare scalo a Madrid, perché non c'erano voli diretti da Rio de Janeiro a Siviglia – ha rivelato Monchi con un sorriso amaro –E il Real, che è molto più potente, ne ha approfittato. Ma evidentemente il giocatore era già atterrato in Spagna per questo, non per venire a Siviglia. Il Real Madrid si è mosso prima perché il suo potenziale economico e sportivo è superiore. E non è che a Marcelo sia andata così male. Non so come sarebbe stato da noi, ma a Madrid si è trovato bene”.
Ironia della sorte, proprio a Siviglia Marcelo vivrà una delle serate più nere della propria storia calcistica. Il 27 settembre del 2018 il traballante Real Madrid di Lopetegui, privo da qualche mese della stella Cristiano Ronaldo, è di scena al Sanchez Pizjuan. E viene travolto senza appello dalla furia dei padroni di casa. Segna per due volte André Silva, appena arrivato dal Milan, e poi chiude i conti Ben Yedder. Tutto nel primo tempo, come una serie di pugni da ko. E Marcelo è protagonista involontario in tutte e tre le segnature degli avversari: prima perde un pallone che origina il contropiede dell'1-0, poi lascia completamente sguarnita la propria zona di campo favorendo il 2-0, quindi si fa superare in un duello aereo al limite dell'area, guardando gli andalusi andare a segno per la terza e ultima volta.
“Una giornata da dimenticare”, titolano il giorno dopo i quotidiani spagnoli, ponendo l'accento sulle disattenzioni in serie dello spaesato Marcelo. Non citano l'aneddoto del mancato trasferimento al Siviglia di 12 anni prima, sebbene Monchi ne avesse già accennato in precedenza. E forse non immaginano ancora che il momento del declino, quello che nelle stagioni seguenti vedrà il brasiliano scalzato in maniera costante da Ferland Mendy, stia inesorabilmente per arrivare. Ma ora, a 34 anni compiuti, dopo essere diventato il calciatore più vincente della storia del Real Madrid con 24 trofei (superato Gento), forse è giunta l'ora di pensare meno al presente e più al futuro. E, magari, a un ritorno in patria per chiudere in bellezza una carriera da tramandare ai posteri. Con un bivio tra due destinazioni: il Fluminense da una parte, il Botafogo dall'altra. Le strade del cuore.
