È l’84’ al Pittodrie quando Scott Brown prende palla e viene affrontato da due giocatori dell’Aberdeen, in maniera rude: resiste al primo intervento, un sandwich ben condito da calcioni e tacchettate, si rialza e va via a Sam Cosgrove che, sorpreso di vederlo ancora in piedi, gli rifila una gamba tesa ad altezza ginocchio, facendolo ruzzolare per pochi metri, mentre Shay Logan gli spara addosso il pallone. Scottie si rialza, allarga le braccia e si lascia andare a un urlo liberatorio a metà tra l’onnipotenza fisica e la scarica di adrenalina. Si sistema la maglia del Celtic e mima quattro passi di danza, accennata. Quattro anni dopo, sempre al Pittodrie, gioca la penultima gara della sua carriera: 65 minuti contro il St. Johnstone, con la fascia al braccio. Ma degli Hoops neanche l’ombra.
Ha salutato Glasgow nella stagione precedente: un addio sorprendente dopo 15 anni vissuti da leader assoluto di un club che trascende le epoche calcistiche, spianando la strada alla fedele ricostruzione di una carriera terminata nella maniera più naturale possibile. L’inizio del percorso da allenatore.
Per comprendere meglio l’uomo Scott Brown bisogna innanzitutto partire dalle parole del CEO del Celtic, Peter Lawwell, che per salutare il suo capitano ha utilizzato, nella nota d’addio anticipata dall’intestazione “Captain. Leader. Legend”, parole nette.
“Brown è stato senza dubbio la figura più influente nel calcio scozzese negli ultimi quindici anni”. Ha ragione.
L’ultima stagione da calciatore di Scottie non è stata la sua migliore in assoluto, ma ha avuto modo di imparare quel che gli servirà dal prossimo anno, quando ricoprirà il ruolo di allenatore del Fleetwood Town, in Football League 1. E qui bisogna fermarsi un attimo per notare i tanti, troppi cambiamenti che gli ultimi anni hanno fatto capolino nella vita di uno degli atleti più discussi (e usati, a scopi prettamente speculativi) degli ultimi decenni.
Il viso definito, a differenza della reazione al Pittodrie in quell’Aberdeen-Celtic del 2018, questa volta nasconde una certa compostezza: nella prima intervista rilasciata da nuovo tecnico dei Fishermen è persino imbarazzato. Sorride e sfugge allo sguardo del giornalista che lo incalza: è un altro Scott Brown, insomma. Anni luce distante da quello che, ad Hampden Park nel 2007, dopo una delle due semifinali di Tennent’s Cup sfidava il cronista della BBC, autore di una sequenza infinita di domande sulla settimana precedente, quella che aveva visto gli allora giocatori dell’Hibernian (squadra di cui Brown faceva parte) incontrare il presidente Rod Petrie per lamentarsi del proprio allenatore, John Collins. Una scena mica da ridere. Brown risponde a tutte le domande con un irriverente “I don’t know”, sintetizzato in un più semplice “Donnou”: insomma non vedo, non sento, non parlo, con lo sguardo fisso e provocatorio.
The Blackpool GazetteLo Scottie che si siede nello spogliatoio del Fleetwood, invece, è imbarazzato, messo a nudo dalla confidenza: sorride a disagio, con le spalle al muro. È un uomo nuovo.
“Farò degli errori: è il mio primo incarico e se non faccio errori è un miracolo”, ha raccontato al “Blackpool Gazette”.
Non è stato sempre così, Scott Brown. Uno degli episodi più rappresentativi della sua carriera al Celtic è, ovviamente, quello che segue la rete a Ibrox nell’Old Firm di coppa del febbraio del 2011. Un mancino a giro imprendibile Allan McGregor, che probabilmente da uno come “Broony” non si aspettava mica una conclusione così. Lui, che è sempre stato “sostanza” prima che “tecnica”, lasciata nel cassetto al momento del suo trasferimento dall’Hibernian al Celtic, così come le ambizioni di una mezz’ala che si è trovata, col tempo, a far da schermo in mezzo al campo.
In ogni caso, quella rete verrà per sempre ricordata per l’esultanza associata: per tutta la gara Brown e El-Hadji Diouf se l’erano date di santa ragione. Chi vuoi che capiti sotto gli occhi del capitano del Celtic dopo il goal? L’attacante senegalese, che si vede alzare in faccia le braccia da “Broony”, con tanto di espressione seria e fiera. I due, poi, si abbracceranno a fine partita: perché Scottie è sempre stato così. Nemici in campo, rispetto massimo fuori.
“Ho goduto tanto”, dirà anni dopo a Football Daily Clips. Gli crediamo sulla parola.
GettyDal punto di vista strettamente statistico Scott Brown è uno dei tre capitani (con Billy McNeill, ex Celtic, che vanta una striscia dalla stagione 1965/66 a quella 1973/74, e con Richard Gough, ex Rangers, con una striscia dalla stagione 1988/89 a quella 1996/97) ad aver vinto nove campionati scozzesi consecutivi con la stessa squadra. In totale, in termini di presenze, 611 con 46 goal con gli Hoops.
L’ultimo caso che vogliamo ricordare riguarda sempre l’Old Firm, ma quello del marzo del 2019: questa volta non affronta un uomo composto come Diouf, ma “El Bufalo” Alfredo Morelos. Non certo uno che si tira indietro.
Alla mezz’ora al Paradise l’attaccante dei Rangers viene spedito fuori dal campo, ma da casa bisogna attendere il replay per giustificare le urla del pubblico presente: Brown e Morelos battibeccano a palla lontana, il capitano del Celtic gli passa dietro e “El Bufalo” gli rifila una gomitata. O un accenno di gomitata: insomma, quel tanto che basta per farlo ruzzolare a terra e far scattare il cartellino rosso.
Proteste, rissa: clima ideale per l’Old Firm, si intende. Broony viene medicato e viene portato fuori dal campo, Morelos ci mette un po’ per lasciare il terreno di gioco, con Steven Gerrard visibilmente contrariato, ma abituato a reazioni del genere da parte del suo attaccante. Brown, in tutto questo, nel frattempo, è ad altezza quarto uomo che si disseta: aspetta l’uscita del suo avversario e gli ride in faccia, consapevole di aver raggiunto il suo scopo. L’uomo neanche tanto invisibile più importante della storia recente del Celtic: capitano, leader. Leggenda.




