GOAL“Voglio raccontarti una cosa: nel mio negozio c’era una cliente che era una veggente. Veniva per farsi i capelli e mi leggeva la mano: mi diceva ‘tuo figlio diventerà famoso in tutto il mondo’. Io pensavo ‘questa donna è pazza’. Diego aveva da poco iniziato a giocare nel Velez: era un bambino”. (Nilda Gonzalez, madre di Diego Pablo Simeone)
La signora Nilda fa bene a non credere alla chiaroveggenza, reputandola forse una delle più fragili forme di scaramanzia che la nostra civiltà abbia mai concepito: ciò che ignora, semmai, è lo strano potere di un destino che riesce, quasi in tutti i modi, a sbrogliare la matassa del caos definendo le direzioni di ciascun filo rosso. Tutt'al più Rojiblanco.
L’antivigilia del Natale del 2011 qualcuno deve averla pensata come il giorno simbolicamente perfetto per nominare un antimessia come nuovo allenatore dell’Atletico Madrid. Altri potrebbero aver visto in Diego Pablo Simeone un parafulmine ideale per i tanti problemi di una squadra praticamente disintegrata dalla gestione fallimentare di Gregorio Manzano Ballesteros. Uno psicologo, un insegnante di lingue e un allenatore anche con discrete qualità, sempre a un passo dal grande salto, mai riuscito.
All’inizio di quell’anno il “Cholo” per i Colchoneros era ancora il simbolo della Liga e della Copa del Rey vinte nella stagione 1995/96: un idolo che aveva di recente appeso gli scarpini al chiodo. Persino quelli ancora graffiati dal sangue di Julen Guerrero. Una delle sue vittime. Ne avevano seguito i progressi in panchina in Argentina: l’Apertura e la Clausura vinte rispettivamente con Estudiantes e River Plate e le voci riguardanti il suo possibile trasferimento in Italia, al Catania, alla ricerca di una difficile salvezza dopo aver ereditata una squadra confusa e imbrigliata dalle idee del suo stesso allenatore, Marco Giampaolo. Ci riuscirà: ciò che non lascerà mai in terra etnea sarà il cuore. La sua esperienza dura poco più di quattro mesi: non una sola immagine del suo trascorso in rossazzurro verrà ricordata nella serie su Amazon Prime che ripercorre la sua carriera. Vorrà pur dire qualcosa.
Un’altra tappa fondamentale, ma breve, è quella al Racing Club de Avellaneda: importante in termini di risultati, ma chiusa a dicembre. Anche perché se c’è una cosa che può risollevare le sorti di un Atletico Madrid decimo in classifica è, come detto, la nomina di un antimessia all’antivigilia di Natale. È qui che nasce il “Cholismo”.
PRIMO COMANDAMENTO: SIMEONE È LA SUA SQUADRA, LA SQUADRA È SIMEONE
“Io di base quando gioco contro una squadra difficilmente mi interesso dell’allenatore, ma in questo caso specifico quando guardo l’Atletico vedo anche Simeone”.(Cristiano Ronaldo a “Simeone. Vivere Partita dopo Partita")
L'allenamento dei Colchoneros viene programmato al Vicente Calderon dopo le vacanze natalizie: i primi a entrare in campo sono i calciatori, pesantemente fischiati dai tifosi presenti. In quella stagione avevano preso nove goal in due partite contro Barcellona e Real Madrid ed erano stati eliminati dalla Copa del Rey dall’Albacete, squadra di Segunda. Un disastro.
Poi entra lui. A bordocampo ci sono i suoi figli. Giovanni, Gianluca e Giuliano: lo guardano come si guarda un Dio uscito dagli spogliatoi e appena salito sul primo gradino che porta all’Olimpo. Casa sua. Dagli spalti parte un coro: “Olé Olé Olé, Cholo Simeone”. Si dirige verso il gruppo di giocatori, li sfiora soltanto e devia la sua corsa indirizzandola alle tribune: quindi ritorna dalla sua squadra, scambia due parole e dice loro che ce l’avrebbero fatta. Era capitato anche a lui, in fondo, appena un anno prima di vincere con l’Atletico.
