Karel PoborskyGetty

Il viaggio di Poborsky: dal goal al Portogallo, lo United, la Lazio e il 5 maggio al coma e la nuova vita

Una folta chioma da rockstar si è trasformata in una capigliatura e una barba ordinata. Un look tutto nuovo, che rende quasi irriconoscibile quel centrocampista che ha percorso chilometri e chilometri e dominato in giro per l’Europa sul rettangolo verde di gioco a cavallo tra gli anni '90 e il primo decennio degli anni '00.

Un uomo che a 52 anni ha già vissuto molte vite - calcistiche e non solo -, con momenti di massima esaltazione a cui si sono sovrapposte situazioni molto difficili, dentro e fuori dal campo.

Grazie a un goal straordinario a Euro ’96 è diventato un'icona nel suo Paese, la Repubblica Ceca, al termine di una cavalcata interrotta sul più bello e con un valore che andava ben oltre quello sportivo. Ha vissuto la gioia di vincere un Premier League, ma da comprimario, ed essere assoluto protagonista in una giornata che lo ha consegnato di diritto alla storia, quel 5 maggio che lo ha fatto diventare un eroe dei tifosi della Juventus, squadra in cui non ha mai giocato.

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Karel Poborsky, però, la sua più grande battaglia l'ha vinta fuori dal campo, nel 2016, quando ha rischiato di morire. Tutta colpa di una zecca annidata nella barba del ceco, che gli ha trasmesso la malattia di Lyme. Un calvario durato settimane, che lo portato a scendere fino a gli inferi del coma e risalire pian piano. Karel ha sconfitto la malattia e si è fatto ricrescere la barba. Un gesto simbolo della rinascita e della vittoria sulla malattia.

“Dal vero avversario passa in te un coraggio illimitato”.

Lo scriveva Franz Kafka in 'Aforismi di Zurau’. Al suo connazionale Karel Poborsky il coraggio non è mai mancato.

Trebon, paesino della Boemia meridionale famoso per la produzione di birra, nel distretto di Jindrichuv Hradec. È qui che inizia la storia di Karel Poborsky. È qui che il classe 1972 tira i primi calci al pallone, nello Jiskra Trebon, prima di trasferirsi alla Dynamo Ceske Budejovice, di cui diventa un titolare a partire dal 1988. Un ulteriore passo verso il grande sogno, la città di Praga e il calcio sulle rive della Moldava.

La Cecoslovacchia vive anni di grandi turbamenti prima e cambiamenti poi. Dopo la caduta del muro di Berlino, il popolo scende nelle strade e si raduna a Piazza San Venceslao, nel cuore di Praga. La Rivoluzione di Velluto è alle porte: l'obiettivo è la fine del mandato del segretario del Partito Comunista Milos Jakes. L'onda lunga arriva fino al 1993, quando l'accordo stipulato tra il primo ministro ceco Vaclav Klaus e il primo ministro slovacco Vladimir Meciar danno ufficialmente vita a due Paesi, la Repubblica Ceca e la Slovacchia.

Se per la Repubblica Ceca si aprono le porte dell'Europa e del mondo, per Karel Poborsky sono quelle dello Slavia Praga a schiudersi, dopo un passaggio al Viktoria Zizkov. Il centrocampista arriva nella capitale e veste prima la maglia della squadra del distretto di Praga 3 nell’annata ‘94/95, e poi quella biancorossa, conquistato in una sola stagione il titolo in patria e un posto nella neonata nazionale, oltre a uno straordinario cammino in Coppa UEFA, in quello che resta ancora oggi il miglior risultato del club praghese.

Dopo aver superato lo Sturm Graz nel turno preliminare, lo Slavia infila una serie di successi contro Friburgo (trentaduesimi), Lugano (sedicesimi), Lens (ottavi) e Roma (quarti), fino all'interruzione del sogno proprio sul più bello, in semifinale contro il Bordeaux.

Karel PoborskyGetty

Gli Europei in Inghilterra del 1996 rappresentano per la Repubblica Ceca la prima partecipazione alla fase finale una competizione internazionale. Una vetrina di assoluto valore e una chance che Karel e compagni colgono al volo, sfiorando addirittura la vittoria del trofeo, perso in finale con il Golden Goal di Bierhoff contro la Germania. Nel percorso verso l’ultimo atto, il successo per 2-1 nella fase a gironi sull'Italia vice campione del mondo allenata da Arrigo Sacchi, ma soprattutto una rete iconica nella carriera di Poborsky.

La sfida dei quarti di finale contro il Portogallo, a Villa Park, Birmingham, è decisa da una rete proprio di Karel, che si prende la scena con uno straordinario pallonetto da limite dell'area di rigore. Un gesto tecnico di incredibile bellezza ed efficacia - un mix tra qualità e spavalderia - che supera Vitor Baia e regala il passaggio del turno alla Repubblica Ceca.

Una giocata che non passa inosservata nemmeno a Sir Alex Ferguson, che poche settimane più tardi lo porta a Old Trafford per vestire la maglia del suo Manchester United.

