In termini puramente calcistici, Marco André Zoro è rimasto solo marginalmente nella memoria degli appassionati. Terzino destro ivoriano classe 1983, è arrivato in Italia grazie alla Salernitana e poi è stato protagonista nel Messina in Serie A. Giocava spesso titolare. Eppure, tutti si ricordano cosa accadde il 27 novembre 2005 allo stadio San Filippo, durante Messina-Inter, quando l’allora ventunenne decise di prendere una forse posizione contro il razzismo. Per la prima volta in Italia in campo.
Poco dopo l’ora di gioco, al 21’ del secondo tempo, Zoro si ferma. Raccoglie la palla a terra e si dirige verso il quarto uomo. È stanco, non ce la fa più. Non di correre su e giù per la fascia, ma di sentire insulti di stampo razzista provenienti dal settore ospiti, dai tifosi avversari. Era andato a prendere un pallone sotto il loro settore. Gli mimano la scimmia, le banane. Reagisce platealmente. Va verso il quarto uomo quasi con le lacrime agli occhi. Chiede all’arbitro Trefoloni di fermare la partita. Fa il gesto del ‘basta, stop’.
Getty ImagesI compagni e gli avversari lo circondano, cercano di calmarlo. Lui non ne vuole sapere, almeno inizialmente. Gli danno ragione, capiscono la situazione. Soprattutto Adriano, attaccante nerazzurro. Lo abbraccia, gli parla. Si rivolge ai suoi tifosi chiedendo di smetterla, come fanno anche altri compagni. Allo stadio, sulle tribune, non tutti capiscono cosa stia succedendo. Poi, quando il messaggio arriva, parte un lungo applauso verso Zoro. Che dopo alcuni minuti decide di tornare in campo. Di far riprendere la partita.
“Mi sono saltati i nervi e mi dispiace. Io non voglio fare il personaggio. Ma non accetto che la gente venga nello stadio, in casa mia, per rivolgermi insulti razzisti. Ho accettato di tornare in campo solo per loro perché mi dispiaceva di far perdere la partita all'Inter o fare uno sgarbo a dei miei colleghi”.
Getty ImagesUn gesto che ha cambiato la percezione delle cose. Ha scosso il calcio italiano. Lo ha reso consapevole dell’esistenza di un problema, quello del razzismo, presente da tempo. Giacinto Facchetti si scusò con Zoro a nome di tutta l’Inter. La FIGC decise di aprire un'inchiesta, prese contromisure che non si erano mai viste. Come cinque minuti di ritardo sui fischi d’inizio delle partite per dire ‘no al razzismo’, per sensibilizzare sull’argomento.
La voce controcorrente fu quella di Massimo Moratti, ex presidente nerazzurro, a pochi giorni dal match di ritorno. L’allora patron del club minimizzò l’accaduto. Dichiarazioni che portarono inevitabilmente a critiche.
”La manifestazione contro Zoro era contro la persona, non era razzista. I tifosi hanno esagerato, è stato un gesto stupido. Zoro dice di vergognarsi? Ci sono altre cose di cui vergognarsi, questa è stata una stupida manifestazione ma niente di più. Sarà che io l'ho presa in maniera diversa, ma non mi è sembrata una cosa razzista. Solo una prova di durezza e stupidità, niente di più. Certi cori li sento contro Materazzi in ogni stadio, vorrei che allora ci fossero le stesse reazioni”.
Il gesto di Zoro è rimasto nella memoria comune del calcio. Ha fatto passare in secondo piano il gioco, evidenziando una piaga del calcio italiano. Come avrebbero poi fatto in seguito altri come Boateng o Balotelli.
“Io non mi sono mai pentito, mi stavano insultando e fischiando continuamente. Era già successo ad altri giocatori. Ho pensato che fosse necessario un gesto forte in quel momento. Contro l’ignoranza della gente. E’ un cancro da combattere. La cosa che fa più male è vedere allenatori, presidenti e dirigenti giustificare azioni e comportamenti che sono ingiustificabili. Il calcio è un fenomeno di aggregazione, di unione, di pace. Non certo di odio e violenza“.
L’ivoriano in carriera non è mai riuscito a lasciare il segno: dopo il Messina sarebbe andato al Benfica, poi in Francia all’Angers, infine in Grecia. Fino al ritiro a 34 anni. Il segno però Zoro l’ha lasciato in ambito sociale. Ponendo un serio problema sociale. Un aspetto che vale di più.