Con ogni probabilità due sono stati i sentimenti scaturiti nei suoi calciatori dopo il primo incontro con il Cholo: il primo riguardava la loro posizione in squadra, in termini di attaccabilità. Nessuno se la sarebbe presa con Simeone, se i Colchoneros fossero precipitati nell’oblio. La colpa sarebbe stata dei giocatori: solo e soltanto loro. Il secondo era la percezione di una corrente ascensionale e spirituale che aveva elevato il contesto al divino: sin dal suo ritorno l’Atletico Madrid aveva smesso di essere la squadra di Gabi e degli altri. L'Atletico era Diego Pablo Simeone. E Diego Pablo Simeone era l’Atletico. Stop.
Il primo miracolo del Cholo è stato questo: compiere il disegno previsto dal fato, culminato all’Arena Națională di Bucarest con la vittoria per 3-0 contro l’Athletic Bilbao in finale di Europa League, grazie a quel Radamel Falcao che nella sua carriera Simeone aveva già incontrato al River Plate. In meno di un anno aveva trasformato un’accozzaglia di giocatori in una squadra.
GettySECONDO COMANDAMENTO: “L’IMPEGNO NON È NEGOZIABILE”
Uno dei concetti trasmessi dal Cholo nel primo allenamento al Vicente Calderon è stato quello dell’impegno. Che no, non è negoziabile. Se fai parte della formazione di Simeone non puoi trattare sull’agonismo.
“Per me ha le palle e mi piacciono le persone così”. (Cristiano Ronaldo)
All’indomani del successo in Europa League l’Atletico è il simbolo tangibile, nonché definizione chiara e semplice di “perseveranza”. Simeone l’aveva preso dal vuoto e l’aveva riportato in cielo, ma la religione non può fondarsi solo su precetto. Ha bisogno di sostanza e costanza.
Una delle più consolidate convenzioni del calcio spagnolo, in quegli anni, riguardava il fatto che i Colchoneros non avrebbero mai potuto vincere contro il Real Madrid. A supporto di questa tesi i tredici anni di successi dei Blancos contro i “cugini”, vessati e scontati. Quasi neanche presi in considerazione.
Sulla panchina del Real José Mourinho, fresco della Liga vinta l’anno prima e alla ricerca del successo in Champions League che, con ogni probabilità, avrebbe fatto di lui se non il più grande allenatore in assoluto, di sicuro il più importante della storia delle Merengues. La storia racconta che la fortuna di alzare al cielo la “Decima” toccherà a Carlo Ancelotti: Mou, comunque, non passerà inosservato.
Quando non vinci per così tanto tempo contro i rivali di sempre si instilla nella tua mente una costante paura latente che ti porta, pur con i migliori presupposti, a perdere tutte le tue certezze e a crollare. O, almeno, finché non arriva qualcuno a controbilanciare le preoccupazioni con la fredda consapevolezza di potercela fare. Anche ai supplementari.
Per uno strano caso la finale di Copa del Rey del 2013 che vede affrontarsi Real e Atletico si gioca al Bernabeu: alla faccia del campo neutro. I Blancos passano in vantaggio con Cristiano Ronaldo a cui risponde Diego Costa. I novanta minuti terminano in parità, ma il Cholo chiama a raccolta i suoi: “Non cambio nessuno”. Restano i titolari: il goal decisivo arriva al centesimo minuto con un colpo di testa di Miranda. E tanti saluti al Real Madrid: perseveranza. Ce l’avevano fatta. A casa loro.
GettyTERZO COMANDAMENTO: “IL PERICOLO PIÙ GRANDE VIENE DAI PENSIERI”
“Il pericolo più grande viene dai pensieri, non dall’avversario: vinceremo, segnerò un goal. Dovrei chiamare mia madre oppure mio padre? In che parte della tribuna saranno? Questo è il veleno più tossico che esista: se la testa ti si riempie di certi pensieri ossessivi, ti blocchi”. (Diego Pablo Simeone)
È il 90’ e allo Stadio da Luz l’Atletico ha una mano e mezza sulla Champions League, un anno dopo aver battuto il Real in finale di Copa del Rey: ci aveva pensato Diego Godin a portare in vantaggio i Colchoneros, superando Iker Casillas, autore di una goffa uscita a inizio partita.