"Non volevo calciare la palla così alta, ma c'è stato un rimbalzo sull'erba. Temevo uscisse, ma per fortuna è entrata".

Ai microfoni di 'FourFourTwo', Poborsky ha raccontato qualche tempo dopo: "In quel momento non mi sono accorto della bellezza del mio goal, ma ero concentrato solo sul nostro vantaggio".

Il centrocampista ceco ha svelato di aver incontrato proprio in quelle settimane Ferguson:

"È venuto nel nostro hotel a Londra pochi giorni prima della finale e mi ha chiesto se fossi interessato a trasferirmi allo United. Ho detto sì e quindi è iniziata la trattativa. Ero concentrato sulla finale contro la Germania ma sono stato onorato che uno come lui sia venuto a Londra per incontrarmi solo due o tre minuti".

L'esperienza al Manchester United non è memorabile. L'ascesa della giovane stella David Beckham oscura il ceco, che nonostante tre trofei in bacheca - la Premier League nel 1997 e due Community Shield (1996 e 1997) - saluta dopo stagioni e 5 goal e 3 assist in 47 apparizioni i 'Red Devils'.

"Era quasi impossibile assicurarmi un posto fisso tra i titolari per me con la presenza di Beckham, all'inizio della sua straordinaria carriera. Ma non provo rammarico. I compagni mi hanno sempre fatto sentire uno di loro e ho sempre dato il massimo, anche giocando gli ultimi 20 minuti".

Il 1996 resta un anno incredibile per Poborsky, che oltre ad essere protagonista con la maglia della Repubblica Ceca e passare al Manchester United, arriva 17° nella classifica del FIFA World Player, con 6 voti, al pari di Djorkaeff e Savicevic, e 11° al Pallone d'Oro assegnato da France Football con 15 voti.

Karel Poborsky Manchester UnitedGetty

Salutati lo United, la Premier e l'Inghilterra, per Poborsky si aprono le porte del Benfica. Nell'estate 1998, il ceco si trasferisce a Lisbona. L'esperienza in terra lusitana si rivela negativa: in due stagioni e mezzo totalizza 61 presenze e 11 goal, senza riuscire a portare a casa trofei.

In realtà, l'avventura a Lisbona inizia bene. Ben presto Poborsky diventa uno dei calciatori più apprezzati dai tifosi del Benfica, che notano la sua qualità, ma anche la dedizione del calciatore ceco. Nella sua prima stagione, il classe 1972 realizza una rete straordinaria contro il Braga, con un'azione personale per quasi tutto il campo prima di battere il portiere avversario. Un goal che ha spinto i tifosi ad accostarlo a quello segnato da Maradona con l'Argentina contro l'Inghilterra ai Mondiali del 1986.

Nominato miglior straniero della squadra e inserito nella top 11 del campionato, il numero 7 finirà per essere relegato a un ruolo di secondo piano dopo l'arrivo di Oliveira sulla panchina del Benfica.

Karel decide di cambiare aria e sbarca in Serie A: ad attenderlo la Lazio. All'ombra del Colosseo, Poborsky raggiunge il suo grande amico e compagno di nazionale Pavel Nedved, che lo consiglia caldamente al club biancoceleste per rinforzare il centrocampo.

Karel Poborsky LazioGetty Images

La scintilla tra Poborsky e l'ambiente non scatterà mai. Il rapporto tra il ceco e il popolo biancoceleste resterà fino alla fine molto asettico fino al suo ultimo giorno nella Capitale, quel 5 maggio 2002 difficile da dimenticare.

Il destino era già scritto, l'avventura alla Lazio già finita. Poborsky si era, infatti, già accordato con lo Sparta Praga, pronto a riportarlo in patria, sulle sponde della Moldava.

Una doppietta, due dei cinque goal totali realizzati con la Lazio, contro un'Inter che perde al fotofinish uno Scudetto che era praticamente cosa fatta. Un 4-2 in cui Poborsky si traveste da eroe bianconero e regala alla Juve (vittoriosa a Udine) un titolo che sembrava ormai sfumato per una questione di centimetri.

"Lui sapeva di andar via. Ma era talmente in lite con il mondo che quella partita la giocò alla morte. Era lontanissimo per ideologia politica da quei tifosi che ci chiedevano di perdere, e altrettanto distante dalla maniera italiana di vivere le partite".

Così Stefano Fiore, suo ex compagno proprio in quella Lazio racconterà le emozioni di Karel Poborsky.

Il ceco pareggia il momentaneo vantaggio nerazzurro firmato da Vieri e si lascia andare a un'esultanza rabbiosa nei confronti della Curva Nord. Di Biagio riporta avanti l'Inter di Cuper, ma ci pensa ancora il ceco a fermare i meneghini: poi Simeone e Inzaghi completano il tracollo nerazzurro.

"La cosa bellissima fu la telefonata di Nedved a Poborsky a fine partita per fargli i complimenti. Raccontò che non era passato neanche da casa, aveva la macchina caricata per scappare in Repubblica Ceca. Poborsky è andato via e non più tornato a Roma".