Pochi giorni prima l’uruguaiano si era resto protagonista di una delle pagine più importanti della storia dell’Atletico: un altro colpo di testa, questa volta al Camp Nou contro il Barcellona, decisivo per l’1-1 all’ultima giornata e per la vittoria della Liga. A tal proposito vale la pena ricordare un episodio emblemetico di quella giornata. A fine gara chiama a raccoglie tutto lo staff tecnico e si presenta con i suoi collaboratori in conferenza stampa: il successo va condiviso. Èdi tutti.
Andava già bene così: ma si sa, com’è. Sei in finale di Champions League: stai vincendo contro i rivali di sempre. Manca una manciata di secondi: cosa può andare storto?
“Quando penserà a Lisbona vedrà la mia faccia e maledirà me e tutta la mia famiglia”. (Sergio Ramos)
C’è poco da dire, su quel colpo di testa di Sergio Ramos: il pallone di Luka Modric, l’atmosfera, il boato della curva. Poi? Poco altro, sì. “Se la testa si riempie di certi pensieri ossessivi, ti blocchi”: ha ragione il Cholo. Erano già campioni, già sul palco: la Decima? Andata: questa sera si festeggia alla Fuente de Neptuno, mentre la Fuente de Cilebes fa silenzio e ammira. Macché: Stacco di testa, l’esultanza, il 4-1 finale. Il sogno sfuma, esprimendo uno dei più amari e crudi comandamenti del Cholismo.
Amazon Prime VideoQUARTO COMANDAMENTO: “LE COSE CAMBIANO SE TU CAMBI”
“Venne a un allenamento e parlammo di come facevamo le ripartenze, il pressing alto o a centrocampo di come attaccavamo i piccoli spazi. Poi mi dice una cosa che al tempo mi lasciò esterrefatto, ma che poi ho capito essere alla base della personalità del Cholo. Gli stavo dicendo: ‘Noi facciamo così’, e lui ‘Questo non fa per me, non mi piace’. E io pensai: ‘Che carattere, quest’uomo farà strada’”. (Pep Guardiola)
Una delle partite simbolo del Cholismo è la sfida tra il Bayern Monaco e l’Atletico Madrid, semifinale di ritorno della Champions League 2016. All’andata era finita 1-0 per i Colchoneros, ma all’Allianz Arena va in scena un incubo. I bavaresi attaccano per tutta, ma proprio tutta la partita, chiudendo i giocatori di Simeone nella loro area di rigore. Cioè: non nella loro metà campo. Mai vista una roba simile. Poteva finire 4-0: segna Xabi Alonso alla mezz’ora. Dell’Atletico in attacco neanche l’ombra. A inizio ripresa c’è una ripartenza condotta e conclusa da Antoine Griezmann, freddissimo davanti a Manuel Neuer. Da quel momento in poi non c’è più calcio: è solo guerra.
“L’area divenne una trincea e l’ho fatto senza vergogna”. (Diego Pablo Simeone)
Il goal di Robert Lewandowski al 74’ è inutile: la faccia e le parole di Guardiola dicono tutto. “Io non sono mai capace di fare catenaccio: però ammiro la sua capacità di resistere e resistere e resistere perché sa che a un certo punto la squadra creerà la giusta occasione”. Il Cholismo logora, ma in finale non andrà diversamente dal 2014: se fosse esistito davvero un Dio del calcio avrebbe fatto vincere i Colchoneros, anche solo per quanto fatto vedere a San Siro. La coppa, però, andrà ai ragazzi di Zidane. Pazienza.
Getty“Le cose cambiano se tu cambi”, spiega il Cholo. E ha ragione: superati i dieci anni da allenatore dell’Atletico Madrid può dire di aver vinto due Liga all’ultima giornata (l’ultima nel 2021 sul campo del Real Valladolid), altri trofei prestigiosi (un'altra Europa League nel 2018) e di aver trasformato il credo di una squadra in religione. Persino quando, al termine della finale di San Siro, presentandosi ai microfoni disse “è il momento di riflettere”, omostrando “los huevos” pochi anni dopo, in un 2-0 contro la Juventus, “restituito” da Cristiano Ronaldo all’Allianz Stadium, con gesto annesso. Anche questo è il Cholismo: perseveranza, cambiamento, identità e capacità di rialzarsi dopo le delusioni. Spirito e persino chiaroveggenza: con buona pace della signora Nilda.