Poborsky gioca la partita e se ne torna in Repubblica Ceca. La sera stessa. Con la macchina caricata con i bagagli già prima della partita, come conferma l’ex difensore della Juve Iuliano in un retroscena raccontato qualche anno dopo.

"L'uomo torturato dai propri diavoli si vendica insensatamente contro il prossimo".

Proprio come scriveva Kafka in 'Lettere a Milena', c'è una parte di Poborsky che non poteva proprio accettare una farsa. Uno che aveva vissuto il comunismo non poteva essere protagonista di un qualcosa di falso nel calcio. Una risposta chiara, un'azione morale, che va ben oltre l'aspetto sportivo. Karel è lontanissimo, distante anni luce, dalle dinamiche che riguardano le rivalità cittadine, i gemellaggi tra tifoserie e tutto ciò che può influenzare un rendimento in campo che deve essere sempre al massimo delle proprie capacità. Tutt’al più quando in palio c’era un posto in UEFA senza passare per l’Intertoto, obiettivo raggiunto da quella Lazio proprio grazie alla vittoria sull’Inter.

Tornato in Repubblica Ceca all'alba dei 30 anni, gioca con la maglia dello Sparta Praga prima e della Dynamo Ceske Budejovice poi, prima di appendere gli scarpini al chiodo nel 2007, all'età di 35 anni. La scelta di tornare in patria è legata alla famiglia e alla decisione di far crescere i figli in patria.

Poborsky è uno dei calciatori ad aver vestito le maglie di Sparta e Slavia Praga, un privilegio che in pochi possono vantare. Una rivalità fortissima che difficilmente ha consentito e consente ancora oggi ai giocatori di legarsi ai colori di entrambe le squadre.

Al termine della prima stagione, Poborsky - diventato il calciatore più pagato della storia dello Sparta - si laurea per la seconda volta in carriera campione di Repubblica Ceca, titolo che rivincerà nella stagione 2004/2005.

In mezzo l'esperienza da protagonista a Euro 2004, con il percorso fino in semifinale (persa contro i futuri campioni della Grecia) della Repubblica Ceca. Poborsky riceve offerte dal Qatar ma le rispedisce al mittente: vuole restare in patria.

Nel 2005, dopo oltre 20 anni, Karel torna alla Dynamo Ceske Budejovice, in seconda divisione, aiutando il club a ottenere la promozione. Poi un'ultima stagione nel massimo campionato ceco, con la maglia bianconera, prima di dire basta a 35 anni.

Appesi gli scarpini al chiodo, Poborsky ha continuato a lavorare per la Dynamo Ceske Budejovice, ma dietro a una scrivania, in società.

Nel 2016, la vita del 52enne di Trebon è travolta da un'infezione causata da una zecca, che lo ha portato a un passo dalla morte. Il batterio 'Borrelia burgdorferi', trasmesso all’uomo dalle zecche dei cervi e dunque contratto all'area aperta, ed esattamente nei boschi, e scoperto dallo svizzero Wilhelm Burgdorfer, si infila nella barba di Karel. Un'epidemia scoppiata nella cittadina di Lyme, nel Connecticut, Stati Uniti, nel 1976, e divenuta presto tristemente famosa. Secondo il New York Times quella di Lyme è "la malattia infettiva che si diffonde più rapidamente nel mondo dopo l’Aids". I sintomi? Una macchia rossa sul viso che si ingrandisce, spesso circondata da altri anelli rossi.

Come raccontato dallo stesso Poborsky qualche tempo dopo, l’ex centrocampista finisce in coma indotto:

"Se fossi arrivato in ospedale soltanto un giorno dopo, non sarei qui a raccontare quello che mi è accaduto. Arrivato in ospedale, mi misero in coma. Quando mi svegliai, mi chiesero se ricordassi il mio nome e la tabellina del sette. Tutti i miei muscoli facciali erano paralizzati: l’infezione aveva raggiunto il cervello. Ho trascorso tre settimane in quarantena in ospedale con potenti antibiotici. Non potevo mangiare, dovevo tenere gli occhi coperti perché ero troppo sensibile alla luce. Ero molto spaventato".

Per fortuna, oggi questo rappresenta solo un brutto ricordo. Poborsky ha sul suo profilo Instagram una foto con due ritratti a metà per comporre il suo volto per intero: una con e l’altra senza barba. Un'immagina non proprio casuale...

Negli ultimi anni, Karel ha deciso di impegnarsi dopo gli ultimi scandali che hanno travolto il calcio ceco e si è candidato per il ruolo di presidente della FAČR, la Federcalcio Ceca. Perse le elezioni con Petr Fousek, l'altro candidato, Poborsky ha ricoperto il ruolo di capo del dipartimento delle giovanili della FAČR. Un ruolo di ripiego, in attesa di una nuova grande chance. Un ruolo istituzionale di un uomo che ha vissuto 52 anni senza mai piegarsi ma mettendo i propri valori sempre davanti a tutto il resto.

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